CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 settembre 2018, n. 21809
Tributi erariali indiretti – IVA – Aliquote – Alimenti e bevande – Somministrazione mediante distributori automatici – Aliquota agevolata – Applicabilità – Condizioni
Fatti di causa
La società E. s.r.l. ricorre con dieci motivi per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio, in epigrafe, con la quale è stata confermata la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Roma che aveva rigettato il ricorso proposto dalla società contribuente avverso l’avviso di accertamento con il quale, relativamente all’anno di imposta 2004, erano stati quantificati maggiori redditi IRPEG e IRAP e una maggiore IVA, ai sensi dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973.
Il giudice di appello ha premesso, in punto di fatto, che: con l’atto impugnato l’Agenzia delle entrate aveva quantificato i maggiori ricavi in quanto dalle verifiche effettuate era emerso che: la società aveva venduto a società controllate capsule da caffè ad un prezzo inferiore a quello di acquisto, con palese comportamento antieconomico posto in essere a fini elusivi; erano stati disconosciuti costi per euro 15.395,42 relativi a fatture, emesse da ditte di trasporto, prive di elementi idonei a verificare l’effettività del servizio prestato; era stata applicata, non correttamente, l’IVA agevolata al 4 per cento anziché al 20 per cento su vendite di capsule di caffè a consumatori finali diversi da ospedali, case di cura e collettività in genere; era stato maggiorato il reddito essendo stata rilevata una sottovalutazione pari a euro 55.404,00 delle giacenze finali e rettificato il credito di imposta indicato nella dichiarazione IVA 2003; la Commissione tributaria provinciale di Roma aveva respinto il ricorso, avendo ritenuto la non contrarietà a legge dell’avviso di accertamento e, in particolare: per quanto riguardava il disconoscimento dei costi per il trasporto, la mancanza di prove documentali idonee a dimostrare l’avvenuto trasporto; per quanto riguardava la sottovalutazione delle giacenze, che la giustificazione addotta dalla società della presenza di merce scaduta non era stata supportata dai criteri seguiti per la valutazione; per quanto riguardava il credito di imposta, che l’Ufficio finanziario aveva riconosciuto il proprio errore sul punto; avverso la suddetta pronuncia aveva proposto appello la società contribuente, nel contraddittorio con l’Agenzia delle entrate.
La Commissione tributaria regionale del Lazio ha rigettato l’appello della società contribuente.
In particolare, in punto di fatto, ha ritenuto che, rispetto alla chiara e dettagliata esposizione di cui all’avviso di accertamento delle circostanze che avevano condotto l’Ufficio finanziario alla ripresa a tassazione, la società contribuente aveva opposto ragioni solo verbali non suffragate da idonea documentazione e che, per quanto riguardava la questione della sottovalutazione delle merci, la società contribuente aveva omesso di inserire nella nota integrativa al bilancio e nei verbali delle assemblee qualsiasi indicazione e motivazione della minore valutazione delle rimanenze finali, circostanza che legittimava l’esclusione di tale valutazione dalle risultanze contabili e fiscali operata dall’Ufficio anche se era stata accertata una qualche presenza di merce scaduta o in scadenza.
Avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso la E. s.r.I., affidato a dieci motivi di censura.
L’Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso.
La società ricorrente ha depositato memoria.
Ragioni della decisione
Preliminarmente va disattesa l’eccezione di inammissibilità del controricorso proposta dalla ricorrente con la memoria depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. in quanto lo stesso prende specifica posizione sui diversi punti di doglianza prospettati con il ricorso, in particolare sui dedotti vizi di motivazione e di violazione di legge, contestando espressamente le ragioni relative alla vendite sottocosto, alle spese per servizi di trasporto, all’applicabilità dell’Iva agevolata nonché al valore delle merci di magazzino. Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., per contraddittorietà e insufficienza della motivazione in relazione a un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per non avere il giudice di appello tenuto conto, per quanto concerneva la questione della vendita sottocosto delle capsule da caffè, della fattura di euro 51.500,00 oltre IVA emessa dalla società contribuente nei confronti della N. I. s.p.a. per rimborso spese di telemarketing e, per quanto concerneva la questione del recupero di costi non inerenti relativi alle spese di trasporto, dell’elenco dei destinatari delle forniture.
Con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., per insufficiente motivazione in relazione a un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per non avere il giudice di appello motivato sulle ragioni per cui la fattura relativa alle spese di telemarketing, che proverebbe la ricezione di un ulteriore bonus e quindi l’ulteriore incrementarsi dello sconto delle capsule, non fosse idonea a dimostrare la sua incidenza sul prezzo finale delle capsule da caffè.
Entrambi i motivi, che possono essere esaminati unitamente in quanto attengono alla medesima censura di vizio della motivazione, sono infondati.
Nel suo percorso motivazionale la pronuncia impugnata ha tenuto conto del fatto che l’ufficio aveva considerato, ai fini della valutazione della vendita sottocosto delle capsule da caffè alle società partecipate, del bonus erogato dalla N. I. s.p.a., ritenendo comunque sussistente una vendita sottocosto. Con riferimento alla fattura di euro 51.500,00 oltre IVA emessa dalla società contribuente nei confronti della N. I. s.p.a. per rimborso spese di telemarketing, che parte ricorrente ritiene non considerata dal giudice di appello, non è dato rinvenire la decisività della stessa ai fini della definizione della controversia.
Dall’esame del ricorso, invero, si legge che si tratta di una fattura emessa dalla E. s.r.l. nei confronti della N. I. s.p.a. per rimborso spese di telemarketing, circostanza che non consente di valutare tale documento, come invece asserito dalla ricorrente, quale contributo incidente sul prezzo di costo delle capsule da caffè e non sul costo delle spese di telemarketing solo in parte sostenute dall’E. srl e dalle altre società partecipate (vd. ricorso, punto 2) ricostruzione in fatto).
Dinanzi al contenuto stesso del documento in esame, di per sé avente funzione unicamente di attestare il rimborso di spese per prestazioni eseguite dalla ricorrente (a nulla rilevando che lo stesso attiene a spese che dovrà sostenere, in quanto pur sempre connesse a spese di telemarketing in relazione alle quali è stata emessa la fattura) non emerge in alcun modo la decisività dello stesso al fine, perseguito dalla ricorrente, di giustificare una riduzione del prezzo di vendita delle capsule da caffè. Stesse considerazioni devono essere espresse per quanto riguarda la questione del recupero dei costi non inerenti relativi alle spese di trasporto, in relazione alla quale parte ricorrente lamenta la mancata considerazione dell’elenco dei destinatari delle forniture di trasporto oggetto di recupero.
La sentenza impugnata, invero, ha ritenuto che le fatture prodotte mancavano dei dati essenziali previsti per potere individuare l’effettività del servizio prestato.
Di per sé, la produzione di un elenco di destinatari non implica che le fatture siano effettivamente riferibili ai medesimi ove la parte non documenti che, sulla base delle stesse fatture non si possa in qualche modo ricavare un qualche elemento che consenta di riferire le stesse ai soggetti di cui all’elenco prodotto.
La produzione dell’elenco, quindi, non risulta in alcun modo decisivo ai fini della valutazione della fondatezza del motivo di ricorso in esame.
Con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 167 cod. proc. civ., per non avere ritenuto non contestato tra le parti, con riferimento alla dichiarata politica commerciale intrapresa dalla ricorrente di una maggiorazione del prezzo di vendita delle macchine da caffè a giustificazione della vendita sottocosto delle capsule da caffè, il prezzo di vendita delle macchine da caffè.
Il motivo è infondato.
Il fatto non contestato tra le parti attiene al prezzo di vendita delle macchine da caffè ma la questione di fondo, che il giudice di appello ha ritenuto di dovere valutare, è il fatto se la vendita delle macchine da caffè avveniva a un prezzo maggiorato al fine di coprire la vendita sottocosto delle capsule da caffè. Non provata, infatti, e non rientrante nei limiti dei fatti non contestati, è proprio la asserita maggiorazione della vendita delle macchine da caffè nell’ambito della politica economica perseguita dalla ricorrente e, in questo contesto, il giudice di appello ha espresso un apprezzamento di merito, ritenendola contraria alla prassi commerciale di settore, secondo cui normalmente il prezzo di vendita delle macchine da caffè è contenuto nell’ottica di una fidelizzazione della clientela per gli acquisti successivi delle capsule da caffè.
Con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata per illogicità e insufficienza della motivazione, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., in relazione a un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in ordine alla valutazione delle prove fornite dalla società contribuente a sostegno della contestata inerenza delle fatture trasporto merci, in particolare per avere ritenuto che nessuna delle fatture prodotte conteneva i dati essenziali previsti dalle norme in materia.
Con il quinto motivo si censura la sentenza impugnata per omessa motivazione, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., in relazione a un fatto decisivo per il giudizio, laddove non è stata resa alcuna pronuncia sulla prova documentale prodotta a sostegno della contestata inerenza delle fatture di trasporto delle merci, in particolare per non avere tenuto conto della documentazione prodotta consistente nell’elenco dei destinatari dei trasporti.
Entrambi i motivi, che possono esser unitamente considerati in quanto attengono alla medesima questione della non inerenza dei costi relativi alle spese di trasporto, sono infondati.
Il quinto motivo, in particolare, ripercorre le stesse argomentazioni già seguite in relazione al primo motivo di ricorso relative alla mancata considerazione dell’elenco dei destinatari dei trasporti e, sotto tale profilo, ci si riporta a quanto sopra considerato in ordine alla infondatezza del motivo.
Per quanto attiene, poi, alla questione della illogicità e insufficienza della motivazione, di cui al quarto motivo, la stessa è infondata, posto che il giudice, con una valutazione non sindacabile in questa sede, ha espresso la propria valutazione in ordine alla non completezza delle fatture, prive dei dati essenziali, in particolare della indicazione dei soggetti destinatari ed ha, conseguentemente, ritenuto non provato quanto sostenuto da parte ricorrente.
In particolare, dalla motivazione della sentenza impugnata si evince che il giudice di appello ha ritenuto che nessuna delle fatture prodotte (e tenute in considerazione dall’Ufficio) conteneva gli elementi essenziali per potere da esse evincere con certezza chi fossero i destinatari del trasporto, ritenendo implicitamente che ogni ulteriore documentazione non fosse idonea a superare l’incertezza assoluta dei dati ivi contenuti.
Con il sesto motivo si censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ., dell’art. 2967 cod. civ., in ordine all’onere di prova gravante sull’Agenzia delle entrate dei fatti e documenti costitutivi della maggiore pretesa tributaria.
Il motivo è infondato.
Dinanzi alla prospettazione dell’Ufficio della non inerenza dei costi relativi alle spese per il trasporto, era onere della contribuente fornire prova documentale che consentisse di accertare con certezza che le fatture, seppure prive di specifica indicazione del destinatario, erano comunque state emesse nell’ambito dell’attività propria della società contribuente.
Sotto tale profilo, non è ravvisabile alcuna violazione del regime probatorio, avendo il giudice di appello correttamente ripartito l’onere della prova tra le parti e ritenuto non raggiunta la prova richiesta a carico della contribuente.
Con il settimo motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n.3) cod. proc. civ., della Tabella A, parte II, numero 38, del d.P.R. n. 633/1972, in relazione alla corretta applicazione dell’aliquota IVA agevolata al 4 per cento, per non avere ritenuto che i dipendenti di una determinata azienda indicati genericamente o nominativamente nelle fatture sono da considerarsi consumatori finali, con conseguente corretta applicazione della aliquota agevolata.
Con l’ottavo motivo si censura la sentenza impugnata per illogicità e insufficiente motivazione, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5 cod. proc. civ., in relazione a un fatto decisivo e controverso per il giudizio in ordine all’eccepita mancanza di produzione di prove da parte della società contribuente sul fatto che i clienti, intestatari delle fatture oggetto del recupero IVA, fossero gestori o rappresentanti di comunità di persone.
I motivi, che possono essere esaminati unitamente, in quanto attengono alla medesima questione della non applicabilità dell’IVA agevolata, sono infondati.
La pronuncia impugnata ha ritenuto, sul punto, che i clienti venivano identificati solo con il loro nominativo o con dizioni generiche e che parte ricorrente non ha dato prova che gli stessi abbiano agito quali rappresentanti o comunque gestori di comunità in favore della quale era stata compiuta la fornitura.
La decisione impugnata ha fatto corretta applicazione della previsione di cui alla voce 38), Tabella A, parte II, allegata al D.P.R. n. 633 del 1972, nel testo vigente ratione temporis, che regola le “somministrazioni di alimenti e bevande effettuate mediante distributori automatici collocati in stabilimenti, ospedali, case di cura, uffici e scuole, caserme ed altri edifici destinati alla collettività”, prevedendo per esse l’aliquota del 4%(percento). Questa Corte ha precisato, sul punto, (Cass. civ. Sez. V, Sent., 22 settembre 2017, n. 22093) che il tratto caratterizzante di tale disposizione è costituito dalla circostanza che i distributori in questione siano collocati in luoghi destinati alla collettività, dovendosi ritenere che l’applicazione dell’aliquota agevolata anzidetta trovi giustificazione nella funzione-per così dire – sociale, che contraddistingue la somministrazione di alimenti e bevande negli edifici contemplati dalla norma. Presupposti per l’applicazione della previsione in esame è che i distributori siano utilizzati da un numero indeterminato di individui e non per una ristretta cerchia di persone (dipendenti o collaboratori) che operano all’interno della struttura.
Correttamente, quindi, il giudice di appello ha ritenuto che occorreva darsi la prova, non fornita, che la fornitura venisse eseguita a favore dell’ente, pubblico o privato, e che, pertanto, venisse documentato che il nominativo di cui in fattura fosse il soggetto titolare del potere rappresentativo dell’ente.
Con il nono motivo si censura la sentenza impugnata per insufficiente motivazione, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in particolare, con riferimento alla questione del recupero a tassazione della sottovalutazione delle giacenze finali, per non avere tenuto conto della comunicazione di parziale svalutazione delle rimanenze trasmessa dalla società contribuente entro i termini per la presentazione delle dichiarazioni dei redditi per l’anno 2005, circostanza che avrebbe potuto consentire la mancata indicazione della svalutazione operata nel bilancio o nella nota integrativa.
Con il decimo motivo si censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2426, comma primo, n. 9), cod. civ., e 92, commi 1 e 2 del d.P.R. n. 917/1986, in rapporto all’art. 110, n. 6), del d.P.R. n. 917/86, per non avere considerato che era obbligo della società effettuare, ai sensi del suddetto art. 110, la comunicazione all’Agenzia delle entrate del mutamento del criterio di valutazione delle rimanenze di magazzino e che, di conseguenza, il suddetto adempimento sopperiva all’omessa indicazione della svalutazione delle merci nel bilancio redatto per il medesimo anno di imposta, in quanto, comunque, l’Agenzia delle entrate era, in tal modo, posta nelle condizioni di conoscere l’operato della società, a prescindere dalla dedotta irregolarità nella redazione del bilancio.
I motivi sono infondati.
Va, in primo luogo, osservato che sulla questione relativa alla sottovalutazione delle giacenze finali, il giudice di appello ha ritenuto che costituisse profilo fondamentale, ai fini della decisione, la circostanza che nella nota integrativa al bilancio e nei verbali delle assemblee era stata del tutto omessa qualsiasi indicazione e motivazione delle minori valutazioni delle rimanenze.
La ratio di tale decisione, quindi, risiede nell’avere ritenuto fondamentale la valutazione delle rimanenze compiuta in sede di bilancio ovvero nella nota integrativa da sottoporsi all’approvazione dell’assemblea, in tal modo, implicitamente, dando risposta alla contestazione della parte ricorrente, secondo cui l’omissione sopra indicata avrebbe potuto essere superata dalla mera presentazione di una “comunicazione di parziale svalutazione delle rimanenze al 30 giugno 2005”.
Sotto tale profilo, con specifico riferimento al nono motivo di ricorso, la pronuncia ha adeguatamente motivato sul punto, anche con riferimento, sebbene in modo implicito, alla questione prospettata, avendo dato rilievo, come detto, alla necessità che il valore delle rimanenze dovesse essere sempre individuato sulla base delle indicazioni risultanti dal bilancio ovvero dalla nota integrativa, debitamente approvati, non essendo quindi sufficiente la successiva comunicazione cui, invece, la ricorrente attribuisce rilevanza.
Il punto della decisione in esame, peraltro, risulta conforme a diritto, sicchè, sotto tale profilo, non è fondato il decimo motivo di censura.
In particolare, secondo parte ricorrente, la mancata indicazione nel bilancio di esercizio della intervenuta svalutazione del valore delle merci, nonché, eventualmente, nella nota integrativa, sarebbe stata superata dalla successiva comunicazione, da essa compiuta, di cui all’art. 110, comma 6, del Tuir.
Tale linea difensiva, tuttavia, non è corretta.
L’art. 110, comma 6, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, prevede che «In caso di mutamento totale o parziale dei criteri di valutazione adottati nei precedenti esercizi il contribuente deve darne comunicazione all’agenzia delle entrate nella dichiarazione dei redditi o in apposito allegato».
La norma presuppone l’avvenuta modifica dei criteri di valutazione e prevede, di conseguenza, un obbligo di comunicazione, sicchè non può ad essa attribuirsi una valenza sostitutiva della necessaria specifica indicazione, in sede di redazione del bilancio e della nota integrativa, dei criteri di valutazione secondo quanto previsto dall’art. 2426 cod. civ. nonché, eventualmente, dei diversi criteri seguiti in considerazione della ritenuta riduzione del valore delle merci in rimanenza.
A tal proposito, questa Suprema Corte ha precisato che le risultanze del bilancio civilistico sono destinate a valere anche ai fini delle determinazioni fiscali, a meno che non si dimostri che le stesse contrastano “con i principi di corretta e veritiera rappresentazione della situazione patrimoniale ed economica dell’impresa stabiliti dal codice civile” (Cass. 23 novembre 2011, n. 23608; Cass. 23 luglio 2011, n. 16429), in tal modo ponendo in specifico rilievo che solo le risultanze del bilancio, ivi compresi i criteri indicati per la valutazione delle merci, debitamente approvato, assumono rilevanza ai fini fiscali, costituendo, quindi, quanto risultante dal bilancio, ove regolarmente tenuto, presupposto necessario ai fini della corretta considerazione di quanto in esso rappresentato.
Sotto tale profilo, non può ritenersi che la comunicazione, cui fa riferimento la ricorrente, abbia valore al fine della corretta individuazione dei criteri di valutazione delle merci, non essendo stata la stessa preceduta dalla specifica indicazione in bilancio e nella nota integrativa, debitamente approvati dall’assemblea.
Per quanto sopra esposto, il ricorso è infondato, con conseguente rigetto e condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese di lite del presente giudizio che si liquidano in complessive euro 7.000,00 oltre spese prenotate a debito.
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