CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 gennaio 2020, n. 148
CCNL Dirigenti Aziende Industriale – Licenziamento – Impugnazione – Tempestività – Pagamento dell’indennità supplementare
Fatti di causa
1. L’ing. P. S., già dirigente della N.G.I. s.p.a., licenziato il 29 agosto 2012, agiva per il riconoscimento della “ingiustificatezza” del recesso intimatogli dalla datrice di lavoro e per il pagamento dell’indennità supplementare ex art. 19 CCNL Dirigenti Aziende Industriale, unitamente ad altre connesse pretese (differenze dell’indennità di preavviso e premio di produzione), che in questa sede più non rilevano, essendosi formato il giudicato interno sulle relative statuizioni di rigetto.
2. Sull’impugnativa del licenziamento, il Giudice del lavoro del Tribunale di Velletri rilevava l’intervenuta decadenza di cui all’art. 32, comma 1, l. n. 183/2010, non avendo il lavoratore provveduto ad impugnare il recesso nei termini previsti dalla citata norma.
3. L’appello proposto dal dirigente veniva accolto dalla Corte d’appello di Roma che, con sentenza n. 3977/2016, riformando sul punto la pronuncia di primo grado, dichiarava tempestiva l’impugnativa e privo di giustificatezza il licenziamento intimato dalla società datrice di lavoro, che veniva condannata al pagamento dell’indennità supplementare di cui all’art. 19 CCNL pro-tempore vigente nella misura di euro 196.109,82, oltre accessori.
3.1. Quanto al regime della decadenza, prevista nei termini di 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento e di ulteriori 180 giorni per la proposizione di ricorso giurisdizionale, la Corte di appello, pur rilevando che l’art. 32, comma 2, l. n. 183/2010 aveva esteso il relativo regime a tutti i casi di invalidità del licenziamento e che tale estensione riguardava anche i dirigenti, come affermato da Cass. n. 22627/2015, osservava tuttavia che l’istituto non poteva che riguardare i soli casi di difformità del licenziamento dal modello legale, in quanto la patologia dell’invalidità comprende i licenziamenti nulli perché contrastanti con specifici divieti di legge, inefficaci perché verbali (in violazione dell’art. 2 comma 1, l. n. 604/66), privi di giusta causa o di giustificato motivo o anche soltanto viziati dal mancato rispetto delle regole procedimentali di cui all’art. 7 Stat. lav.; in tutti questi casi si tratta sempre di ipotesi in cui l’atto espulsivo datoriale, al di là delle tutele offerte dall’ordinamento, più o meno intense, (dalla reintegrazione ad indennizzi monetari variamente graduati, tutele peraltro nel tempo più volte rivisitate), si pone in contrasto con norme di legge, sia essa la legge n. 604/66, siano fonti ad essa successive. In nessun caso può invece qualificarsi come invalido il licenziamento del dirigente privo di “giustificatezza” a norma dei contratti collettivi di settore (nel caso in esame, dall’art. 22 del CCNL Dirigenti Imprese industriali), poiché in questo caso l’illecito è solo convenzionale e l’atto che lo riflette integra soltanto un inadempimento contrattuale, così come di esclusiva regolamentazione contrattuale è la tutela in tal caso apprestata.
3.2. La Corte di appello concludeva che la decadenza ex artt. 6 l. 604/66 e 32, comma 2, n. 183/10 non opera in questa evenienza, essendo l’istituto di stretta interpretazione, insuscettibile di applicazione estensiva.
3.3. Esaminando nel merito la domanda proposta dal dirigente, osservava che non risultava dimostrata in giudizio, quanto meno nella parte specificamente riferita alla funzione aziendale di cui era responsabile il ricorrente, la prospettata ristrutturazione aziendale, che la società aveva addotto per far fronte alla drastica modifica dello scenario economico di riferimento e all’inversione del trend di crescita dell’intero gruppo, leader mondiale del comparto dell’elettronica per la difesa. Osservava che la prospettata revisione organizzativa della funzione Program Management, la cui posizione apicale era occupata dal S. e che sarebbe stata in esubero, non aveva trovato riscontro in giudizio, alla stregua dell’esame degli organigrammi aziendali e in assenza di documentazione ulteriore, non offerta dall’azienda, sulla quale gravava il relativo onere probatorio.
3.4. In conclusione al dirigente spettava l’indennità supplementare, determinabile in quindici mensilità, aumentata a diciotto mensilità per l’età anagrafica.
4. Per la cassazione di tale sentenza la N.G.I. s.p.a. ha proposto ricorso affidato a tre motivi, cui ha resistito con controricorso il dott. S..
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 1362 e seguenti cod. civ., dell’art. 6 l. n. 604/66, dell’art. 32, comma 2, l. n. 183/10 (art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.) per avere la sentenza errato, da un lato, nell’interpretazione del ricorso introduttivo laddove il dirigente aveva allegato anche la natura ritorsiva o discriminatoria del licenziamento chiedendo l’accertamento della sua nullità, dall’altro, nell’interpretazione della portata applicativa della fattispecie della decadenza, essendosi la Corte di appello discostata dai principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 22627 del 2015), il cui orientamento consente di superare la questione relativa alla applicabilità o meno dell’istituto a seconda delle ragioni poste a fondamento dell’illegittimità del recesso, siano esse la nullità, l’invalidità o la mera ingiustificatezza del recesso.
1.1. Si osserva che sui concetti di invalidità e giustificatezza la Corte d’appello non aveva tenuto conto di quanto osservato dalla società resistente in primo grado e precisamente che l’ingiustificatezza è un concetto di creazione giurisprudenziale e quindi come tale non può costituire una categoria giuridica a sé stante; che trattandosi di ipotesi patologica di illegittimità del licenziamento, essa non può che essere ricondotta nell’ambito della categoria giuridica della invalidità; che la questione poi se l’impugnativa del licenziamento debba essere attuata nel termine di decadenza legale solo nel caso in cui l’illegittimità dell’atto incida o meno sulla continuità del rapporto di lavoro, trattasi di questione ormai superata dalla luce del nuovo testo dell’art. 18 l. n. 300/70 e delle ulteriori modifiche al sistema di tutela dei lavoratori introdotte con il c.d. Jobs Act, secondo cui la regola del sistema di tutela del lavoratore è prima di tutto quella indennitaria e solo in casi particolari quella reale della reintegrazione nel posto di lavoro; che, in altri termini, la distinzione tra invalidità e giustificatezza, oggi, alla luce delle modifiche attuate dall’art. 18, deve ritenersi venuta meno, tanto più che costituirebbe una disparità di trattamento ingiustificata ritenere che il lavoratore di livello inferiore al dirigente debba impugnare il licenziamento nel termine previsto anche quando invoca la tutela indennitaria, mentre non debba farlo il dirigente.
2. Il secondo motivo denuncia nullità della sentenza per manifesta e/o irriducibile contraddittorietà e o mera apparenza della motivazione (art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ.) nella parte in cui, dopo avere correttamente osservato che la patologia dell’invalidità comprende i licenziamenti nulli, era giunta alla conclusione illogica e contraddittoria della inapplicabilità della decadenza ex art. 6 l. n. 604/66 e art. 32, comma 2, l. n. 183/10.
3. Il terzo motivo denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.) per non avere la sentenza tenuto conto della dettagliata descrizione della riorganizzazione aziendale contenuta nella memoria difensiva di primo grado, riportato in ricorso (da pagina 13 a pagina 22)..
Si sostiene che i giudici di secondo grado, se avessero tenuto conto delle allegazioni svolte in tale memoria difensiva in ordine alla riorganizzazione aziendale, avrebbero dovuto affermare che licenziamento intimato al ricorrente era legittimo e giustificato perché connesso ad un’operazione di riorganizzazione effettiva e non pretestuosa, che aveva visto depotenziare l’ufficio diretto dal dott. S. con riduzione totale della funzione gestoria apicale prima ritenuta necessaria, con l’eliminazione della postazione lavorativa del ricorrente.
4. Il ricorso è infondato e va pertanto respinto.
5. Con riguardo al primo motivo, attinente alla estensibilità al licenziamento del dirigente affetto da ingiustificatezza del termine decadenziale introdotto dall’art. 32 del Collegato Lavoro, valgono le osservazioni che seguono.
5.1. L’art. 6 della legge n. 604/1966, nel testo antecedente alla novella ex art. 32, comma 1, l. n. 183/2010, disponeva che il licenziamento dovesse essere impugnato, a pena di decadenza, anche in sede extragiudiziale, entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione. Tale regime era pacificamente ritenuto inapplicabile ai dirigenti che agissero per la condanna datoriale al pagamento dell’indennità supplementare prevista dal contratto collettivo, in quanto si trattava di categoria di prestatori sottratta alle norme limitative dei licenziamenti individuali poste dalla legge n. 604/1966 (cfr. ex multis, Cass. n. 1641/1995, n. 20763 del 2012).
5.2. Deve ricordarsi che, fino al 2010, la disciplina contemplata nella l. n. 604/1966 (fatto salvo quanto previsto dall’art. 2, co. 4) non è stata applicata ai dirigenti, sulla base di quanto stabilito dall’art. 10 della medesima normativa. In forza di tale esclusione ex lege, per questa categoria di lavoratori non è mai sussistito l’obbligo di impugnare il recesso secondo il regime decadenziale previsto ex art. 6, l. n. 604/1966. Di conseguenza, si è attestata l’uniforme e pacifica interpretazione dei giudici di merito e di legittimità: le tutele della prima legge sui licenziamenti individuali sono state estese ed applicate soltanto ai cc.dd. pseudo-dirigenti.
5.3. L’art. 32 della legge n. 183 citata, al comma 1, ha sostituito l’art. 6 della legge n. 604 e, nel ribadire il termine di decadenza di 60 giorni per l’impugnazione extragiudiziale del licenziamento, prevede ora il termine ulteriore di 180 giorni per la proposizione del ricorso giurisdizionale. Al comma 2 del predetto art. 32 è previsto che le disposizioni di cui al citato art. 6 della legge 604 si applicano “anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento”.
5.4. Dunque, il Collegato Lavoro, all’art 32, comma 2, ha previsto l’estensione della decadenza in tema di licenziamento anche a tutti i casi di invalidità. Il termine invalidità ha un significato preciso, che presuppone che l’atto sia inficiato nella sua validità per un vizio intrinseco derivante dal discostamento dal modello legale o per effetto di una previsione legale che colleghi alla mancanza di requisiti che devono caratterizzare l’atto la conseguenza della invalidità (come per il licenziamento: art. 2119 c.c.). La legge 183/2010 ha così inteso ricomprendere nell’ambito del regime caducatorio disciplinato ex novo rispetto all’art 6 I. 604/1966 casi di nullità e, in generale, di invalidità esterni alla legge 604/1966.
6. Il licenziamento del dirigente originariamente era tutelato dal divieto del licenziamento discriminatorio e ritorsivo (colpito da nullità: artt. 2 e 4 della legge n. 604/1966 cit.), lasciando la normativa immutato il regime di libera recedibilità come criterio generale, salva sempre la possibilità per la contrattazione collettiva di introdurre un regime di controllo delle ragioni del licenziamento individuale.
6.1. Ai limiti di tutela ha posto, quindi, in qualche misura, rimedio la contrattazione collettiva col prevedere, generalmente, che nei casi in cui non sussista la giustificatezza del licenziamento, ferma la validità e l’efficacia del recesso, al dirigente spetta una speciale indennità supplementare di carattere risarcitorio.
6.2. Soltanto con la legge 92 del 2012, nella nuova formulazione dell’art. 18, comma 1, i dirigenti sono stati per la prima volta destinatari di una tutela piena per le ipotesi anche ad essi applicabili di nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 del codice civile.
7. Con la sentenza 22627/2015, questa Corte ha affermato che “i suddetti termini di decadenza e di inefficacia dell’impugnazione devono trovare applicazione quando si deduce l’invalidità del licenziamento, come nella specie, prospettandone la nullità in quanto discriminatorio, non assumendo rilievo la categoria legale di appartenenza del lavoratore“. A questa decisione la Corte di Cassazione è pervenuta rilevando che “la ratio della disciplina introdotta dall’art. 6 della legge n. 604/1966, in combinato disposto con l’art. 32, comma 2, della legge n. 183 del 2010, si rinviene nell’esigenza di garantire la speditezza dei processi attraverso la previsione di termini di decadenza ed inefficacia in precedenza non previsti, in aderenza e non in contrasto con l’art. 111 Cost. Il legislatore ha così operato, facendo riferimento ad un criterio oggettivo, un non irragionevole bilanciamento tra l’indispensabile esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche e il diritto di difesa del lavoratore”.
7.1. Secondo la Corte “la ratio della disciplina introdotta dall’art. 6 della legge n. 604 del 1966, in combinato disposto con l’art. 32, comma 2, della legge n.183 del 2010, è coerente con l’ottica di tutela del datore di lavoro in relazione all’esigenza di conoscere in un tempo sufficientemente breve i rischi economici ed organizzativi connessi alla lite ed all’esigenza di garantire la speditezza dei processi attraverso la previsione di termini di decadenza ed inefficacia prima non previsti in consonanza con il principi dell’art. 111 Cost“.
7.2. Alla luce delle considerazioni espresse da Cass. 22627/15, una volta che l’art. 32, comma 2, ha previsto un onere di impugnativa a pena di decadenza per ogni recesso datoriale invalido – con un metro che per sua natura è indipendente dalla categoria legale di appartenenza del lavoratore – è ragionevole ritenere che la norma regoli “anche” il caso del licenziamento vietato o nullo del dirigente, identico nella disciplina (sostanziale e sanzionatoria) al corrispondente licenziamento di un impiegato o di un operaio.
7.3. Ciò comporta che solo in virtù di tale estensione la disciplina della decadenza per i casi di “invalidità” è stata resa applicabile ai recessi intimati ai dirigenti, una volta ritenuto che l’ambito soggettivo di applicabilità del regime decadenziale comprenda anche tale categoria.
7.4. L’estensione dei termini di decadenza ed inefficacia dell’impugnazione del licenziamento, disposta dall’art. 32, comma 2, della legge n. 183 del 2010 è ritenuta operare, in conclusione, con riguardo al dato oggettivo costituito dalla invalidità del licenziamento e al di fuori della limitazione posta dal citato art. 10 della legge n. 604 del 1966 con riguardo alla posizione lavorativa dell’interessato.
8. Più problematica è la questione, oggetto del presente giudizio, dell’applicabilità della decadenza al licenziamento del dirigente in ipotesi non riconducibile ad invalidità dell’atto, ma a fattispecie di mera ingiustificatezza del licenziamento, per le quali è dibattuto se possano operare le decadenze di legge.
8.1. Secondo l’opinione largamente prevalente, il vecchio art. 6 della l. n. 604/1966 si applicava ai soli recessi “interni” al sistema della stessa l. n. 604/1966: rimanevano, pertanto, escluse le fattispecie assoggettate a discipline particolari, quali quelle dei licenziamenti intimati a lavoratori in prova o a dirigenti (il licenziamento del dirigente privato), o posti in essere in violazione delle norme a tutela delle lavoratrici madri e che contraggono matrimonio, o quelli intimati in violazione dell’art. 2112 cod. civ. e delle discipline del comporto.
8.2. L’art. 32, co. 2, l. n. 183/2010 – come già detto – ha esteso l’applicazione della nuova disciplina «anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento», e, dunque, anche a fattispecie “esterne” alla disciplina della l. n. 604/1966 e sue modifiche. Il Collegato Lavoro non ha previsto alcuna estensione ai dirigenti delle ipotesi di nullità del licenziamento esterne alla l. 604/66, essendo tale estensione avvenuta soltanto con la previsione dell’art. 18, comma 1, dello Statuto dei Lavoratori, come modificato dall’art. 42 della l. 92/2012, ciò che consente di ritenere che solo con tale normativa l’espressione “anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento”, riferita alla disciplina della decadenza, possa essere riempita di significato anche per la categoria dei dirigenti. L’art. 32, co. 2, del Collegato Lavoro non poteva, dunque, riferirsi, quanto alla previsione di decadenze, ai dirigenti, se non per le ipotesi di nullità già previste per gli stessi dalla I. 604/66 (artt. 2 e 4, quest’ultimo come modificato dall’art. 3 l. 108/90, che ne ha disposto espressamente l’applicabilità anche ai dirigenti) e solo con la legge 92 del 2012, che ha previsto ipotesi di nullità dei licenziamenti cui consegue di diritto la tutela reintegratoria anche per i dirigenti (testo novellato dell’art. 18, comma 1, St. Lav.), risultano per questi ultimi ipotizzabili fattispecie di invalidità esterne alla I. 604/66, con conseguente estensibilità anche ad essi del regime della decadenza di cui all’art. 32, co 2 del Collegato Lavoro. Questo induce a ritenere che la disciplina sulla decadenza del Collegato Lavoro non potesse nelle intenzioni del legislatore riferirsi anche alle ipotesi di mera ingiustificatezza del licenziamento dei dirigenti, se per questi ultimi non era ancora stata prevista alcuna tutela rafforzata propria di un regime di invalidità, riguardante casi esterni alla legge 604/66, che giustificasse il regime decadenziale introdotto, ispirato ad esigenze di certezza e di celerità nella stabilizzazione di conseguenze reintegratorie previste a carico del datore di lavoro.
8.3. Le considerazioni che precedono inducono ad escludere l’estensione del regime decadenziale, che dipende dal significato che si attribuisce al termine “invalidità”, a casi che rientrano nel più ampio concetto di illegittimità, ciò che condurrebbe a ritenere la nuova disciplina applicabile all’impugnazione di qualsiasi licenziamento. Corollario delle stesse è, al contrario, l’attribuzione al termine invalidità del significato suo proprio, cui consegue l’affermazione che la norma opera solo quando il vizio sia suscettibile di determinare la demolizione del negozio e dei suoi effetti solutori.
8.4. Secondo questo Collegio, l’espressione “invalidità” deve essere inteso in senso restrittivo, avendo riguardo ai confini della categoria di tale vizio propriamente inteso, in relazione alla rilevata incapacità di un atto privato contrario ad una norma di produrre effetti conformi alla sua funzione economico sociale. La nozione generalmente accolta di invalidità presuppone, pertanto, un atto inidoneo ad acquisire pieno ed inattaccabile valore giuridico.
8.5. L’estensione della disciplina della decadenza al di là dei casi di invalidità comporterebbe del resto un’inammissibile applicazione analogica di una norma eccezionale, che, in quanto contemplante decadenze, deve essere interpretata nell’ambito della stretta previsione normativa e non al di là dei casi considerati, diversamente privandosi la previsione specifica della invalidità di ogni portata precettiva. In altri termini, stante il principio di stretta interpretazione delle norme in materia di decadenza, non è possibile pervenire ad un ampliamento della portata “oggettiva” della norma in esame tale da includervi ogni ipotesi di “patologia” del licenziamento, neanche considerando la specialità della materia relativa all’impugnazione dei licenziamenti rispetto ai principi di diritto comune.
8.6. Dunque, nel concetto di invalidità non può ricondursi l’ipotesi della “ingiustificatezza” di fonte convenzionale, cui consegue la tutela meramente risarcitoria dell’indennità supplementare. Quest’ultima si collega ad un atto incontestatamente e pacificamente valido, che incide in termini solutori sul rapporto di lavoro.
8.7. A ciò consegue che l’ambito di applicabilità oggettiva dell’art. 32, secondo comma, legge n. 183 del 2010 non può che riferirsi alle ipotesi di stretta invalidità (rectius, nullità) menzionate dall’art. 18, comma 1, St. Lav. come modificato, essendo tale opzione interpretativa maggiormente coerente con la descritta evoluzione normativa e con i canoni interpretativi previsti dall’art. 12 Preleggi.
9. A ciò aggiungasi che la nozione di “ingiustificatezza”, quale elaborata dalla giurisprudenza di questa Corte è rimasta, a tutt’oggi, invariata.
9.1. Trattandosi di nozione contrattuale, il suo contenuto deve essere enucleato attraverso l’accertamento, con indagine interpretativa della clausola collettiva, con riguardo ai motivi che possono dare luogo alla giustificatezza del licenziamento del dirigente (cfr., tra e altre, Cass. 19.6.1999 n. 6169, Cass. 5.10.2002 n. 14310, 1.6.2005 n. 11691, da ultimo, Cass. 22.2.2019 n. 5372 (par. 6 delle considerazioni in diritto).
10. In senso rafforzativo dell’interpretazione qui accolta deve considerarsi la giurisprudenza che afferma l’autonomia delle due azioni, l’una avente ad oggetto la reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 St. Lav. in caso di nullità e l’altra diretta ad ottenere l’indennità supplementare, occorrendo, caso per caso, valutare la prospettazione della domanda giudiziale. E’ stato statuito da questa Corte che “In materia di rapporto di lavoro del dirigente, poiché ai fini della giustificatezza del licenziamento rileva qualsiasi motivo che escluda l’arbitrarietà del licenziamento, la domanda avente ad oggetto l’accertamento della illegittimità del recesso per non giustificatezza del licenziamento con condanna del datore di lavoro alla corresponsione dell’indennità supplementare è diversa da quella avente ad oggetto l’accertamento della illegittimità del licenziamento comminato in tronco per giusta causa e la condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso; pertanto, accolta quest’ultima per insussistenza della giusta causa, il relativo giudicato non preclude la proposizione della prima (cfr. Cass. 20.11.2000 n. 14974). Il vincolo di pregiudizialità logica tra le due domande proposte separatamente è stato ritenuto non idoneo ad annullare le intrinseche differenze delle stesse nei profili della causa petendi e del petitum.
11. Quanto alle ricadute processuali, in caso di proposizione di entrambe le azioni, e, pure in caso di comunanza del vizio, ossia della situazione che – secondo la prospettazione – determinerebbe la nullità o, in subordine, l’ingiustificatezza, diverse sarebbero le due azioni e diverso il regime di impugnazione.
12. Applicando i suddetti principi al caso in esame, va rilevato che nessun cenno viene fatto nella sentenza impugnata ad una ipotesi di proposizione, nell’atto introduttivo del giudizio, di un’azione diversa ed ulteriore rispetto a quella volta a fare accertare l’ingiustificatezza del licenziamento per il riconoscimento della indennità supplementare. Di tale ulteriore domanda, la cui sussistenza è comunque contestata da parte del controricorrente, non vi è riscontro nel presente giudizio. Neppure i brevi passaggi dell’atto introduttivo trascritti nel ricorso per cassazione rivelano la proposizione (anche) di una domanda volta a fare dichiarare la nullità del recesso ai fini di un ordine di reintegra. E’ poi dirimente osservare che l’unica domanda accolta dal giudice di merito è quella intesa al riconoscimento dell’indennità supplementare, ossia una domanda che, per tutte le ragioni sopra illustrate, non era assoggettata al termine di decadenza di cui all’art. 32 più volte citato.
13. Il secondo motivo è inammissibile. Non si comprende quale sarebbe il vizio radicale che inficia la sentenza, la quale ha chiaramente distinto l’ipotesi della nullità, che rende l’impugnativa assoggettabile al termine di decadenza, da quella della ingiustificatezza che, a differenza della prima, non rientra nell’ipotesi di invalidità. Nessun vizio di contraddittorietà è ravvisabile nell’iter logico della sentenza.
14. Il terzo motivo è infondato.
14.1. Secondo costante giurisprudenza di questa Corte, nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo è rimessa alla valutazione del datore di lavoro la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost.. Tuttavia, spetta al giudice il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore, per cui, se non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore licenziato, deve pur sempre risultare in giudizio l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato.
Ne consegue che, ove il giudice accerti in concreto l’inesistenza della ragione organizzativa o produttiva, il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità o per pretestuosità della causale addotta.
14.2. Nel caso in esame, la Corte di appello ha ritenuto, alla stregua degli elementi probatori ritenuti di maggiore attendibilità ed in particolare degli organigrammi aziendali, che la prospettata revisione organizzativa della funzione Program Management, la cui posizione apicale era occupata dal S. e che sarebbe stata in esubero, non aveva trovato riscontro in giudizio.
14.3. Il motivo di ricorso tende ad una rivalutazione delle risultanze istruttorie, inammissibile in questa sede, dovendosi ribadire che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (v. tra le tante, Cass. n. 27197 del 2011 e n. 24679 del 2013).
14.4. Nel caso in esame, la sentenza impugnata ha dato conto delle ragioni poste a base del decisum; la motivazione non è assente o meramente apparente, né gli argomenti addotti a giustificazione dell’apprezzamento fattuale appaiono manifestamente illogici o contraddittori. Nel contestare la soluzione cui è pervenuto il giudice di appello, parte ricorrente denuncia un’errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini di una alternativa ricostruzione dei fatti, con l’inammissibile intento di sollecitare una valutazione delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal giudice del merito.
15. Va pure ribadito che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., come riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, è invocabile nella sola ipotesi in cui sia stato omesso l’esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Cass. S.U. n. 8053/2014).
16. In conclusione, il ricorso va rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
17. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto del ricorso) per il versamento, da parte della società ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13 (v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019).
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in euro 5.000,00 per compensi e in euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13 comma 1 -quater del d.P.R. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 – bis, dello stesso articolo 13.
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