CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 febbraio 2019, n. 3822

Licenziamento – Forma orale – Distribuzione dell’onere probatorio

Fatti di causa

1. La Corte d’Appello di Catanzaro, con sentenza pubblicata il 28 febbraio 2017, ha rigettato il reclamo proposto ex lege n. 92 del 2012 da A. s.r.I., confermando la statuizione di primo grado che aveva accolto l’impugnativa proposta da M.T. avverso il licenziamento asseritamente intimato in forma orale in data 12.8.2013.

2. La Corte ha ritenuto che la cessazione del rapporto di lavoro tra le parti era pacifica e non contestata, pertanto il lavoratore aveva adempiuto al proprio onere probatorio relativo alla sua estromissione dal rapporto. Invece secondo la Corte non erano state provate le dimissioni del T. eccepite dalla società per cui il reclamo della stessa andava respinto.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso A. s.r.l. con due motivi; M.T. è rimasto intimato.

4. La presente causa è stata rimessa alla Quarta sezione civile per la trattazione in pubblica udienza, a seguito dell’ordinanza interlocutoria della Sesta sezione n. 11720 del 2018, la quale ha ritenuto che “non sussistessero le condizioni per la decisione del ricorso in camera di consiglio, in considerazione della disarmonia della giurisprudenza di questa Corte in merito all’estromissione dal posto di lavoro e alle consequenziali refluenze sulla distribuzione dell’onere probatorio tra il lavoratore che agisca deducendo l’avvenuta intimazione in forma orale del licenziamento e il datore di lavoro che gli neghi che la cessazione del rapporto sia ascrivibile ad una sua unilaterale iniziativa risolutoria”.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo parte ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c. 1 e 2 c.c.”, per avere la Corte territoriale posto a suo carico l’onere di provare le dimissioni del lavoratore, nonostante non vi fosse prova certa dell’avvenuta intimazione in forma orale del licenziamento, ma soltanto del fatto oggettivo della cessazione del rapporto lavorativo. A dire della società, le dimissioni del T. sarebbero comunque per facta concludentia e non vi sarebbe la prova dell’avvenuta estromissione, piuttosto che quella dell’allontanamento volontario.

2. Tale censura pone la questione individuata dalla Sesta sezione di questa Corte circa la ripartizione degli oneri probatori in materia di licenziamento orale e che ha determinato la rimessione in pubblica udienza destinata, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 375 c.p.c., aggiunto dall’art. 1 bis, co. 1, lett. a), n. 2, del d.l. n. 168 del 2016, conv., con modificazioni, nella I. n. 197 del 2016, alla trattazione delle questioni di diritto di “particolare rilevanza”.

La sollecitazione coglie nella giurisprudenza di legittimità delle disarmonie che hanno dato luogo a letture talvolta non convergenti di vicende processuali contigue ed induce la Corte a ribadire ed ulteriormente definire i principi regolatori della materia per scongiurare incertezze applicative.

2.1. Al fine di un ordinato iter motivazionale non si può prescindere da un esame dei precedenti, avuto particolare riguardo alle sentenze che appaiono più significative in ragione delle argomentazioni che le supportano e dell’influenza che hanno esercitato sugli orientamenti successivi.

2.2. Pacificamente viene riconosciuto che anche nel rapporto di lavoro subordinato, come in tutti i rapporti di durata, la parte che ne deduca l’estinzione è tenuta a dimostrare – in conformità al principio relativo alla ripartizione dell’onere probatorio dettato dall’art. 2697 c.c. – la sussistenza di un fatto idoneo alla sua risoluzione.

Tuttavia, a partire da Cass. n. 2853 del 1995, si è evidenziato che nel sistema di regolazione dei licenziamenti individuali “il fatto costitutivo del diritto alla riassunzione e poi alla reintegrazione, secondo le variazioni della legge n. 300 del 1970, è un fatto – il licenziamento appunto – attribuibile alla sola iniziativa del datore di lavoro, alla quale non corrisponde una identica iniziativa del lavoratore”. Da tale rilievo ne è scaturito l’assunto, poi sintetizzato nella massima, secondo cui: “la prova gravante sul lavoratore che domandi la reintegrazione nel posto di lavoro è quella della estromissione dal rapporto, mentre la controdeduzione di un fatto che nega il licenziamento e collega la estromissione dal rapporto ad asserite dimissioni del lavoratore assume la valenza di una eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull’eccipiente ai sensi dell’art. 2697, co. 2, c.c.”. Nella parte motiva della decisione si spiega come debba essere intesa l’asimmetria rilevata dalla Corte circa l’iniziativa del recesso che conduce al pur comune effetto della “estromissione” dal rapporto lavorativo e che si sviluppa sul piano della prova. Si sottolinea che “quando comunque il materiale probatorio sia stato raccolto, la valutazione dei possibili significati della prova deve essere compiuta quantomeno con specifica attenzione alla peculiarità delle facoltà attribuite ai contraenti e ai poteri attribuiti al datore di lavoro”; “in special modo l’indagine del giudice del merito deve essere rigorosa, data la gravità delle relative conseguenze in relazione a beni giuridici che formano oggetto di tutela privilegiata da parte dell’ordinamento, quando si tratti di stabilire il significato di una dichiarazione o di un comportamento cui si assegni valore negoziale di recesso del lavoratore (cosiddette dimissioni), in tal caso dovendosi stabilire, attraverso l’interpretazione dell’atto di recesso e la valutazione dei comportamenti in concreto osservati dal lavoratore, che da parte sua sia stata manifestata in modo univoco l’incondizionata volontà di porre fine al rapporto e che tale volontà sia stata idoneamente comunicata alla controparte”.

2.3. Il principio tutto fondato sulla contrapposizione tra “prova della estromissione” gravante sul lavoratore e “prova delle dimissioni” quale eccezione in senso stretto di pertinenza datoriale è rifluito in numerose massime (tra le altre: Cass. n. 4717 del 2000; Cass. n. 14977 del 2000; Cass. n. 14082 del 2010; Cass. n. 21684 del 2011), senza che risulti sempre agevole decifrare a quale degli oneri probatori si debba dare priorità nella contesa processuale ovvero prevalenza in caso di incertezza (ciò emergendo talvolta dall’esame delle fattispecie concrete, come accade, ad esempio, in Cass. n. 610 del 2015 o in Cass. n. 25847 del 2018, dalle quali risulta la soccombenza del lavoratore che non aveva fornito la prova del licenziamento orale).

2.4. Verso la metà del decennio scorso una serie di pronunce dall’impianto argomentativo sovrapponibile è giunta ad affermare che “la prova gravante sul lavoratore – che chieda giudizialmente la declaratoria di illegittimità dell’estinzione del rapporto – riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo cioè la estromissione del lavoratore dal luogo di lavoro”, atteso che il licenziamento “costituisce un atto unilaterale di recesso con cui una parte dichiara all’altra la sua volontà di estinguere il rapporto e che, quindi, non può che essere comprovato da chi abbia manifestato tale volontà di recedere, non potendo la parte (la quale abbia “subito” il recesso) provare una circostanza attinente alla sfera volitiva del recedente”, per cui “deve confermarsi che l’onere della prova del licenziamento grava sul datore di lavoro” (in termini: Cass. n. 10651 del 2005, ma v. pure Cass. n. 7614 del 2005; Cass. n. 5918 del 2005; Cass. n. 22852 del 2004; Cass. n. 2414 del 2004).

All’orientamento che ritiene sufficiente per il lavoratore che impugna il licenziamento orale la prova della “cessazione” del rapporto lavorativo si sono adeguate successive decisioni (v. Cass. n. 18087 del 2007; Cass. n. 155 del 2009).

2.5. Esprimono, invece, un diverso avviso significativi precedenti di questa Corte.

Innanzitutto Cass. n. 12520 del 2000 secondo cui il termine “estromissione” vale quale “sinonimo” di quello di “espulsione” e, perciò, di “licenziamento”, non potendo quindi intendersi usato come “artificio verbale di chiamare estromissione ogni cessazione del rapporto di cui non sia chiara la genesi”.

Per la sentenza citata “non è contestabile che la stessa esistenza del licenziamento deve configurarsi quale “fatto costitutivo” della domanda di impugnazione del licenziamento, conseguendone che, ai sensi dell’articolo 2697 del codice civile, deve ritenersi gravante sul proponente dell’azione l’onere di fornire la prova dell’evento “licenziamento”, non potendo certamente ritenersi che, in materia, viga una regola di inversione dell’onere probatorio, secondo la quale il lavoratore possa limitarsi a una mera allegazione della circostanza, restando obbligato il datore di lavoro a fornire la dimostrazione che il recesso sia stato dovuto ad altra causa, essendo invece sufficiente che – ai sensi della disciplina dettata in via generale dal codice in tema di ripartizione dell’onere probatorio – il convenuto si limiti alla semplice negazione del fatto costitutivo del diritto esercitato dalla controparte. Evidentemente, nella ipotesi in cui esso convenuto abbia contrapposto una difesa che sia specificamente articolata su fatti diversi da quelli posti a base della domanda avversaria, sorgerà, in concreto, un onere probatorio a suo carico, circa le eccezioni proposte, nel momento in cui la controparte abbia fornito la prova del suo assunto”.

Nella medesima prospettiva si colloca Cass. n. 6727 del 2001 che prende esplicitamente atto come le pronunce della Corte “negli ultimi anni intervenute sull’argomento non sono tutte pienamente concordanti”. Giudica che “l’espressione “estromissione dal rapporto di lavoro” in realtà appare equivoca”; considera poi che “se si intende alludere alla semplice constatazione della cessazione di fatto dell’attuazione del rapporto, si introdurrebbe, in assenza di una previsione di legge in tal senso, una sorta di esonero del lavoratore dall’onere della prova riguardo alla effettiva esistenza di un licenziamento” per cui “in tali sensi il principio enunciato non può essere condiviso, dovendosi riaffermare invece … che il lavoratore, il quale invoca i rimedi contro il licenziamento illegittimo, ha l’onere di provare l’esistenza del licenziamento”. “Se invece si allude – continua la Corte – ad uno specifico comportamento del datore di lavoro, che a un certo punto abbia rifiutato le prestazioni offerte dal lavoratore la conclusione non può cambiare, nel senso che in linea di principio le prove acquisite devono essere idonee a dimostrare o che nell’occasione specifica è intervenuto un licenziamento per fatti concludenti, oppure che tale comportamento rappresenta la conseguenza di un precedente licenziamento, di cui detto rifiuto delle prestazioni eventualmente costituisca un concorrente elemento di prova”.

2.6. E’ invece comune ad entrambi gli orientamenti ed è costante nella giurisprudenza di legittimità la cura di precisare, proprio sulla scorta di Cass. n. 2853/1995 cit., che, ove nel giudizio si contrappongano le tesi del licenziamento e delle dimissioni, l’indagine del giudice del merito deve essere particolarmente “rigorosa” nell’apprezzamento del materiale probatorio laddove si intenda dimostrare che il lavoratore abbia rinunciato al posto di lavoro quale bene giuridico primario (tra le altre cfr. Cass. n. 6900 del 2016; Cass. n. 15556 del 2016; Cass. n. 22901 del 2010; Cass. n. 7839 del 2000; Cass. n. 5427 del 1999).

Anche Cass. n. 6727/2001 cit. argomenta che, “in caso di cessazione dell’attuazione del rapporto di lavoro, caratterizzata dalla assenza di atti formali di licenziamento o di dimissioni, e di contrapposizione di tesi in giudizio circa la causale di detta cessazione, il giudice di merito, ai fini dell’accertamento del fatto, deve prestare particolare attenzione, indagando la rilevanza ai fini sostanziali o probatori nel caso concreto anche degli eventuali episodi consistenti nell’offerta delle prestazioni da parte del lavoratore e nel rifiuto o mancata accettazione delle stesse da parte del datore di lavoro”.

2.7. Per completezza si rileva che è estranea alla questione che ci occupa l’ipotesi in cui sia pacifico tra le parti il fatto dell’estinzione del rapporto di lavoro a seguito di un licenziamento, controvertendosi solo del quomodo della forma del licenziamento, per cui in questo caso è il datore di lavoro tenuto a dimostrare i requisiti di forma e di efficacia del licenziamento (cfr. Cass. n. 5061 del 2016).

Parimenti esercita solo indiretta influenza sulla descritta vicenda giurisprudenziale la legislazione che nel corso del tempo ha assoggettato ad una disciplina particolarmente rigorosa in termini di forma l’atto di manifestazione di volontà del lavoratore di risolvere il rapporto (v. Cass. n. 24750 del 2017).

3. Così delineato il quadro della giurisprudenza sul tema, questa Corte intende dare continuità al secondo degli indirizzi richiamati, ancora di recente ribadito affermando che, in punto di ripartizione dell’onere probatorio in caso di dedotto licenziamento orale, la prova gravante sul lavoratore circa la “estromissione” dal rapporto non coincide tout court con il fatto della “cessazione del rapporto di lavoro, ma con un atto datoriale consapevolmente volto ad espellere il lavoratore dal circuito produttivo” (Cass. n. 31501 del 2018).

3.1. Dal punto di vista strutturale il licenziamento è atto unilaterale con cui il datore di lavoro dichiara al lavoratore la volontà di estinguere il rapporto di lavoro, esercitando il potere di recesso.

Chi impugna un licenziamento deducendo che esso si è realizzato senza il rispetto della forma prescritta ha l’onere di provare, oltre la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, il fatto costitutivo della sua domanda rappresentato dalla manifestazione di detta volontà datoriale, anche se realizzata con comportamenti concludenti.

Tale identificazione del fatto costitutivo della domanda del lavoratore prescinde dalle difese del convenuto datore di lavoro, anche perché questi può risultare contumace, ed il conseguente onere probatorio è ripartito sulla base del fondamentale canone dettato dall’art. 2697, co. 1 ,c.c., secondo cui “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento“.

Non ha riscontro normativo la tesi secondo la quale il lavoratore possa limitarsi a una mera allegazione della circostanza dell’intervenuto licenziamento, obbligando il datore di lavoro a fornire la dimostrazione che l’estinzione del rapporto di durata sia dovuta ad altra causa, perché in tal caso si realizzerebbe una inversione dell’onere probatorio non prevista dall’ordinamento.

Non prevista dalla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali, che pone a carico del datore di lavoro l’onere di provare che il licenziamento sia giustificato (art. 5, I. n. 604 del 1966), ma non anche che la risoluzione del rapporto sia ascrivibile ad una volontà datoriale. Inversione dell’onere probatorio non evincibile neanche in via sistematica perché sia la ricostruzione della volontà di licenziare, sia eventuali difficoltà nel fornire la prova gravante sul lavoratore, trovano adeguato contrappeso in un utilizzo appropriato anche delle presunzioni affidato al prudente apprezzamento del giudice.

3.2. Ciò posto, la mera cessazione definitiva nell’esecuzione delle prestazioni derivanti dal rapporto di lavoro non è di per sé sola idonea a fornire la prova del licenziamento, trattandosi di circostanza di fatto di significato polivalente, in quanto può costituire l’effetto sia di un licenziamento, sia di dimissioni, sia dì una risoluzione consensuale.

Tale cessazione non equivale a “estromissione”, parola sovente utilizzata nei precedenti citati ma che non ha un immediato riscontro nel diritto positivo per cui alla stessa va attribuito un significato normativo, sussumendola nella nozione giuridica di “licenziamento”, e quindi nel senso di allontanamento dall’attività lavorativa quale effetto di una volontà datoriale di esercitare il potere di recesso e risolvere il rapporto.

L’accertata cessazione nell’esecuzione delle prestazioni può solo costituire circostanza fattuale in relazione alla quale, unitamente ad altri elementi, il giudice del merito possa radicare il convincimento, adeguatamente motivato, che il lavoratore abbia assolto l’onere probatorio sul medesimo gravante circa l’intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro ad iniziativa datoriale.

3.3. In generale, ove il datore di lavoro deduca che un rapporto di lavoro si è estinto per le dimissioni del lavoratore, sia che lo faccia in via di azione che in via di eccezione, sul datore medesimo grava la prova del fatto costitutivo della domanda o dell’eccezione.

In entrambi i casi tale prova avente ad oggetto la volontà dismissiva del lavoratore dovrà essere vagliata con adeguato rigore, data la gravità delle conseguenze derivanti dall’incidenza su beni che formano oggetto di tutela privilegiata da parte dell’ordinamento. Fermi gli eventuali vincoli di forma stabiliti per l’atto delle dimissioni dalla legislazione pro tempore vigente, l’accertamento del significato di una dichiarazione o di un comportamento del lavoratore cui si attribuisca la valenza di un recesso dovrà essere condotto tenuto conto di tutte le circostanze in cui la risoluzione si è verificata, delle condizioni di interesse di ciascuna delle parti alla prosecuzione del rapporto ovvero alla sua estinzione, della diversità di poteri e di facoltà attribuiti ai contraenti nel rapporto di lavoro.

3.4. In particolare, laddove il licenziamento sia impugnato come orale, nel caso in cui il datore di lavoro opponga invece che il rapporto si è estinto per le dimissioni del dipendente, tanto più se presentate nello stesso contesto spazio temporale, il giudice sarà chiamato a ricostruire i fatti con accurata indagine probatoria onde esprimere all’esito il proprio convincimento su come debbano essere giuridicamente qualificati detti fatti, e cioè se come licenziamento ovvero come dimissioni.

In siffatto accertamento, inoltre, il giudice del merito dovrà osservare il criterio per cui costituisce carattere tipico del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale, di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti (cfr. Cass. SS.UU. n. 11353 del 2004).

3.5. Nel caso residuale in cui perduri una non superabile incertezza probatoria, opererà la regola dell’art. 2697 c.c. in base alla quale il lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua domanda la vedrà respinta, anche se non risultino provate neanche le dimissioni eccepite dal datore, in ossequio al risalente principio processuale secondo cui l’onere probatorio del convenuto in ordine alle eccezioni da lui proposte sorge in concreto solo quando l’attore abbia a sua volta fornito la prova dei fatti posti a fondamento della domanda, sicché l’insufficienza (o anche la mancanza) della prova sulle circostanze dedotte dal convenuto a confutazione dell’avversa pretesa non vale a dispensare la controparte dall’onere di dimostrare adeguatamente la fondatezza nel merito della pretesa stessa (cfr. Cass. n. 1522 del 1983; Cass. n. 3148 del 1985; Cass. n. 3099 del 1987; Cass. n. 2680 del 1993; Cass. n. 5192 del 1998; Cass. n. 8164 del 2000; Cass. n. 3642 del 2004; Cass. n. 13390 del 2007).

4. Alla stregua delle esposte considerazioni la sentenza impugnata merita le censure che le sono mosse con il primo mezzo di gravame, avendo la stessa ritenuto sufficiente ai fini dell’accoglimento della domanda di impugnativa del licenziamento orale che la cessazione del rapporto di lavoro tra le parti fosse pacifica e non contestata e che mancasse la prova delle dedotte dimissioni, pur non risultando acquisita la prova del recesso ad iniziativa datoriale.

Pertanto, decidendo sul motivo di ricorso proposto ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c., deve essere enunciato, a mente dell’art. 384, co. 1, c.p.c., il seguente principio di diritto:

Il lavoratore subordinato che impugni un licenziamento allegando che è stato intimato senza l’osservanza della forma prescritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della sua domanda, che la risoluzione del rapporto di lavoro è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, anche se manifestata con comportamenti concludenti; la mera cessazione nell’esecuzione delle prestazioni non è circostanza di per sé sola idonea a fornire tale prova. Ove il datore di lavoro eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore, il giudice sarà chiamato a ricostruire i fatti con indagine rigorosa – anche avvalendosi dell’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. – e solo nel caso perduri l’incertezza probatoria farà applicazione della regola residuale desumibile dall’art. 2697, co. 1, cod. civ., rigettando la domanda del lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua pretesa“.

5. Conclusivamente il primo motivo di ricorso deve essere accolto, con cassazione della sentenza impugnata ed assorbimento del secondo mezzo, successivo in ordine logico, con il quale si denuncia la “violazione dell’art. 2 I. n. 604/1966”, circa il potere da parte di A.A., dipendente dell’A., di comminare il licenziamento.

La Corte indicata in dispositivo provvederà a nuovo esame uniformandosi a quanto statuito e regolando anche le spese.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di Appello di Catanzaro, in diversa composizione, anche per le spese.