CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 ottobre 2021, n. 27311
Licenziamento collettivo – Comunicazione – Gestione degli esuberi dichiarati – Applicazione dei criteri di scelta legali
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 2016/2019, pubblicata il 13 maggio 2019, la Corte di appello di Roma ha confermato, salvo che nel regolamento delle spese, la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale della medesima sede, decidendo in sede di opposizione, aveva respinto – come già all’esito della fase sommaria – la domanda proposta da A.G. volta a ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli da A.C. S.p.A. il 22/12/2016, unitamente agli altri lavoratori già addetti alle Divisioni 1 e 2 dell’unità produttiva di Roma, a seguito di procedura ex art. 4 ss. I. 23 luglio 1991, n. 223 avviata con lettera del 5/10/2016.
2. La Corte di appello, a sostegno della propria decisione:
– ha escluso che la datrice di lavoro si fosse obbligata a non procedere ai licenziamenti per un periodo di sei mesi in virtù dell’Accordo concluso in data 30/5/2016, che, nel revocare una prima procedura di licenziamento collettivo, aveva previsto, con decorrenza 1/6/2016, il ricorso al contratto di solidarietà;
– ha ritenuto che la comunicazione di inizio della procedura rispondesse alle finalità proprie dell’art. 4 l. n. 223/1991, contenendo tutti gli elementi necessari a rendere effettivo il confronto con le organizzazioni sindacali, non soltanto con riguardo alle ragioni della crisi aziendale e alle specifiche criticità delle sedi interessate ma anche con riguardo alla dimensione degli esuberi dichiarati e che, in relazione a quest’ultimo punto, non rilevasse in senso contrario la circostanza che la società, nelle lettere di recesso, avesse manifestato la propria disponibilità a valutare eventuali richieste di trasferimento ad altre unità produttive sul territorio nazionale, per un numero limitato di posizioni (75), non risultando che le organizzazioni sindacali avessero mai preso in considerazione, nel corso dei numerosi incontri successivi all’avvio della procedura, la soluzione dei trasferimenti al fine di limitare gli effetti sul piano occupazionale del programma di riorganizzazione e di ridimensionamento dell’impresa;
– ha escluso la sussistenza di un comportamento ritorsivo o discriminatorio nei confronti dei dipendenti dell’unità produttiva di Roma, poiché le RSU della stessa, rifiutando, in esito all’incontro in sede ministeriale del 21-22/12/2016, la prosecuzione del confronto con il contestuale ricorso agli ammortizzatori sociali (a differenza delle RSU dell’unità produttiva di Napoli), avevano accettato che la società procedesse alla gestione degli esuberi dichiarati mediante applicazione, per l’unità produttiva di Roma, dei criteri di scelta legali;
– ha considerato legittima la delimitazione della platea dei licenziandi ai lavoratori addetti all’unità produttiva di Roma, avuto riguardo all’ambito del progetto di ristrutturazione aziendale e alla compiuta e analitica indicazione, nella comunicazione di avvio della procedura, delle ragioni tecnico-produttive che non consentivano di estendere l’ambito della comparazione al personale con mansioni omogenee impiegato presso le altre unità;
– ha ritenuto infine legittima l’esclusione del personale con contratto di lavoro parasubordinato dall’applicazione dei criteri di scelta, in assenza degli elementi dai quali desumere che le collaborazioni coordinate e continuative in essere presso la società integrassero la speciale categoria di collaborazioni previste dal decreto legislativo n. 81/2015 e tenuto conto dell’assegnazione del personale in questione ad attività del tutto diverse da quelle svolte dai destinatari dei provvedimenti di licenziamento.
3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il G. con nove motivi, cui ha resistito la società con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. sul rilievo che la Corte di appello aveva omesso di pronunciarsi sulla questione della illegittimità del licenziamento perché intimato all’esito di una procedura avviata prima della scadenza del semestre di moratoria al cui rispetto la società si era impegnata in occasione della stipula del contratto di solidarietà, illegittimità che era stata oggetto di doglianza in entrambe le fasi del giudizio di primo grado e in grado di appello.
2. Con il secondo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366, 1367 cod. civ., nonché degli artt. 1375, 1218, 1455, 1460 e 1183 cod. civ., in relazione all’Accordo del 30 maggio 2016, avendo la Corte erroneamente ritenuto che, con l’art. 6 di tale Accordo, le parti avessero concordato semplicemente una mera facoltà, e non un obbligo, per il datore di lavoro, di astenersi dall’adottare licenziamenti collettivi nel periodo di sei mesi dalla stipula del contratto di solidarietà e di fare ricorso alla CIGS per la gestione di eventuali esuberi successivi.
3. Con il terzo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5 l. 23 luglio 1991, n. 223, nonché dell’art. 1375 cod. civ., per avere la Corte dì appello ritenuto che la società avesse correttamente adempiuto l’obbligo informativo previsto dalla procedura, nonostante che la disponibilità ad attenuare gli effetti degli esuberi mediante la ricollocazione di 75 lavoratori fosse stata omessa nella comunicazione di avvio e prospettata soltanto nelle successive lettere di recesso.
4. Con il quarto, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 5 l. n. 223/1991, degli artt. 24 e 25 d.lgs. n. 148/2015, degli artt. 2 e 3 d.lgs. n. 216/2003 e degli artt. 1343, 1344 e 1345 in combinato disposto con l’art. 1375 cod. civ., il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso un intento ritorsivo o discriminatorio nella decisione della società di procedere ai licenziamenti dei lavoratori addetti all’unità produttiva di Roma, senza valutare se il rifiuto del datore di lavoro di ricorrere alla Cassa Integrazione Guadagni, pur in presenza delle condizioni per accedervi, fosse giustificato ovvero rispondente a correttezza e buona fede, altrimenti determinandosi un oggettivo effetto di discriminazione, in sede di cessazione del rapporto, nei confronti dei lavoratori di Roma, destinatari di un trattamento diverso rispetto ai colleghi di Napoli e riconducibile esclusivamente ad un dissenso che era espressione della libertà sindacale.
5. Con il quinto motivo (indicato in ricorso come sesto), denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366, 1367, nonché dell’art. 1375 cod. civ., la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere configurato, nel Verbale di incontro del 21-22 dicembre 2016, un accordo per la delimitazione del bacino di comparazione.
6. Con il sesto motivo (indicato in ricorso come settimo) è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5 l. n. 223/1991 per avere la sentenza di appello ritenuto che, con il medesimo Verbale, le parti avessero realizzato un accordo sui criteri di scelta, concentrandone ed esaurendone gli effetti nelle Divisioni 1 e 2 della sede di Roma, senza considerare che le organizzazioni sindacali possono bensì stipulare criteri alternativi a quelli legali, ma non hanno la disponibilità del bacino di riferimento la cui nozione è indisponibile e riguarda le mansioni fungibili del “complesso aziendale”.
7. Con il settimo motivo (indicato in ricorso come ottavo) il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 4, 5 e 24 l. n. 223/1991, censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto legittima la scelta datoriale di limitare il bacino di comparazione del personale alle sole Divisioni 1 e 2 dell’unità produttiva di Roma, con ciò violando la previsione normativa, secondo la quale l’ambito di selezione degli esuberi di una procedura di licenziamento collettivo deve inderogabilmente riguardare posizioni professionali omogenee impiegate nell’intero complesso aziendale.
8. Con l’ottavo motivo (indicato in ricorso come nono), deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 5 l. n. 223/1991, degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ., nonché nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 cod. proc. civ., il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto irrilevante la circostanza che alcune commesse fossero state trasferite dalla sede di Roma ad altre unità produttive, non essendovi certezza che qualora fosse stata operata la comparazione tra lavoratori, il dipendente proveniente dalla sede di Roma sarebbe stato certamente destinato alla sede ove era stata trasferita la commessa e che ivi fosse presente una posizione lavorativa identica per contenuti e modalità orarie della prestazione: la Corte territoriale, in tal modo, aveva erroneamente posto a carico del ricorrente una prova di resistenza rispetto ai lavoratori impiegati nelle altre unità produttive, alle quali erano state trasferite le commesse, trascurando di considerare che compete al datore di lavoro dimostrare, e non soltanto indicare, le ragioni che non consentono la comparazione con il personale addetto a mansioni omogenee impiegato nelle altre unità produttive non toccate dal progetto di ristrutturazione e ridimensionamento aziendale.
9. Con il nono motivo (indicato in ricorso come decimo), deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 ss. cod. civ., dell’art. 414 cod. proc. civ., nonché degli artt. 4, 5 e 24 I. 23 luglio 1991, n. 223, della Direttiva 98/59/UE e dell’art. 2 d.lgs. n. 81/2015, il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha erroneamente ritenuto che i lavoratori con rapporto di parasubordinazione presenti negli uffici di Roma non potessero essere suscettibili di “equiparazione” normativa con i lavoratori dipendenti e, quindi, non potessero essere ricondotti alla nozione di lavoratore rilevante ai fini della l. n. 223/1991. In subordine, ha prospettato il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia in ordine alla nozione eurounitaria di lavoratore rilevante ai fini della procedura di licenziamento collettivo.
10. Il primo motivo è infondato.
10.1. La Corte territoriale, esaminando l’Accordo del 30 maggio 2016, ha rilevato come la previsione della possibilità di gestire eventuali esuberi, che dovessero residuare al termine di sei mesi del contratto di solidarietà, attraverso il ricorso all’integrazione salariale prevista dall’art. 44, comma 7, del d.lgs. n. 148/2015, contenuta nella clausola di cui all’art. 6, non vincolasse ad alcun impegno specifico la società, ma si limitasse a contemplare solo una “possibilità” di gestire gli esuberi, osservando, su tale premessa, come “il tenore letterale dell’accordo” fosse “incompatibile con la definitività della moratoria” (cfr. sentenza, p. 14).
10.2. Con tale accertamento la Corte territoriale ha puntualmente risposto alla questione che le era stata posta con l’atto di reclamo dell’odierno ricorrente e cioè l’esistenza di una “obbligazione” assunta dalla società con la sottoscrizione dell’Accordo (di cui il reclamante dichiarava di voler profittare ai sensi dell’art. 1411 cod. civ.), di “un esplicito impegno”, concordato dalle parti, “a non ricorrere al licenziamento collettivo per la gestione degli esuberi, dovendo ricorrere, invece, a misure conservative dei rapporti di lavoro con l’utilizzo degli ammortizzatori sociali”, con i conseguenti effetti di illegittimità del recesso e suo annullamento, secondo quanto risulta dalla trascrizione del medesimo atto di reclamo (cfr. ricorso, p. 8).
II. Il secondo motivo è inammissibile.
11.1. La Corte di appello, nell’escludere che l’Accordo del 30 maggio 2016 prevedesse alcun obbligo o impegno specifico a carico della società, ne ha sottolineato la correlazione con altro impegno assunto dalle organizzazioni sindacali a sottoscrivere un accordo sulla gestione della qualità della produttività e su temi legati all’incremento della competitività, accertando inoltre cne le sigle sindacali non avevano aderito – specifico punto di fatto non censurato dal ricorrente -“ad alcuna sollecitazione proveniente dall’azienda relativamente all’oggetto di questo accordo nonostante risulti in atti la richiesta di avvio del tavolo per la definizione di gran parte di queste condizioni” (cfr. ancora sentenza, p. 14).
11.2. In tal modo la Corte ha individuato il nesso di interdipendenza fra i rispettivi impegni delle parti e compiuto una valutazione comparativa del loro comportamento alla luce delle circostanze in cui l’Accordo del 30/5/2016 era stato stipulato, della situazione di crisi aziendale, delle finalità e degli obiettivi presenti ai negoziatori nel sottoscriverlo, svolgendo un accertamento di fatto correttamente e adeguatamente motivato e che, insieme con il ricordato argomento letterale (10.1.), sottrae la lettura dell’Accordo stesso alle censure formulate con il motivo in esame.
12. Il terzo motivo è inammissibile.
12.1. E’ stato invero ripetutamente affermato che la comunicazione, di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 4 l. 23 luglio 1991, n. 223, ha sia la finalità di far partecipare le organizzazioni sindacali alla successiva trattativa per la riduzione del personale, sia di rendere trasparente il processo decisionale seguito dal datore di lavoro per l’individuazione dei lavoratori potenzialmente destinati ad essere estromessi dall’azienda; e che la verifica di adeguatezza, a tali fini, della comunicazione di avvio della procedura costituisce oggetto di valutazione devoluta al giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità se assistita da congrua motivazione (Cass. n. 15479/2007, fra le molte conformi).
12.2. Nella specie, la Corte di appello ha posto in rilievo come nella comunicazione in data 5 ottobre 2016, al punto V, la società avesse espressamente dichiarato la propria disponibilità a valutare nel corso dell’esame congiunto l’adozione di tutte le misure organizzative che consentissero di fronteggiare le conseguenze sul piano sociale della programmata riduzione del personale e come, fra queste misure, vi fossero anche “i trasferimenti, se compatibili con le esigenze aziendali”, in tal modo indicando la sussistenza di posizioni lavorative libere presso le altre unità produttive non coinvolte dalla procedura: posizioni, e relative possibilità di trasferimento, che non furono mai, nel corso del confronto, prese in esame dalle organizzazioni sindacali, secondo quanto accertato dalla stessa Corte, anche sulla scorta delle risultanze di un procedimento ex art. 28 l. n. 300/1970 instaurato avanti al Tribunale di Roma da una delle organizzazioni sindacali che parteciparono alla consultazione (cfr. sentenza impugnata, p. 18).
13. Il quarto motivo non può egualmente trovare accoglimento.
13.1. Esso, infatti, non si misura direttamente con la chiara sequenza procedimentale prevista dalla l. n. 223/1991 e con il percorso motivazionale, che ha condotto la Corte ad escludere ogni intento discriminatorio e punitivo dei lavoratori della sede di Roma, in particolare con la considerazione dei licenziamenti intimati a questi ultimi quale effetto del rifiuto delle RSU della unità produttiva di Roma di proseguire il confronto, a differenza delle RSU dell’unità produttiva di Napoli, e del completamento della procedura avviata con la comunicazione del 5 ottobre 2016.
13.2. L’art. 4, comma 9, I. cit. prevede, infatti, che “raggiunto l’accordo sindacale ovvero esaurita la procedura di cui ai commi 6, 7 e 8, l’impresa ha facoltà di licenziare gli impiegati, gli operai e i quadri eccedenti”, comunicando a ciascuno di essi il recesso.
13.3. Come esattamente osservato nella sentenza impugnata, il mancato raggiungimento di un’intesa fra le parti non si pone come la causa del licenziamento collettivo, ma, per espressa previsione normativa, l’avvio della procedura per la dichiarazione di mobilità è conseguenza dell’accordo mancato.
13.4. La sentenza impugnata ha inoltre escluso che la CIGS abbia costituito una leva di contrattazione utilizzata dalla società quale contropartita per ottenere dai lavoratori della sede di Roma la rinuncia ai loro diritti e che gli addetti alla sede di Napoli hanno potuto fruire di tale misura di sostegno in quanto il perdurare delle trattative, come stabilito nel Verbale di incontro del 22 dicembre 2016, dava ragione di ritenere la possibilità di un loro reimpiego in azienda a diverse condizioni: ciò che risulta conforme alla natura e allo scopo della CIGS, che è un mezzo di sostegno alle imprese nei casi in cui la situazione di crisi abbia carattere temporaneo e la prosecuzione dei rapporti di lavoro sospesi risulti possibile.
14. Il quinto motivo é inammissibile.
14.1. La sua formulazione, infatti, non risulta conforme al principio, secondo il quale la parte che, con il ricorso per cassazione, si proponga di denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di un contratto o di una sua clausola, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 ss. cod. civ., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. n. 28319/2017, fra le molte conformi).
15. Il sesto motivo è infondato.
15.1. Come più volte affermato nella giurisprudenza di questa Corte, tra imprenditore e sindacati può intercorrere, secondo quanto indicato dall’art. 5 della legge 23 Luglio 1991, n. 223, un accordo inteso a disciplinare l’esercizio del potere di collocare in mobilità i lavoratori in esubero, stabilendo criteri di scelta anche difformi da quelli legali, purché rispondenti a requisiti di obiettività e razionalità (Cass. n. 4186/2013; conformi: n. 7710/2018; n. 2694/2018; n. 6959/2013).
16. Il settimo e l’ottavo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente per la connessione che li lega, sono parimenti infondati.
16.1. Premesso quanto già sopra rilevato (12.1.) e premesso che la valutazione di adeguatezza della comunicazione di avvio della procedura risulta nella specie compiuta dalla Corte di appello, la quale ha motivatamente disatteso i rilievi di incompletezza della comunicazione in data 5/10/2016, accertando come in essa fossero presenti gli elementi conoscitivi necessari ad un effettivo confronto tra le parti, con riguardo all’andamento economico delle sedi di Roma e di Napoli, alla dimensione degli esuberi programmati e alla impossibilità di attuare trasferimenti o altre misure alternative ai licenziamenti, si deve qui ribadire il principio, del tutto consolidato, secondo il quale la l. n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda; sicché i residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più gli specifici motivi della riduzione del personale ma la correttezza procedurale dell’operazione (ivi compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra progettato ridimensionamento e singoli provvedimenti di recesso), con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5, né fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva (cfr., da ultimo, fra le molte conformi, Cass. n. 30550/2018).
16.2. E’ inoltre risalente e ampiamente consolidato l’orientamento di questa Corte, secondo il quale, in caso di licenziamento collettivo per riduzione del personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva o a uno specifico settore dell’azienda, la comparazione dei lavoratori al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità non deve necessariamente interessare l’intera azienda, ma può avvenire, secondo una legittima scelta dell’imprenditore ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico-produttive, nell’ambito della singola unità produttiva ovvero del settore interessato alla ristrutturazione in quanto ciò non è il frutto di una determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma è obiettivamente giustificato dalle esigenze organizzative che hanno dato luogo alla riduzione di personale (Cass. n. 10590/2005).
16.3. Su tale premessa è stato precisato che, in tal caso, il datore di lavoro deve indicare nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991 sia le ragioni alla base della limitazione dei licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritiene di ovviare ad alcuni licenziamenti con il trasferimento ad unità produttive geograficamente vicine a quella soppressa o ridotta, onde consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti (Cass. n. 22655/2012).
16.4. Lo stretto collegamento tra delimitazione del bacino di comparazione e lettera di avvio della procedura di licenziamento collettivo ha trovato ulteriore conferma in Cass. n. 4678/2015, la quale ha stabilito il principio, per il quale, ove il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva, le esigenze di cui all’art. 5, comma 1, l. n. 223/1991, pur riferite dalla norma al “complesso aziendale”, possono costituire criterio esclusivo nella determinazione della platea dei lavoratori da licenziare, purché il datore indichi nella comunicazione ex art. 4, comma 3, I. cit., sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti (conforme, fra altre, Cass. n. 22178/2018).
16.5. Nella specie, e come sopra osservato, la Corte di appello ha accertato, con ampia motivazione, la presenza nella comunicazione in data 5/10/2016 degli elementi necessari a definire le ragioni tecnico-produttive e organizzative che giustificavano la concentrazione dei lavoratori da licenziare nelle Divisioni 1 e 2 della sede di Roma (oltre che di Napoli, sede per la quale, tuttavia, l’esito del confronto è stato diverso) e così gli elementi funzionali ad una effettiva informazione e consultazione delle organizzazioni sindacali, nell’ottica di puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione già sottolineata dalla giurisprudenza citata.
16.6. Non risulta, d’altronde, contestato che le unità produttive interessate dal progetto di ristrutturazione costituissero articolazioni dell’azienda caratterizzate da condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica e amministrativa, esaurendosi in esse il ciclo produttivo dato dalle commesse (Cass. n. 13705/2012; conforme Cass. n. 26376/2008).
17. Il nono motivo di ricorso è inammissibile e comunque infondato.
17.1. La sentenza impugnata ha rilevato che il d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 assimila ai rapporti di lavoro subordinato solo le collaborazioni organizzate dal committente e cioè quelle nelle quali il datore di lavoro abbia indicato tempi e luoghi della prestazione al lavoratore dipendente, riscontrando come nel caso concreto non vi fosse “alcun elemento dal quale desumere che le collaborazioni coordinate continuative svoltesi presso A. integrassero questa speciale categoria di collaborazioni”; ha inoltre rilevato come non fosse neppure emerso dagli atti e documenti di causa se i contratti di collaborazione in oggetto fossero stati stipulati in epoca successiva alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 81/2015 (cfr. p. 19).
17.2. Entrambi i rilievi non hanno formato oggetto di censura con il motivo in esame, che peraltro sembra prescindere da una verifica in concreto delle modalità di organizzazione della prestazione che è invece richiesta dall’art. 2, c. 1, d.lgs. citato affinché possano stabilirsi le condizioni per l’assimilazione della collaborazione al rapporto subordinato.
17.3. Quanto alla nozione di “lavoratore dipendente” nel diritto UE, la Corte di Giustizia ha chiarito che la qualifica di “prestatore autonomo”, ai sensi del diritto nazionale, non esclude che una persona debba essere qualificata come “lavoratore”, ai sensi del diritto dell’Unione, se la sua indipendenza è solamente fittizia e nasconde in tal modo un vero e proprio rapporto di lavoro; con la conseguenza che lo status di “lavoratore” ai sensi del diritto dell’Unione non può essere pregiudicato dal fatto che una persona è stata assunta come prestatore autonomo di servizi ai sensi del diritto nazionale, per ragioni fiscali, amministrative o burocratiche, purché tale persona agisca sotto la direzione del suo datore di lavoro, per quanto riguarda in particolare la sua libertà di scegliere l’orario, il luogo e il contenuto del suo lavoro, non partecipi ai rischi commerciali di tale datore di lavoro e sìa integrata nell’impresa di detto datore di lavoro per la durata del rapporto di lavoro, formando con essa un’unità economica (sentenza 4 dicembre 2014, in causa C- 413/13, punti 35-36; cfr. anche sentenza 11 dicembre 2015, in causa C-422/14, punti 28-30).
17.4. La giurisprudenza UE richiama, quindi, alla necessità di una verifica in concreto delle modalità e delle condizioni di svolgimento del rapporto, in relazione alla quale non risulta dedotta la formulazione di pertinenti e idonee allegazioni in alcun grado di merito.
18. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
19. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
20. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dell’art. 13 D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
Respinge il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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