CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 ottobre 2022, n. 29332

Licenziamento disciplinare – Dirigente medico – Comportamenti vessatori e denigratori nei confronti dei sottoposti – Legittimità

Fatti di causa

1. La Corte d’Appello di Caltanissetta, confermando i provvedimenti del Tribunale di Enna in esito alle fasi sommaria e di opposizione ex legge n. 92/2012, ha respinto il reclamo di P.M.B. contro Associazione O.M. s.s. – Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico, presso cui era inquadrato come dirigente medico ed aveva incarico di direttore della UOC Laboratorio di Genetica medica e di direttore del Dipartimento dei laboratori, e le domande dello stesso dirette alla declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare del 19/3/2015, a seguito di contestazione di addebito del 16/2/2015, ed alla reintegrazione o al risarcimento dei danni.

2. Nel provvedimento impugnato la Corte territoriale, in sintesi, ha osservato che:

– la contestazione di addebito aveva ad oggetto comportamenti gravemente lesivi del vincolo fiduciario, di cui a ripetute segnalazioni ed a dettagliata relazione sottoscritta da diversi collaboratori, concernenti problemi di gestione della struttura complessa di Genetica medica, consistiti, in particolare, in “sistematici comportamenti vessatori e denigratori nei confronti dei medici e biologi” qualificati come “dittatoriali”, ripetutamente “tesi a ridicolizzare l’operato dei lavoratori”, decisioni arbitrarie in ordine ai soggetti da includere nelle pubblicazioni a prescindere dall’effettiva partecipazione al lavoro, comportamenti volti ad ostacolare la comunicazione e l’interazione lavorativa tra medici e biologi, mancato utilizzo di apparecchiature in dotazione al laboratorio di UOS Citogenetica, dichiarazioni lesive dell’immagine del presidente e dell’ente;

– tale sistema, definito di sopraffazione e condizionamento psicologico nei confronti dei sottoposti, era specificato nella relazione di cui alla contestazione, consegnata in copia all’odierno ricorrente prima dell’audizione;

– la contestazione doveva ritenersi tempestiva, tenuto conto della relatività di tale nozione, da commisurarsi al tempo ragionevolmente occorrente a parte datoriale per appurare i fatti nella loro consistenza ed obiettiva gravità;

– alcune testimonianze (dei direttori sanitario ed amministrativo) erano rimaste generiche, ma testimonianze raccolte nel giudizio di opposizione avevano confermato diversi addebiti contenuti nella relazione, come sottoscritta ed utilizzata nella procedura disciplinare;

– tali condotte oggetto di contestazione erano idonee a giustificare il licenziamento disciplinare irrogato, quantunque la condotta di dichiarazioni lesive dell’immagine del legale rappresentante dell’Associazione non fosse stata confermata;

– la mancata presentazione del legale rappresentante dell’ente per rendere l’interrogatorio formale non consentiva di considerare ammessi i fatti dedotti ai sensi dell’art. 232 c.p.c. (segnatamente un colloquio tra il medesimo legale rappresentante, poi deceduto, ed il dirigente licenziato, relativo alla richiesta di dimissioni in alternativa al licenziamento);

– non era provata la natura ritorsiva del licenziamento, sussistendo in ogni caso la giusta causa dello stesso. Anche perché la prospettazione di un commodus discessus consistente nelle dimissioni non era qualificabile come manifestazione di intento ritorsivo esclusivo.

3. Avverso tale sentenza il dott. B. propone ricorso per cassazione, affidato a 6 motivi, assistiti da memoria, cui resiste con controricorso l’Associazione – IRCCS.

4. Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo parte ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 345 c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), per avere qualificato in termini di novità in sede di reclamo le censure relative alla genericità ed intempestività della contestazione di addebito.

2. Il motivo è inammissibile per difetto di interesse, in quanto la Corte territoriale ha in ogni caso espresso ampia motivazione sulle relative questioni.

3. Con il secondo, per violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 2, legge n. 300/1970, in relazione alla genericità ed intempestività della contestazione disciplinare, degli artt. 2697 e 2119 c.c. sotto il profilo dell’insussistenza di una condotta disciplinarmente rilevante, dell’art. 18, commi 4 e 6, legge n. 300/1970 per insussistenza del fatto contestato (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), sostenendo la mancanza di riferimenti spazio- temporali dei fatti contestati e la conseguente lesione del diritto di difesa.

4. Il motivo non è fondato.

5. E’ stato osservato dalla giurisprudenza di questa Corte che, in tema di licenziamento disciplinare, nell’apprezzare la sussistenza del requisito della specificità della contestazione il giudice di merito deve verificare, al di fuori di schemi rigidi e prestabiliti, se la contestazione offre le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati, tenuto conto del loro contesto, e verificare altresì se la mancata precisazione di alcuni elementi di fatto abbia determinato un’insuperabile incertezza nell’individuazione dei comportamenti imputati, tale da pregiudicare in concreto il diritto di difesa (Cass. n. 6889/2018; cfr. anche Cass. n. 9590/2018).

6. Poiché la contestazione dell’addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l’immediata difesa e deve, conseguentemente, rivestire il carattere della specificità, senza l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, purché siano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati, ne consegue la piena ammissibilità della contestazione per relationem (Cass. n. 29240/2017).

7. Peraltro, l’apprezzamento del requisito della specificità – da condurre secondo i canoni ermeneutici applicabili agli atti unilaterali – è riservato al giudice di merito, la cui valutazione è sindacabile in cassazione solo mediante precisa censura, che non può limitarsi a prospettare una lettura alternativa a quella svolta nella decisione impugnata (Cass. n. 13667/2018).

8. Analogamente, costituisce valutazione riservata al giudice del merito l’apprezzamento in concreto del rispetto del principio dell’immediatezza della contestazione, principio da intendersi in senso relativo, dovendosi dare conto delle ragioni che possono cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l’accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell’impresa (Cass. n. 281/2016).

9. La Corte di Caltanissetta si è conformata motivatamente ai suddetti principi, valutando il contenuto degli addebiti specifico rispetto al contesto e dettagliato nella relazione, il diritto di difesa in concreto garantito anche mediante la consegna di copia della relazione prima dell’audizione, il principio di tempestività relativa non violato, con accertamento in fatto immune dai rilievi in diritto contestati tramite il motivo in esame, che deve perciò essere disatteso.

10. Con il terzo motivo parte ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 2119, 2697 c.c., 5 legge n. 604/1966 in relazione al mancato assolvimento dell’onere della prova gravante sul datore di lavoro (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).

11. Con il quarto, per nullità della sentenza o del procedimento in relazione agli artt. 112 e 115 c p.c. (art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.), per avere la Corte pronunciato oltre i fatti immutabilmente fissati dalla contestazione e dalla nota di licenziamento, sulla scorta di quanto dichiarato ex post dai testi escussi, con conseguente vizio di ultrapetizione.

12. Con il quinto motivo parte ricorrente deduce nullità della sentenza o del procedimento in relazione all’art. 232 c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.), perché i fatti oggetto dell’interrogatorio, in assenza di prova dell’impedimento del legale rappresentante del datore di lavoro, avrebbero dovuto ritenersi provati.

13. I suddetti motivi, da trattarsi congiuntamente in quanto tutti relativi alla valutazione delle prove operata nei gradi di merito, per tale ragione non sono meritevoli di accoglimento.

14. Va anzitutto rammentato che non è consentita in sede di legittimità la (sollecitazione di una) rivisitazione del merito della controversia; la valutazione delle emergenze probatorie e la scelta, tra le varie risultanze, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive (cfr. Cass. n. 20553/2021; Cass n. 15276/2021; Cass. n. 17097/2010; Cass. n. 12362/2006; Cass. n. 11933/2003).

15. E’ stato altresì precisato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. (norma c.d. elastica), compiuta dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. n.13534/2019). Nel caso di specie, appunto, i giudici di merito hanno ritenuto provati i fatti contestati nella loro materialità di comportamenti vessatori nei confronti dei collaboratori e sottoposti, in contrasto con i doveri connessi all’incarico ricoperto ed alla corretta gestione della struttura.

16. Né è ravvisabile in proposito il prospettato vizio di ultra-petizione, che ricorre nella diversa ipotesi in cui il giudice del merito, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri gli elementi obiettivi dell’azione (“petitum” e “causa petendi”) e, sostituendo i fatti costitutivi della pretesa, emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (“petitum” immediato), ovvero attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (“petitum” mediato), cioè quando il giudice pronunci oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori, attribuendo alla parte un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato (v. Cass. n. 455/2011).

17. Inoltre, l’art. 232 c.p.c. descrive un mezzo di prova utilizzabile in via facoltativa (la norma utilizza il verbo “può”, non “deve”), nel senso, come esplicato da Cass. n. 6181/2009, che la possibilità di ritenere come ammessi, ai sensi dell’art. 232 c.p.c., i fatti dedotti nell’interrogatorio formale, cui il convenuto non abbia ingiustificatamente risposto, è valutata dal giudice di merito alla luce del complessivo contesto, sostanziale e processuale, con la conseguenza che i fatti possono ritenersi di volta in volta provati o non provati all’esito di una valutazione caso per caso e che quest’ultima non è sindacabile in sede di legittimità, purché adeguatamente e congruamente motivata.

18. Con il sesto motivo parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 1, legge n. 300/1970, degli artt. 1345 e 2697 c.c., sostenendo che è stato dimostrato che il licenziamento è stato irrogato per vendetta da parte del legale rappresentante dell’ente, padre F., quindi per motivo ritorsivo esclusivo (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).

19. Si tratta di motivo inammissibile perché anch’esso diretto ad una rivalutazione in fatto del materiale probatorio raccolto nel merito. Invero, la Corte territoriale è pervenuta alla valutazione del mancato raggiungimento della prova della natura ritorsiva del licenziamento in questione, avendo ritenuto, con motivazione logica e congrua, che anche ammettendo che in un colloquio tra il dott. B. e padre F. fossero state dal secondo sollecitate le dimissioni del primo, ciò non qualificherebbe di ritorsività il successivo licenziamento, in ogni caso assistito da giusta causa.

20. Il ricorso deve pertanto essere respinto.

21. Parte ricorrente deve essere condannata alla rifusione in favore di parte controricorrente delle spese del presente giudizio secondo la regola della soccombenza.

22. Al rigetto del gravame consegue la declaratoria della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per l’impugnazione.

P.Q.M.

respinge il ricorso.

Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 4.000 per compensi ed € 200 per esborsi, oltre spese forfettarie al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.