CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 settembre 2022, n. 26395
Lavoro – Trasferimento ritorsivo – Assenza – Legittimo esercizio del potere di autotutela contrattuale – Licenziamento – Illegittimità
Fatti di causa
1. La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha riformato la pronuncia di primo grado ed ha dichiarato la nullità del licenziamento intimato ad AD.L., in data 27 febbraio 2017, dalla C. S.p.A., condannando quest’ultima alla reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente ed al pagamento di una indennità risarcitoria pari a tutte le retribuzioni globali di fatto dal recesso all’effettiva reintegra, oltre accessori e spese;
2. La Corte, per quanto qui rileva, ha preliminarmente rilevato che la società, nel riproporre l’eccezione di inammissibilità delle “domande di parte ricorrente di impugnativa del trasferimento e del licenziamento proposte in unico ricorso, con rito ex art. 1, comma 48, della l. n. 92 del 2012”, “non deduce e non evidenzia che dall’adozione del rito Fornero anche per la domanda relativa al trasferimento, sia derivata una lesione al proprio diritto di difesa”.
3. La Corte d’appello ha poi ritenuto sussistenti indici presuntivi che facessero ritenere il trasferimento del D.L. operato dalla società nullo perché ritorsivo, con la conseguenza che “la contestata assenza ingiustificata, che ha costituito il fondamento dell’intimato licenziamento, tale non può essere qualificata essendo dovuta ad un legittimo esercizio del potere di autotutela contrattuale, esercitato dal prestatore di lavoro ex art. 1460 c.c.”; la Corte ne ha tratto l’ulteriore conseguenza che “l’impugnato licenziamento deve ritenersi affetto dal medesimo intento ritorsivo”.
4. Per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso la C. S.p.A., affidando l’impugnazione a due motivi, cui ha resistito l’intimato con controricorso.
5. In prossimità della pubblica udienza il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
La difesa della ricorrente ha comunicato memoria con cui ha dichiarato che la società è stata dichiarata fallita.
Ragioni della decisione
1. Preliminarmente occorre rilevare che, nell’ambito del giudizio di cassazione, dominato dall’impulso d’ufficio, non trovano applicazione le comuni cause di interruzione del processo previste in via generale dalla legge (v. tra le tante: Cass. n. 27143 del 2017; Cass. n. 7477 del 2017; Cass. n. 21153 del 2010; Cass. n. 3630 del 2021; Cass. n. 15928 del 2021), tra le quali il fallimento della parte.
2. Ciò premesso, il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1, commi 47 e 48, l. n. 92 del 2012, sostenendo che la Corte di Appello “avrebbe dovuto dichiarare sin da subito inammissibile la domanda tesa ad accertare la nullità/inefficacia o illegittimità del trasferimento”, in quanto introdotta in un procedimento riservato esclusivamente ad accertare la legittimità o meno di licenziamenti in regime di stabilità reale; secondo parte ricorrente vi sarebbe stata “una compressione del diritto di difesa della società, trattandosi il procedimento cd. Fornero di un giudizio sommario che, per sua stessa natura, non è a cognizione piena”.
La censura non merita accoglimento.
Secondo giurisprudenza costante di questa Corte, “l’inesattezza del rito non determina di per sé la nullità della sentenza” (tra molte, proprio avuto riguardo alla disciplina della l. n. 92 del 2012: Cass. n. 12094 del 2016; conf. Cass. n. 15084 del 2018) La violazione della disciplina sul rito assume rilevanza invalidante soltanto nell’ipotesi in cui, in sede di impugnazione, la parte indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte (Cass. n. 19942 del 2008; Cass. SS.UU. n. 3758 del 2009; Cass. n. 22325 del 2014; Cass. n. 1448 del 2015). Perché la violazione assuma rilevanza invalidante occorre, infatti, che la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi il suo fondato interesse alla rimozione di uno specifico pregiudizio processuale da essa concretamente subito per effetto della mancata adozione del rito diverso.
Ciò perché l’individuazione del rito non deve essere considerata fine a se stessa, ma soltanto nella sua idoneità ad incidere apprezzabilmente sul diritto di difesa, sul contraddittorio e, in generale, sulle prerogative processuali della parte.
La società, invece, non solo non specifica i contenuti dell’atto di costituzione in appello in cui avrebbe illustrato le lesioni inferte al suo diritto di difesa, ma ancora in ricorso prospetta, quale pregiudizio derivante dall’errore sul rito, la mera circostanza della “sommarietà” del giudizio.
All’evidenza si tratta di un aspetto che non denuncia una concreta e specifica lesione del diritto di difesa, per cui nella sostanza la società si limita ad invocare una mera violazione della legge processuale, con una concezione del processo volta a ricollegare il danno processuale alla mera irregolarità, concezione avulsa dai parametri, oggi recepiti anche in ambito costituzionale e sovranazionale, di effettività, funzionalità e celerità dei modelli procedurali (v. Cass. n. 4506 del 2016).
3. Il secondo mezzo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1345, 2729 e 2697 c.c., con l’art. 18 l. n. 300 del 1970, affermando che la sentenza impugnata “deve essere necessariamente cassata nella parte in cui ha condannato la CSP alla reintegra e alle conseguenze ex art. 18, comma 1, l. n. 300 del 1970”; si critica la sentenza impugnata per avere ritenuto il carattere ritorsivo del licenziamento.
Si rileva “come gli argomenti di ordine presuntivo addotti dalla Corte territoriale a sostegno del decisum siano privi di consistenza, trattandosi di fatti del tutto generici e neanche compiutamente identificati, neppure dalla controparte, mentre per accreditare un ragionamento presuntivo occorre che gli elementi valorizzati siano idonei a fondare un serio convincimento in ordine alla concludenza e all’esclusività dell’intento illecito, avente efficacia determinativa della volontà di parte datoriale”; si lamenta pure che “se il collegio avesse voluto accertare la natura ritorsiva del licenziamento, avrebbe dovuto quantomeno ammettere la prova diretta e contraria richiesta dalle parti”.
La censura non può essere condivisa.
Secondo questa Corte, per accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Cass. n. 14816 del 2005; Cass. n. 3986 del 2015; Cass. n. 9468 del 2019), dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (Cass. n. 5555 del 2011).
Dal punto di vista probatorio l’onere ricade sul lavoratore in base alla regola generale di cui all’art. 2697 c.c., non operando l’art. 5 l. n. 604 del 1966, ma esso può essere assolto anche mediante presunzioni (Cass. n. 23583 del 2019; Cass. n. 20742 del 2018; Cass. n. 18283 del 2010), come accaduto nella specie.
Non è dubbio che il valutare nella concretezza della vicenda storica se il licenziamento sia stato o meno intimato per motivo di ritorsione costituisca una quaestio facti, come tale devoluta all’apprezzamento dei giudici del merito, con un accertamento di fatto non suscettibile di riesame innanzi a questa Corte di legittimità, con formali denunce di errori di diritto che, nella sostanza, mascherano la contestazione circa la valutazione di merito operata dai giudici ai quali è riservata.
Né, tanto meno, può criticarsi, in questa sede, la sentenza impugnata per il ragionamento presuntivo operato, perché spetta al giudice del merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti certi da porre a fondamento del relativo processo logico, apprezzarne la rilevanza, l’attendibilità e la concludenza al fine di saggiarne l’attitudine, anche solo parziale o potenziale, a consentire inferenze logiche (cfr. Cass. n. 10847 del 2007; Cass. n. 24028 del 2009; Cass. n. 21961 del 2010); va escluso che chi ricorre in cassazione in questi casi possa limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male apprezzato dal giudice o che sia privo di per sé solo di valenza inferenziale o che comunque la valutazione complessiva avrebbe dovuto condurre ad un esito interpretativo diverso da quello raggiunto nei gradi inferiori (v., per tutte, Cass. n. 29781 del 2017), spettando al giudice del merito l’apprezzamento circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell’íd quod plerumque accidit (v. Cass. n. 16831 del 2003; Cass. n. 26022 del 2011; Cass. n. 12002 del 2017).
Infine, quanto alla doglianza circa la mancata ammissione della prova, essa è del tutto priva di specificità, non essendo riportati i contenuti della prova testimoniale richiesta né essendo illustrata la sua decisività.
4. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo, con distrazione in favore dell’Avv. P.L.P. che si è dichiarato antistatario. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese forfettario al 15%, con distrazione.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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