CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 settembre 2018, n. 21909
Licenziamento – Criteri di determinazione dei lavoratori da licenziare – Correttezza della scelta adottata in sede sindacale – Criterio tecnicoproduttivo
Fatti di causa
La Corte di appello di Napoli con la sentenza n. 8232/2016, in sede di procedimento ex lege n. 92/2012, aveva rigettato il reclamo proposto da T.C. avverso la sentenza con la quale il tribunale aveva dichiarato la legittimità del licenziamento a lui intimato dalla F.M. spa.
Il Giudice del gravame aveva ritenuto corretta la individuazione dei lavoratori interessati alla procedura, tra i quali il ricorrente, rilevando che già la comunicazione del 25 ottobre 2013, inviata dalla società ai sensi delle disposizioni di cui all’art. 4 comma 9 I.n. 223/91, conteneva in allegato l’elenco dei lavoratori collocati in mobilità con la specificazione della residenza, della qualifica, del livello di inquadramento, dei dati anagrafici e di assunzione e infine del carico di famiglia. Osservava altresì che i criteri di scelta erano stati concordati in sede sindacale congiuntamente al numero dei lavoratori da licenziare ed alle qualifiche di appartenenza nonché alla maggiore rilevanza da attribuire al criterio delle esigenze produttive. Dalla ulteriore documentazione allegata risultava altresì formulata una griglia contenente il punteggio attribuito a ciascun lavoratore, tra quelli non aderenti all’impegno a non impugnare il licenziamento, in ragione del carico di famiglia, anzianità e inquadramento, dalla quale erano facilmente identificabili i lavoratori da licenziare.
Sulla base di tali premesse, la Corte escludeva quindi ogni ipotesi di vizio inerente alla eventuale parcellizzazione ex post dell’organico, al fine di modificare la concreta applicazione dei criteri di determinazione dei lavoratori da licenziare, anche sostenendo la correttezza della scelta adottata in sede sindacale circa la predominanza del criterio tecnicoproduttivo identificativo dei lavoratori da licenziare.
Avverso tale decisione il T. proponeva ricorso affidandolo a tre motivi di censura cui resisteva la F.M. spa con controricorso.
Ragioni della decisione
1)- con il primo motivo è denunciata la violazione o falsa applicazione dell’art. 4 comma 9 della I.n. 223/91, dell’art. 1362 e segg. c.c. in riferimento alla comunicazione ex art. 9 comma 4 I. n. 223/91; violazione dell’art. 132, n. 4 c.p.c. (motivazione apparente e/o manifestamente illogica e/o contraddittoria); nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. (ex art. 360, co.1, n. 3, 4 c.p.c.). Si duole il ricorrente della valutazione svolta dalla Corte territoriale circa la ritenuta sufficienza dei dati contenuti nella comunicazione del 25.1.2013 nonché della griglia allegata, al fine della individuazione dei lavoratori da licenziare. In particolare lamenta l’oggettiva difficoltà di esame delle singole posizioni e punteggi e la non chiara individuazione dei criteri seguiti.
Il motivo risulta prima ancora inammissibile oltre che infondato. La censura infatti, pur facendo riferimento ai documenti allegati (anche in questa sede), non ne inserisce il contenuto nel ricorso così violando il principio di autosufficienza ed impedendo ogni valutazione e ciò anche con il richiamo a pg. 13, 15 e 16 del ricorso agli stessi documenti ed a particolari punti degli stessi, non sufficienti a valutare l’esatta portata delle doglianze.
Questa Corte, a riguardo ha chiarito che «Il ricorso per cassazione – per il principio di autosufficienza – deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito, sicché il ricorrente ha l’onere di indicarne specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso è fondato mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione». (Cass. n. 14784/2015)
A parte l’inammissibilità, la censura risulta altresì infondata in quanto, se pur la Corte ha trattato le questioni “complessivamente” rispetto ai motivi di appello (peraltro non dettagliati), ha comunque valutato sufficienti le indicazioni contenute nei vari documenti, anche esaminandoli nel merito e quindi alcuna violazione delle disposizioni è evincibile e neppure alcun vizio ex n. 4 art. 360 cpc.
2)- Con il secondo motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 5 comma 1 I. n. 223/91, dell’art. 1362 c.c. in riferimento «all’esame congiunto» del verbale 7.10.2003 (ex 360, co. 1 n. 3 c.p.c.).
Anche tale censura risulta inammissibile poiché non è inserito nel ricorso il testo del verbale di cui si chiede la valutazione, e rispetto al quale si stigmatizza la lettura fatta dalla corte territoriale. Il principio di autosufficienza, come già evidenziato, impone la completezza dei motivi al fine della possibile valutazione.
3)-Il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604/66 nonché degli artt. 2697, 2729 c.c., dell’art. 115 c.p.c. (ex art. 360 1 co. n. 3 c.p.c.); omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio costituito dall’effettiva consistenza delle mansioni alle quali era adibito il T. (ex art. 360 1 co. n. 5 c.p.c.).
Il ricorrente si duole del mal governo delle regole in tema di riparto degli oneri probatori con riferimento alle mansioni svolte che, a dire dello stesso, erano state di varia natura (circostanza non contestata dalla società) ed avrebbero quindi imposto la ricollocazione del lavoratore in altra posizione lavorativa.
Il motivo risulta non coerente con la decisione sul punto assunta dal giudice del gravame in quanto fondata non già sulla soppressione delle mansioni e del posto di lavoro del T., ma sulla legittimità del licenziamento collettivo, nell’ambito del quale la riduzione del personale e l’individuazione dei lavoratori interessati segue regole differenti secondo i criteri individuati e concordati in sede sindacale. Nel caso di specie le parti collettive avevano stabilito la concorrenza dei criteri relativi alle esigenze tecnico/organizzative/produttive, dell’anzianità di servizio e dei carichi di famiglia. Rispetto a tali criteri erano stati attribuiti dei punteggi in base ai quali si era formata la graduatoria anche all’esito della manifestazione di disponibilità dei lavoratori interessati ad accettare il licenziamento (evidentemente esclusi dalla predetta graduatoria).
In tale contesto non deve essere sovrapposta e confusa l’ipotesi del licenziamento collettivo che , se pur basato su ragioni di oggettiva riduzione dei posti di lavoro (la cui valutazione e decisione è presupposto a monte che considera anche la fungibilità delle mansioni al fine di determinare l’ambito di applicazione del licenziamento), è regolato da un procedimento specifico che impone la selezione dei lavoratori da licenziare sulla base di criteri legali e/o contrattuali, dalla differente ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo individuale in cui grava sul datore di lavoro non solo l’onere di provare la stretta connessione tra la ragione economico organizzativa determinativa del licenziamento , ma anche l’impossibilità di ricollocare il lavoratore in altre mansioni compatibili.
Deve peraltro rilevarsi comunque l’inammissibilità della parte del motivo in cui si denuncia la violazione ai sensi dell’art. 360 1 co. n. 5 c.p.c. in quanto, secondo l’orientamento già espresso da questa Corte ed al quale si intende dare seguito, nell’ipotesi di “doppia conforme” prevista dal quinto comma dell’art. 348 ter cod. proc. civ., il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 26774/2016; Cass. n. 5528/2014).
Nella specie la decisione della Corte di merito, nel confermare integralmente la sentenza del Tribunale, ha evidentemente condiviso la valutazione sui fatti compiuta dal giudice di prime cure.
L’adesione del Giudice di appello rispetto al giudizio di fatto espletato dal Tribunale rende evidente come quest’ultimo costituisca il fondamento della decisione di rigetto dell’appello, rispetto alla quale alcuna differente e opposta allegazione, circa l’eventuale contrasto tra le decisioni, è stata invece formulata dal ricorrente.
Il ricorso risulta complessivamente infondato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in E. 4.000,00 per compensi ed E. 200,00 per spese oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
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