CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 novembre 2022, n. 32680
Licenziamento – Dirigente – Sottoscrizione di un patto di stabilità retrodatato particolarmente gravoso per la società datrice – Proporzionalità della sanzione espulsiva
Fatti di causa
1. M. Z., dirigente assunto dalla F. s.p.a. dal 1 marzo 2013 e licenziato il 10 luglio 2014, adì il Tribunale di Bergamo per sentir accertare e dichiarare l’illegittimità del licenziamento intimatogli per genericità della contestazione disciplinare, mancanza di giusta causa e giustificatezza e chiedeva la condanna della società al pagamento delle somme a lui spettanti in applicazione del patto di stabilità sottoscritto dalle parti ovvero, in subordine, al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso (€ 242.077,87) e delle somme dovute a titolo di incidenza del preavviso sul tfr (€ 17.931,69) e dell’indennità supplementare (€ 363.116,80). Chiese, inoltre, la condanna della convenuta al pagamento di € 141.666,66 per l’anno 2013 ed € 85.000,00 per l’anno 2014 in relazione alla mancata assegnazione degli obiettivi ed € 363.116,80 per danno da perdita di chance.
2. Tribunale di Bergamo accolse solo in parte il ricorso e ritenne privo di giusta causa ma supportato da giustificatezza il recesso evidenziando che il ricorrente era risultato compartecipe della elaborazione di un patto di stabilità particolarmente oneroso per la società. Pertanto, condannava la società a pagare la sola somma chiesta a titolo di indennità sostitutiva del preavviso quantificata in € 115.795,97.
3. La Corte di appello di Brescia, investita del gravame da parte della società e dello Z., ravvisava nella condotta di quest’ultimo una giusta causa di recesso e lo condannava a restituire le somme percepite in esecuzione della sentenza di primo grado.
3.1. Il giudice di appello riteneva che il licenziamento non fosse affetto da violazione dell’art. 7 dello Statuto in quanto al lavoratore era stato assicurato il termine di cinque giorni per rendere le sue giustificazioni (la contestazione era del 2 luglio, le giustificazioni del 7 luglio ed il licenziamento del 10 luglio). Osservava che l’aver sollevato dall’incarico rivestito il ricorrente, affidandolo ad interim all’Amministratore Delegato, integrava una sospensione cautelare giustificata dalla gravità degli addebiti e non un anticipato licenziamento.
3.2. Escludeva poi che la contestazione di addebito potesse essere ritenuta generica atteso che erano stati indicati i comportamenti omissivi disciplinarmente rilevanti imputatigli in relazione alla sua qualifica dirigenziale ed in un definito arco temporale tanto che le giustificazioni erano state puntuali e le difese mirate.
3.3. Quanto al merito del licenziamento – oggetto di appello principale dello Z. per la parte in cui il Tribunale aveva ritenuto che l’addebito riguardante il patto di stabilità e la sua retrodatazione fosse di per sé idoneo a sorreggere il licenziamento seppure sotto il profilo della giustificatezza e non della giusta causa mentre con il ricorso incidentale della F. s.p.a. era stata impugnata anche la statuizione con la quale erano state ritenute prive di rilievo le altre condotte pure contestate – il giudice di appello riteneva che il ricorso della società fosse fondato e rigettava, invece, quello del lavoratore.
3.4. Il giudice di appello escludeva in primo luogo che la società avesse trattato in maniera differente due dirigenti ai quali era stata addebitata la medesima condotta (la sottoscrizione in corso di rapporto e con la connivenza dell’allora AD di un patto di stabilità retrodatato particolarmente gravoso per la società) avendo accertato che entrambi i lavoratori erano stati licenziati. Perciò era stata esclusa qualunque incoerenza nella condotta datoriale di intimare il licenziamento per giusta causa anche in relazione a tale comportamento. Verificava poi che il patto, oggetto di trattativa alla fine del 2013 ed il cui testo definitivo risaliva al 6 febbraio 2014, era stato volutamente retrodatato alla data di assunzione dello Z. il 9.1.2013; che non si trattava della formalizzazione di un accordo a quella data già intervenuto; che era evidentemente sbilanciato in favore del dirigente e che le condizioni riportate non erano quelle contenute nel modello inviato dai legali di fiducia della F. ma era stato formato con la connivenza dell’allora AD che peraltro non ne aveva il potere per garantirsi, in un momento di crisi del settore di operatività della società e della società stessa, una situazione di particolare sicurezza anche per il caso in cui lo stesso AD fosse stato esautorato come in effetti avvenne; che era stato inserito nel fascicolo del dirigente solo dopo la nomina del nuovo amministratore delegato della società; che lo Z. per il ruolo rivestito, di responsabile delle risorse umane della società era ben consapevole del fatto che il patto, per il suo contenuto e per i tempi in cui era stato realmente formato e sottoscritto, era in aperto conflitto con gli interessi della società. In esito a tali accertamenti la Corte territoriale ha ritenuto che la condotta accertata integrasse una giusta causa di recesso dal rapporto di lavoro tenuto conto del ruolo apicale rivestito dallo Z. caratterizzato da un elemento fiduciario particolarmente spiccato ed intenso e con innalzamento della soglia di rilevanza dei fatti idonei ad incidere sul relativo vincolo stante la gravità della condotta addebitata, alla sua portata oggettiva e soggettiva alla circostanze in cui è stata posta in essere ed all’intensità dell’elemento intenzionale (direttore risorse umane che rispondeva direttamente all’AD e al consiglio di amministrazione).
4. Per la cassazione della sentenza ricorre M. Z. con otto motivi. Resiste con controricorso F. s.p.a. che propone ricorso incidentale condizionato affidato ad un unico motivo cui si oppone con controricorso lo Z.. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Ragioni della decisione
5. Con il primo motivo di ricorso è denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, co. 1, n. 5, nonché la violazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, ed in relazione all’interpretazione dell’art. 2119 c.c., perché la Corte, non verificando a livello documentale alcuni scambi mail tra il ricorrente e il giuslavorista di fiducia della società, che gli ha fornito il testo di un patto di stabilità poi firmato con l’azienda, ha ritenuto che il ricorrente abbia modificato il testo fornito a proprio favore. Non confrontando i due testi, il giudice di appello non ha colto che, al contrario, le modifiche apportate fossero in peius rispetto a quanto previsto dallo studio legale.
5.1. Sostiene il ricorrente che tale errore avrebbe viziato in modo determinate il convincimento del giudice orientandolo nel senso di una condotta dolosa e gravemente inadempiente di Z., definito “assolutamente spregiudicato nel perseguire interessi del tutto contrari a quelli del datore di lavoro”.
6. La censura presenta sia profili di inammissibilità che di infondatezza.
6.1. Anche a voler tralasciare il fatto che con il medesimo motivo vengono proposte indistintamente censure di violazione di legge e di vizio di motivazione (cfr. per l’inammissibilità della censura formulata in tal modo Cass. 23/10/2018 n. 26874) sotto l’aspetto del vizio di motivazione in termini di omesso esame di fatti decisivi, va rilevato che il ricorrente trascura di chiarire come il fatto che il patto concluso fosse meno favorevole rispetto a quello proposto dal legale di fiducia della società (circostanza che il ricorrente assume sarebbe stata desumibile da un esame delle e-mail intercorse tra lo Z. e lo studio legale da lui interpellato) avrebbe orientato diversamente la soluzione della controversia.
6.2. Rileva il Collegio che la Corte territoriale, nell’esercizio del potere attribuitole di valutare il materiale probatorio acquisito scegliendo tra le risultanze quelle più idonee a dimostrare il convincimento raggiunto, ha ritenuto assorbente, per qualificare la condotta del lavoratore e la sua gravità, il fatto che il patto di stabilità sia stato contrattato dallo Z. direttamente con l’ amministratore delegato, che non ne aveva i poteri e nel corso del rapporto di lavoro già da tempo iniziato, senza che della questione sia mai stato interessato il consiglio di amministrazione della società. Il giudice di appello ha valorizzato l’irritualità del metodo seguito per l’adozione di un patto molto impegnativo per la società ed ha accertato l’insussistenza del potere decisionale sul punto dell’amministratore delegato. La corte ha pure escluso, sulla base delle prove assunte, che il patto non fosse altro che la formalizzazione di un accordo già preso. Ha dato compiutamente conto della ragione per la quale le dichiarazioni rese dal teste R. (l’allora amministratore delegato che aveva sottoscritto il patto senza averne i poteri, circostanza questa pacifica oltre che accertata in altri giudizi) stante la situazione di potenziale conflitto di interessi esistente, non potevano essere ritenute attendibili. In tale contesto probatorio la circostanza che si pretende omessa, vale a dire che il contenuto del patto sottoscritto fosse peggiorativo rispetto al format fornito dallo studio legale esterno, non è decisiva ove si consideri che, comunque, la Corte di merito ha verificato l’esistenza di un oggettivo notevole sbilanciamento in favore del lavoratore al quale era assicurata l’ azionabilità del patto in ogni caso di recesso, anche giustificato sia sotto il profilo economico che temporale. In definitiva la censura si risolve nella pretesa di una diversa valutazione dei fatti complessivamente esaminati dalla Corte territoriale che pertanto è inammissibile.
6.3. Neppure è ravvisabile la denunciata violazione dell’art. 115 c.p.c. posto che per poterne ritenere la sussistenza è necessario che il giudice abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. di recente Cass. 01/03/2022 n. 6774 ma già Cass. 30/09/2020 n. 20867).
7. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 360, co. 1 n. 3 in relazione all’art. 2105 c.c., per avere la Corte ritenuto che, nell’intrattenere rapporti con il giuslavorista della società per aspetti tecnici riguardanti il proprio rapporto di lavoro, il ricorrente abbia compiuto atti contrari all’obbligo di fedeltà, tali da legittimare il licenziamento. Così decidendo, la Corte avrebbe attribuito rilievo, in termini di responsabilità oggettiva, al ruolo aziendale del ricorrente e ad un presunto conflitto di interessi, senza valorizzare il fatto che rivolgersi, nella veste di Responsabile risorse umane, al legale di F., per aver la bozza del patto di stabilità, costituisse invece atto espressione di una particolare diligenza e che, al contrario, ove mosso da intenti illeciti, il ricorrente avrebbe operato in modo del tutto diverso, evitando di informare altri se non l’amministratore delegato che tale patto firmò.
8. Anche tale motivo è inammissibile poiché, ancora una volta, si risolve nella richiesta di diversa valutazione di fatti – già presi in esame dal giudice di appello che ne ha esaminata l’incidenza sul procedimento di formazione del patto ritenendola del tutto marginale. Il ricorrente nella sostanza ne propone una valutazione diversa ed a sé più favorevole, assumendo che gli stessi fossero piuttosto indicativi di una condotta corretta e della sua buona fede. Ancora una volta la censura si risolve in un diverso apprezzamento dei fatti non censurabile in questa sede.
9. Il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 2348 c.c., in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., e dell’art. 2105 c.c. in relazione all’art. 2119 c.c. oltre che violazione degli art. 1388 c.c. e 2704 c.c. sempre in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c. per avere la Corte S ritenuto che il ricorrente non potesse ignorare che l’amministratore delegato della società che firmò il patto non avesse poteri ed autonomia per impegnare la società in tal senso.
9.1. Ritiene il ricorrente che, così decidendo, la Corte ha ignorato che le obbligazioni assunte dall’ amministratore delegato e legale rappresentante dell’azienda erano perfettamente idonee ad impegnare la società. Deduce poi che seppure avesse conosciuto il contenuto delle delibere che limitavano i poteri dell’amministratore delegato, comunque, tale conoscenza sarebbe stata irrilevante, posto che non era risultata dimostrata la dolosità del comportamento.
9.2. Sottolinea poi che, inoltre, la Corte avrebbe trascurato di considerare l’ininfluenza della data apposta al patto di stabilità, atteso che l’art. 2704 c.c. non prescrive, come requisito essenziale dell’atto, la necessità di coincidenza tra la data apposta con quella di reale sottoscrizione del documento e che un patto retrodatato, come quello in esame, semmai ne abbreviava la vigenza a vantaggio dell’azienda.
10. Il motivo è inammissibile. Pur denunciandosi una violazione di legge, infatti, si pretende di ricostruire i fatti allegati e valutati dalla Corte di appello in termini sostanzialmente contrappositivi ed in una prospettiva più favorevole. La Corte territoriale ha analiticamente esaminato il materiale probatorio desumendone che lo Z., direttore delle risorse umane della società e diretto riporto dell’amministratore delegato della stessa, aveva intenzionalmente, e con la connivenza di quest’ultimo che non ne aveva i poteri, predisposto il patto di stabilità a sé favorevole in corso di rapporto e senza che ne fosse stato informato il consiglio di amministrazione e da tale complesso di dati ha tratto il convincimento, motivato e qui incensurabile, della piena consapevolezza da parte del beneficiario della irritualità del metodo adottato.
11. Il quarto motivo denuncia la violazione degli art. 1362 c.c. e 1353 c.c., in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., nonché violazione dell’art. 2105 c.c. e dell’art. 2119 c.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n 3 c.p.c., per l’erronea interpretazione di un patto di stabilità che comportava conseguenze economiche rimesse, in via quasi esclusiva, alla condizione potestativa della sola società proponente.
11.1. Deduce il ricorrente che la Corte territoriale – che l’aveva ritenuto responsabile, con la complicità dell’AD, dell’ideazione e formazione in proprio favore un patto di stabilità con un contenuto irragionevole e particolarmente gravoso per l’azienda – non aveva indagato che l’importo previsto a carico della società nell’ipotesi di recesso aziendale non aveva alcun connotato di eccezionalità, e che la presunta gravosità del patto era del tutto eventuale, non oggettiva, e dipendente dalla volontà aziendale.
Sottolinea che infatti il beneficiario delle garanzie del patto non aveva alcun potere di attivare le garanzie in proprio favore.
11.2. Inoltre, erroneamente, il giudice di secondo grado aveva ritenuto che il ricorrente avrebbe dovuto percepire la natura pregiudizievole dell’accordo anche in ragione di fatti che avevano incrinato i rapporti tra l’amministratore delegato e il consiglio di amministrazione della F., di cui, tuttavia, non vi era alcuna evidenza esterna e sostiene che in caso di mancanza di giusta causa avrebbe percepito compensi analoghi e da questo desume che non ci poteva essere mala fede.
12. Il motivo è inammissibile.
12.1. Con lo stesso si oppone una diversa ricostruzione complessiva dei fatti acquisiti al processo e piuttosto che denunciare un errore di interpretazione del patto se ne propone una diversa valutazione sotto il profilo della sua incidenza sulla ritenuta malafede del lavoratore che nel sottoscriverlo è stato ritenuto consapevole della sua particolare gravosità per l’impresa.
12.2. Va qui ribadito che ove si intenda denunciare, con il ricorso per cassazione, un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’ interpretazione di una patto, non ci si può limitare a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c. gravando sul ricorrente l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato. Le censure non possono, infatti, risolversi nella mera contrapposizione tra l’ interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni (cfr. Cass. 28/11/2017 n. 28319 e 27/06/2018 n. 16987).
13. Il quinto motivo di ricorso – con il quale è denunciata la violazione ed errata interpretazione degli art. 2104 c.c., 2105 c.c. e 2119 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., ed il cattivo uso dell’art. 2729 c.c, per l’erroneo rilievo attribuito, ai fini della valutazione di una giusta causa di licenziamento, alla circostanza che il patto di stabilità sottoscritto dall’A.D. non sarebbe stato rinvenuto nella cartella personale del ricorrente – è di nuovo un inammissibile riesame dei fatti. Si pretende da questa Corte un diverso apprezzamento del fatto che il patto di stabilità non era conservato nel fascicolo personale del ricorrente e che lo stesso era stato spontaneamente consegnato dallo Z. al nuovo amministratore delegato. Si tratta ancora una volta di censura che impinge nella valutazione dei fatti riservata al giudice di merito.
14. Con il sesto motivo si denuncia la violazione dell’art. 2119 c.c. e degli art. 1 e 3 della Legge 15 luglio 1966 in relazione all’art. 360, comma 1, sub 3, nonché la insussistenza di fattispecie sovrapponibile con l’art. 640 c.p., perché la Corte ha ignorato tutte le circostanze del caso concreto, ed in primis il fatto che nel secondo punto della contestazione disciplinare si contestavano al ricorrente svariate omissioni di azioni mirate a contenere i costi: addebito ritenuto in primo grado “del tutto destituito di fondamento” e sufficiente “ad escludere la giusta causa di licenziamento”. La Corte, al contrario, non ha nemmeno esaminato questi punti, ritenendo assorbite, dalla contestazione relativa al patto di stabilità, tutte le altre censure delle parti ed anzi ha accertato che il ricorrente avrebbe “artatamente elaborato” il patto di stabilità, sfruttando l’appoggio dell’AD, senza che però fosse stata offerta alcuna prova di tali presupposti di fatto.
15. Il motivo è infondato.
15.1. Qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa e siano stati contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, ciascuno di essi, autonomamente considerato, costituisce base idonea per giustificare la sanzione e grava sul lavoratore l’onere di dimostrare che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, i singoli episodi fossero tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro (Cass. 28/07/2017 n. 18836). Nella specie la Corte territoriale ha accertato in fatto una delle condotte contestate – l’aver concorso alla predisposizione di un patto di stabilità per sé particolarmente vantaggioso e allo stesso tempo estremamente gravoso per la società, retroattivo, seguendo un percorso irrituale e con la connivenza dell’amministratore delegato che non ne aveva il potere – ne ha valutata la gravità e l’ha ritenuta di per sé sufficiente a giustificare il recesso intimato. Tanto basta.
15.2. Né rileva il fatto che il procedimento penale per truffa ai danni della società si sia concluso con l’assoluzione del ricorrente. Ai fini della legittimità del licenziamento disciplinare irrogato per un fatto astrattamente costituente reato, non rileva la valutazione penalistica del fatto né la sua punibilità in sede penale, dovendosi effettuare una valutazione autonoma in ordine alla idoneità del fatto ad integrare gli estremi della giusta causa o giustificato motivo del recesso (Cass. n. 20731/2007, cui adde Cass.n. 37/2011). Come è stato puntualizzato (cfr. Cass. n. 17652/2007) nel giudizio relativo alla legittimità del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore sulla base di un fatto per il quale sia stata esercitata l’azione penale, il giudice civile non è vincolato dal giudicato penale ed è, quindi, abilitato a procedere autonomamente alla valutazione del materiale probatorio acquisito al processo, nel caso di mancata partecipazione al giudizio penale del datore di lavoro, che pure era stato posto in condizione di farlo. Ed infatti l’art. 654 c.p.p., diversamente dall’art. 652 relativo ai giudizi civili di risarcimento del danno, esclude che possa avere efficacia in un successivo giudizio civile la sentenza penale di condanna o di assoluzione, con riferimento ai soggetti che non abbiano partecipato al giudizio penale, indipendentemente dalle ragioni di tale mancata partecipazione.
15.3. La sentenza impugnata ha motivatamente accertato la gravità dei fatti addotti a sostegno del licenziamento e la proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità di tali fatti e non merita le censure che le sono state mosse.
16. Il settimo motivo, con il quale si denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, co. 1, n. 5 e la violazione dell’art. 2119 c.c. degli artt. 1 e 3 della Legge 15 luglio 1966, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per avere la Corte omesso di considerare che un dirigente apicale collega del ricorrente, destinatario di identico patto di stabilità (per ammissione della F.) era stato mantenuto in forza all’azienda e licenziato successivamente per un motivo diverso, seppur riconducibile a tale documento, è inammissibile trattandosi di circostanza della quale non è stata dimostrata la decisività.
17. Per le medesime ragioni, poi, è inammissibile l’ultimo, ottavo, motivo di ricorso ha ad oggetto la violazione dell’art. 2119 c.c., e degli artt. 1 e 3 della Legge 15 luglio 1966, e dell’art. 7 legge 20 maggio 1970, n. 300, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per l’erroneo riferimento, in motivazione, a considerazioni ricavate dall’esame di pronunce emesse nei confronti di soggetto in posizione diversa (l’AD), e a valutazioni, del tutto neutre sinora, emesse dal magistrato penale, con omessa considerazione della pronunzia con la quale – nell’ipotesi, identica, concernente il collega del ricorrente destinatario dello stesso patto di stabilità – la magistratura del lavoro ha ritenuto del tutto insussistenti i presupposti di giusta causa.
18. In conclusione per le considerazioni esposte il ricorso principale deve essere rigettato restandone assorbito l’esame del ricorso incidentale condizionato con il quale è denunciato ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio e oggetto di discussione da cui risultano le responsabilità ascritte al dott. Z. anche con riferimento al secondo addebito disciplinare mossogli da F. s.p.a. e non esaminato dalla Corte di merito.
19. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale condizionato.
Condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 8.000, 00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
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