CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 gennaio 2019, n. 192
Licenziamento per motivo oggettivo – Soppressione della unità organizzativa – Onere della prova – Valutazione delle ricadute sui livelli occupazionali – Criteri di correttezza e buona fede
Fatti di causa
La Corte d’Appello di Palermo, con sentenza resa pubblica in data 15/9/2016 e notificata il 16/9/2016, confermava la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva annullato il licenziamento intimato – per ragioni di carattere economico ed organizzativo – il 5/9/2011 dalla s.p.a. A. nei confronti di S.C.
La Corte distrettuale condivideva l’iter argomentativo percorso dal giudice di prima istanza il quale aveva ritenuto insussistenti le ragioni di carattere oggettivo sottese al provvedimento espulsivo irrogato (per soppressione della unità organizzativa di via G. a Palermo cui la C. era addetta quale direttrice tecnica). La parte datoriale, che ne era onerata, non aveva infatti fornito la prova del connotato di autonomia della attività svolta dalla agenzia di viaggi, con riferimento all’oggetto della attività imprenditoriale di tour operator svolta dalla medesima società presso la sede principale di via I.L.L.
Discendeva, quale corollario, che, configurando la misura adottata una forma di riduzione del personale, la decisione dell’azienda di procedere a tale riduzione non poteva prescindere da una valutazione delle ricadute sui livelli occupazionali, da una ponderazione dell’ordine di priorità negli esuberi e da una prognosi negativa, condotta secondo criteri di correttezza e buona fede, circa l’utile ricollocabilità della lavoratrice licenziata.
Nello specifico non risultava in alcun modo rappresentata dalla parte datoriale l’infungibilità fra la prestazione svolta dalla C. e quelle anche inferiori, espletate dagli altri addetti assegnati alla unitaria organizzazione aziendale, né era stata prospettata l’adozione di un criterio di selezione oggettivo nella individuazione del personale da licenziare.
Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione la A. s.p.a. affidato a tre motivi illustrati da memoria, cui resiste con controricorso S.C., che ha depositato a propria volta memorie ex art. 378 c.p.c.
L’Inps ha depositato delega in calce al ricorso notificato.
Ragioni della decisione
1. Deve in via pregiudiziale esaminarsi la questione della improcedibilità del presente ricorso in relazione alla eccezione sollevata dalla controricorrente con riferimento al comma 2 n. 2 dell’art. 369 c.p.c., avuto riguardo all’omesso deposito da parte ricorrente dell’attestazione di conformità all’originale della copia cartacea della sentenza impugnata e della relata di notifica eseguita in via telematica.
2. Essa non è fondata.
Dalla disamina del fascicolo di parte ricorrente, risulta sia stata ritualmente prodotta copia analogica della sentenza predisposta in originale telematico e notificata a mezzo posta elettronica certificata, con attestazione di conformità del difensore ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter, I. n. 53 del 1994; onde risultano rispettati i dettami dell’art. 369 c. 2 c.p.c.
3. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 3 L. 604/66 in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c. Si critica l’argomentare dei giudici del gravame laddove hanno ritenuto – sulla premessa che le sedi in cui era articolata la complessa attività aziendale fossero legate da un vincolo sinergico – che la scelta di licenziare la lavoratrice non fosse stata giustificata dalla infungibilità delle mansioni rispetto a quelle svolte dagli altri addetti alla diversa sede di via L.
Si deduce che la procedura di scelta del personale eccedentario deve essere seguita solo laddove “non emerga già dagli atti processuali un apprezzabile e riconoscibile nesso di causalità tra la ragione economica a monte del licenziamento ed il licenziamento stesso”. Nello specifico il nesso causale esisteva, giacchè la lavoratrice era una delle due uniche addette (nel ruolo infungibile per definizione), di Direttrice tecnica della Agenzia di Viaggi della società; l’unità era stata chiusa con soppressione di entrambi i posti di lavoro sicchè non doveva farsi luogo ad alcuna ulteriore scelta.
4. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 3 I. 604/66 in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c..
Si contesta che l’impossibilità di repechage del lavoratore faccia parte delle ragioni del licenziamento alla stessa stregua delle ragioni che direttamente l’hanno determinato e sulle quali unicamente si verifica il nesso di causalità.
Solo queste ultime sono le ragioni che effettivamente hanno indotto al licenziamento, come tali da provare in positivo, mentre il ripescaggio è un contro limite, ovvero un’eccezione del lavoratore , ossia un fatto impeditivo o estintivo di quelle ragioni e perciò del legittimo esercizio del diritto potestativo di recesso dal contratto di lavoro. Si critica la statuizione del giudice del gravame sulla mancanza di prova da parte datoriale, circa la reperibilità di una diversa collocazione della lavoratrice in ambito aziendale, nonostante la carenza assoluta di allegazione da parte della C., di eventuali posti alternativi in cui essere collocata.
5. I motivi, che possono congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, sono privi di pregio.
La Corte di merito, nel proprio incedere argomentativo, ha innanzitutto evidenziato l’infondatezza delle ragioni di gravame laddove assumevano l’esistenza di una separazione economico-funzionale ed organizzativa fra le attività svolte presso le sedi di via L. e via G., smentendo la tesi di una diversità ontologica fra le organizzazioni produttive, delle quali l’una era dedita al servizio di agenzia viaggi e l’altra aveva ad oggetto il core business della attività di tour operator al servizio delle strutture alberghiere di proprietà A. Ha infatti accertato che le attività in questione componevano un’unica realtà economico-finanziaria connotata dalla omogeneità e dalla natura sinergica delle funzioni espletate nelle unità produttive, che confluivano in una unitaria struttura organizzativa.
E detta statuizione non risulta oggetto di specifica censura da parte ricorrente. Date queste premesse, il giudice del gravame ha quindi rimarcato che la decisione dell’azienda di procedere alla riduzione del personale, non poteva prescindere da una accurata valutazione dei riflessi di tale determinazione, sotto il profilo occupazionale, nell’ambito dell’unitario assetto aziendale.
Nello scrutinare l’osservanza da parte datoriale, della possibilità di utile ricollocazione della lavoratrice nella unitaria struttura organizzativa dell’impresa, ha stigmatizzato la condotta di parte datoriale per non aver dimostrato, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’impossibilità di una diversa utile collocazione della lavoratrice, anche in mansioni diverse ed inferiori, rispetto a quelle in precedenza espletate.
Orbene, la statuizione oggetto di doglianza si colloca nel solco della giurisprudenza di questa Corte, alla quale si intende dare continuità, secondo cui in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il lavoratore ha l’onere di dimostrare il fatto costitutivo dell’esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato così risolto, nonché di allegare l’illegittimo rifiuto del datore di continuare a farlo lavorare in assenza di un giustificato motivo, mentre incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l’impossibilità del cd. “repechage”, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore (vedi Cass. 13/6/2016 n. 12101, Cass. 5/1/2017 n.160, Cass. 20/10/2017 n. 24882).
Essa si sottrae, pertanto, alle censure così come formulate.
6. Il terzo motivo prospetta omesso esame cicca un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti. Ci si duole che la Corte distrettuale abbia omesso l’esame delle allegazioni della società relative alla effettiva contrazione dell’organico aziendale ed alla mancata assunzione di nuovo personale dopo il licenziamento della lavoratrice, oltre che dell’impossibilità di collocazione della stessa presso la distinta unità aziendale di via L.
7. Il motivo presenta profili di inammissibilità.
Esso investe, per vero, l’accertamento in fatto compiuto dai giudici del gravame che non è suscettibile di sindacato in questa sede di legittimità perché prospettato attraverso un rinnovato apprezzamento del merito, ben oltre i limiti imposti dall’art. 360, co. 1, n. 5, novellato, così come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014.
Inoltre il vizio attinente alla ricostruzione dei fatti e la loro valutazione, per i giudizi di appello instaurati – come quello oggetto di scrutinio – successivamente al trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della legge 7 agosto 2012 n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, non può essere denunciato, rispetto ad un reclamo proposto dopo la data sopra indicata, (art. 54, comma 2, del richiamato d.l. n. 83/2012), con ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello che conferma la decisione di primo grado, qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c.). Ossia il vizio di cui all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme (vedi ex plurimis, Cass. 27/7/2017 n. 18659), per cui l’invocato sindacato sul giudizio di merito circa la sussistenza e l’apprezzamento dei fatti disciplinari, espresso concordemente nel doppio grado ad esso riservato, è precluso a questa Corte.
8. In definitiva, alla stregua delle sinora esposte argomentazioni, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Nessuna pronuncia in ordine alle spese del presente giudizio va emessa in relazione alla posizione dell’Inps che non ha svolto attività difensiva.
Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1 co. 17 L. 228/2012 (che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002) – della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali oltre spese generali al 15%, ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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