CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 ottobre 2021, n. 27310
Licenziamento collettivo – Comunicazione di avvio della procedura – Analitica indicazione delle ragioni tecnico-produttive che non consentono di estendere l’ambito della comparazione al personale con mansioni omogenee impiegato presso le altre unità
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 1038/2019, depositata il 4 marzo 2019, la Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale della medesima sede, decidendo in sede di opposizione, aveva respinto – come già all’esito della fase sommaria del giudizio – le domande proposte da L.D.D. e da S.P. per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento loro intimato da A.C. S.p.A. il 22/12/2016, unitamente agli altri lavoratori già addetti alle Divisioni 1 e 2 della unità produttiva di Roma, a seguito di procedura ex art. 4 ss. I. 23 luglio 1991, n. 223 avviata con lettera del 5/10/2016.
2. La Corte di appello, a sostegno della propria decisione:
– ha escluso che la datrice di lavoro si fosse obbligata a non procedere ai licenziamenti per un periodo di sei mesi in virtù dell’Accordo concluso in data 30/5/2016, che, nel revocare una prima procedura di licenziamento collettivo, aveva previsto, con decorrenza 1/6/2016, il ricorso al contratto di solidarietà, rilevando come la società non avesse assunto alcun impegno specifico in tal senso;
– ha ritenuto che la comunicazione di avvio della procedura contenesse tutti gli elementi richiesti dall’art. 4 I. cit., anche riguardo alla dimensione degli esuberi dichiarati, e che tale conclusione non trovasse ostacolo nella circostanza che la società, nelle lettere di licenziamento, come anche nella predetta comunicazione, aveva manifestato la propria disponibilità a valutare eventuali richieste di trasferimento ad altre unità produttive sul territorio nazionale, per un numero limitato di posizioni (75), non risultando che le organizzazioni sindacali avessero mai preso in considerazione, nel corso dei numerosi incontri successivi, la soluzione dei trasferimenti al fine di limitare gli effetti sul piano occupazionale del programma di riorganizzazione e di ridimensionamento dell’impresa;
– ha escluso la sussistenza di un comportamento ritorsivo o discriminatorio nei confronti dei dipendenti dell’unità produttiva di Roma, poiché le RSU della stessa, rifiutando, in esito all’incontro in sede ministeriale del 21/12/2016, la prosecuzione del confronto con il contestuale ricorso agli ammortizzatori sociali (a differenza delle RSU dell’unità produttiva di Napoli), avevano accettato che la società procedesse alla gestione degli esuberi dichiarati mediante applicazione, per l’unità produttiva di Roma, dei criteri di scelta legali;
– ha considerato legittima la delimitazione della platea dei licenziandi ai lavoratori addetti all’unità produttiva di Roma, avuto riguardo all’ambito del progetto di ristrutturazione aziendale e alla compiuta e analitica indicazione, nella comunicazione di avvio della procedura, delle ragioni tecnico-produttive che non consentivano di estendere l’ambito della comparazione al personale con mansioni omogenee impiegato presso le altre unità;
– ha ritenuto infine legittima l’esclusione del personale con contratto di lavoro parasubordinato dall’applicazione dei criteri di scelta, nell’assenza delle necessarie allegazioni relativamente all’atteggiarsi dei relativi rapporti e alla sussistenza di contratti di collaborazione stipulati successivamente all’1/1/2016 con riferimento alle previsioni di cui all’art. 2 d.lgs. n. 81/2015.
3. Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione i lavoratori con sette motivi, cui ha resistito la società con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. sul rilievo che la Corte di appello di Roma aveva omesso di pronunciarsi sulla illegittimità del licenziamento perché intimato all’esito di una procedura avviata prima della scadenza del semestre di moratoria al cui rispetto la società si era impegnata in occasione della stipula del contratto di solidarietà, illegittimità che era stata oggetto di doglianza in entrambe le fasi del giudizio di primo grado e in grado di appello.
2. Con il secondo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366, 1367 cod. civ., nonché dell’art. 1375 cod. civ., in relazione all’Accordo del 30 maggio 2016, avendo la Corte erroneamente ritenuto che, con l’art. 6 di tale Accordo, le parti avessero concordato semplicemente una mera facoltà, e non un obbligo, per il datore di lavoro, di utilizzare in alternativa ai licenziamenti uno strumento di integrazione salariale.
3. Con il terzo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5 I. 23 luglio 1991, n. 223, nonché dell’art. 1375 cod. civ., per avere la Corte di appello ritenuto che la società avesse correttamente adempiuto l’obbligo informativo previsto dalla procedura, nonostante che la disponibilità ad attenuare gli effetti degli esuberi mediante la ricollocazione di 75 lavoratori fosse stata omessa nella comunicazione di avvio e prospettata soltanto nelle successive lettere di recesso.
4. Con il quarto, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 5 l. n. 223/1991, degli artt. 24 e 25 d.lgs. n. 148/2015, degli artt. 2 e 3 d.lgs. n. 216/2003 e degli artt. 1343, 1344 e 1345 in combinato disposto con l’art. 1375 cod. civ., i ricorrenti censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso un intento ritorsivo o discriminatorio nella decisione della società di procedere ai licenziamenti dei lavoratori addetti all’unità produttiva di Roma, senza valutare se il rifiuto del datore di lavoro di ricorrere alla Cassa Integrazione Guadagni, pur in presenza delle condizioni per accedervi, fosse giustificato ovvero rispondente a correttezza e buona fede, altrimenti determinandosi un oggettivo effetto di discriminazione, in sede di cessazione del rapporto, nei confronti dei lavoratori di Roma, destinatari di un trattamento diverso rispetto ai colleghi di Napoli e riconducibile esclusivamente ad un dissenso che era espressione della libertà sindacale.
5. Con il quinto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 4, 5 e 24 l. n. 223/1991, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto legittima la scelta datoriale di limitare il bacino di comparazione del personale alle sole Divisioni 1 e 2 dell’unità produttiva di Roma, con ciò violando la previsione normativa, secondo la quale l’ambito di selezione degli esuberi di una procedura di licenziamento collettivo deve inderogabilmente riguardare posizioni professionali omogenee impiegate nell’intero complesso aziendale.
6. Con il sesto viene denunciata dai ricorrenti violazione e falsa applicazione dell’art. 5 l. n. 223/1991, degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ., nonché nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 cod. proc. civ., per avere la Corte di appello trascurato di verificare se all’onere di allegazione, nella comunicazione di avvio, delle ragioni tecnico-produttive ed organizzative, che avrebbero giustificato la riduzione della platea dei licenziandi, fosse seguita anche la prova della reale sussistenza di tali ragioni, il cui onere era a carico del datore di lavoro.
7. Con il settimo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 ss. cod. civ. e 414 cod. proc. civ., con riferimento all’eccezione formulata circa l’irrilevanza di una tipizzazione contrattuale ai fini della nozione di lavoratore, nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 4, 5 e 24 l. n. 223/1991, della Direttiva 98/59/UE e dell’art. 2 d.lgs. n. 81/2015, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto non riconducibili alla nozione di “lavoratore” i prestatori di attività lavorativa con rapporto di lavoro parasubordinato presenti nell’unità produttiva di Roma, in subordine prospettando il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia in ordine alla definizione della nozione eurounitaria di lavoratore rilevante ai fini del licenziamento collettivo.
8. Il primo motivo è infondato.
8.1. La Corte territoriale, esaminando l’Accordo del 30 maggio 2016, ha rilevato come la previsione della possibilità di gestire eventuali esuberi, che dovessero residuare al termine di sei mesi del contratto di solidarietà, attraverso il ricorso all’integrazione salariale prevista dall’art. 44, comma 7, del d.lgs. n. 148/2015, contenuta nella clausola di cui all’art. 6, non vincolasse ad alcun impegno specifico la società, ma si limitasse a contemplare “la mera facoltà di ridurre il numero degli esuberi” (cfr. sentenza, p. 22), con ciò rispondendo alla questione che le era stata posta con gli atti di reclamo degli odierni ricorrenti e cioè l’esistenza di una “obbligazione” assunta dalla parte datoriale con la sottoscrizione dell’Accordo (di cui i reclamanti dichiaravano di voler profittare ai sensi dell’art. 1411 cod. civ.) con ogni conseguente effetto di illegittimità del recesso e suo annullamento, secondo quanto risulta dalla trascrizione dei medesimi atti di reclamo (cfr. ricorso, pp. 10-11).
9. Il secondo motivo è inammissibile.
9.1. Esso, infatti, non si confronta con il complessivo supporto argomentativo della sentenza, là dove la Corte di appello, nell’escludere che l’Accordo del 30 maggio 2016 prevedesse alcun obbligo o impegno specifico a carico della società, ha richiamato propri precedenti conformi, affermando di intenderne espressamente riprodotte le motivazioni.
9.2. Come già osservato da questa Corte, la sentenza di merito può essere motivata mediante rinvio ad altro precedente dello stesso ufficio, in quanto il riferimento ai “precedenti conformi” contenuto nell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ. non deve ritenersi limitato ai precedenti di legittimità, ma si estende anche a quelli di merito, ricercandosi per tale via il beneficio di schemi decisionali già compiuti per casi identici o per la risoluzione di identiche questioni, nell’ambito di un più ampio disegno di riduzione dei tempi del processo civile; in tal caso, la motivazione del precedente costituisce parte integrante della decisione, sicché la parte che intenda impugnarla ha l’onere di compiere una precisa analisi anche delle argomentazioni che vi sono inserite mediante l’operazione inclusiva del precedente, alla stregua dei requisiti di specificità propri di ciascun modello di gravame, previo esame preliminare della sovrapponibilità del caso richiamato alla fattispecie in discussione (Cass. n. 17640/2016).
10. Il terzo motivo è inammissibile.
10.1. E’ stato invero ripetutamente affermato che la comunicazione, di cui ai commi 2 e 3 l. 23 luglio 1991, n. 223, ha sia la finalità di far partecipare le organizzazioni sindacali alla successiva trattativa per la riduzione del personale, sia di rendere trasparente il processo decisionale seguito dal datore di lavoro per l’individuazione dei lavoratori potenzialmente destinati ad essere estromessi dall’azienda; e che la verifica di adeguatezza, a tali fini, della comunicazione di avvio della procedura costituisce oggetto di valutazione devoluta al giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità se assistita da congrua motivazione (Cass. n. 15479/2007, fra le molte conformi).
10.2. Nella specie, la Corte di appello ha posto in rilievo come nella comunicazione del 5 ottobre 2016 (punto 5) la società avesse espressamente dichiarato la propria disponibilità a valutare nel corso dell’esame congiunto l’adozione di tutte le misure organizzative che consentissero di fronteggiare le conseguenze sul piano sociale della programmata riduzione del personale e come, fra queste misure, vi fossero anche “i trasferimenti, se compatibili con le esigenze aziendali”, in tal modo indicando la sussistenza di posizioni lavorative libere presso le altre unità produttive non coinvolte dalla procedura: posizioni, e relative possibilità di trasferimento, che non furono mai, nel corso del confronto, prese in esame dalle organizzazioni sindacali, secondo quanto accertato dalla stessa Corte di appello con apprezzamento di fatto non censurato dai ricorrenti (cfr. sentenza, pp. 22-23).
11. Il quarto motivo risulta egualmente inammissibile.
11.1. Esso, infatti, non si misura con l’ampio e articolato percorso motivazionale, che ha condotto la Corte ad escludere ogni intento discriminatorio e punitivo dei lavoratori della sede di Roma (cfr. sentenza impugnata, pp. 9-11), in particolare con la considerazione dei licenziamenti intimati a questi ultimi quale effetto del rifiuto delle RSU della unità produttiva di Roma di proseguire il confronto, a differenza delle RSU dell’unità di Napoli, e del completamento della procedura disciplinata dalla l. n. 223/1991.
12. Il quinto e il sesto motivo, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi, sono infondati.
12.1. Al riguardo si ritiene di dover dare continuità all’orientamento, per il quale, ove il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad una unità produttiva, le esigenze di cui all’art. 5, c. 1, della l. n. 223 del 1991, riferite al complesso aziendale, possono costituire criterio esclusivo nella determinazione della platea dei lavoratori da licenziare, purché il datore indichi nella comunicazione ex art. 4, comma 3, l. n. 223 cit. sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti (Cass. n. 22178/2018; conforme, fra le molte, Cass. n. 4678/2015, ove ulteriori riferimenti giurisprudenziali).
12.2. Nella specie, la Corte di merito ha non solo accertato l’idoneità della comunicazione di avvio della procedura a permettere un utile confronto con le organizzazioni sindacali, dando specificamente conto delle ragioni concrete alla base della decisione di ridurre il personale da licenziare a quello addetto a due sole unità produttive, ma anche l’idoneità di tali ragioni a giustificare, in quanto effettive e ragionevoli, la scelta così operata, tenuto conto degli elementi probatori già desumibili dagli atti del giudizio e di altri desunti dal materiale istruttorio acquisito in controversie aventi oggetto analogo (cfr. sentenza impugnata, pp. 19-21).
12.3. D’altra parte, è consolidato il principio, per il quale, in materia di licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la l. n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda. Sicché i residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più gli specifici motivi della riduzione del personale ma la correttezza procedurale dell’operazione (ivi compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra progettato ridimensionamento e singoli provvedimenti di recesso), con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5, né fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva (cfr., da ultimo, fra le molte conformi, Cass. n. 30550/2018).
13. Risulta infine infondato anche il settimo motivo di ricorso.
13.1. Si deve premettere che, ai fini dell’accertamento della riconducibilità dei prestatori di attività con contratto di lavoro parasubordinato tra i lavoratori soggetti alla procedura di cui agli artt. 4 ss. della l. n. 223/1991, la Corte di appello di Roma (cfr. sentenza, p. 28) ha ritenuto “necessaria un’allegazione, da parte dei ricorrenti, in ordine all’atteggiarsi dei rapporti di lavoro invocati in comparazione”, allegazione che, nel caso concreto, era “mancata”.
13.2. In tal modo il giudice di appello si è uniformato alla giurisprudenza comunitaria, la quale ha chiarito che la qualifica di “prestatore autonomo”, ai sensi del diritto nazionale, non esclude che una persona debba essere qualificata come “lavoratore”, ai sensi del diritto dell’Unione, se la sua indipendenza è solamente fittizia e nasconde in tal modo un vero e proprio rapporto di lavoro; con la conseguenza che lo status di “lavoratore” ai sensi del diritto dell’Unione non può essere pregiudicato dal fatto che una persona è stata assunta come prestatore autonomo di servizi ai sensi del diritto nazionale, per ragioni fiscali, amministrative o burocratiche, purché tale persona agisca sotto la direzione del suo datore di lavoro, per quanto riguarda in particolare la sua libertà di scegliere l’orario, il luogo e il contenuto del suo lavoro, non partecipi ai rischi commerciali di tale datore di lavoro e sia integrata nell’impresa di detto datore di lavoro per la durata del rapporto di lavoro, formando con essa un’unità economica (sentenza 4 dicembre 2014, in causa C- 413/13, punti 35-36; cfr. anche sentenza 11 dicembre 2015, in causa C-422/14, punti 28-30).
14. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
15. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
16. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dell’art. 13 D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.