CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 luglio 2019, n. 18282
lllegittimità del trasferimento – Demansionamento – Atteggiamenti vessatori e denigratori – Risarcimento dei danni non patrimoniali e alla salute – Licenziamento – Danno alla professionalità e all’immagine
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Brescia, con sentenza n. 225 del 2017, pronunciando sulle opposte impugnazioni, in parziale riforma della sentenza di primo grado, così statuiva in ordine alle domande proposte da C.P. nei confronti del Banco P. soc. coop.:
A) confermava i capi della sentenza di primo grado concernenti: l’illegittimità del trasferimento del C. dalla filiale di Pralboino all’Agenzia 3 di Cremona, con riconoscimento del risarcimento del danno subito per tale illegittimo trasferimento; l’annullamento delle sanzioni disciplinari del 10 gennaio 2005 (giorni 4 di sospensione dal servizio), del 25 gennaio 2006 (giorni 5 di sospensione dal servizio), del 16 marzo 2006 (giorni 2 di sospensione dal lavoro); l’accertamento del demansionamento subito dal ricorrente presso l’Agenzia di Cremona dal settembre al novembre 2004 e presso la filiale di Pralboino tra dicembre 2004 e giugno 2006, nonché, quanto al trasferimento presso la filiale di Pralboino, la sussistenza di atteggiamenti vessatori e denigratori tenuti nei confronti del ricorrente dal direttore della filiale; l’illegittimità del licenziamento intimato dalla Banca P. di Cremona s.p.a., cui era succeduto il Banco P. soc. coop., con ordine di reintegra del ricorrente nel posto di lavoro; il riconoscimento del risarcimento dei danni non patrimoniali e alla salute indotti dal comportamento datoriale, nonché il risarcimento dei danni alla professionalità e all’immagine; il rigetto della domanda avente ad oggetto la presunta decurtazione del premio aziendale 2005;
B) riformava i capi della sentenza di primo grado con cui erano state accolte le domande concernenti: il demansionamento presso la filiale di Monticelli dal luglio 2006 al licenziamento del gennaio 2007; l’accertamento della illegittimità del trasferimento dalla filiale di Pralboino alla filiale di Monticelli D’Ongina;
c) riduceva: il risarcimento del danno alla professionalità e all’immagine da euro 80.000 ad euro 40.000; il risarcimento del danno da licenziamento illegittimo ex art. 18 stat. lav., che il primo giudice aveva liquidato in una somma pari a tutte le retribuzioni globali di fatto (euro 4.274,97 lordi mensili) dal giorno del licenziamento (15.1.2007) fino alla pronuncia della sentenza di reintegrazione (novembre 2014), ossia per la durata di circa otto anni, e che veniva riconosciuto in misura pari alle retribuzioni globali di fatto maturate nei quattro anni successivi al licenziamento, oltre accessori e contributi previdenziali ed assistenziali.
2. Per quanto ancora qui rileva, la Corte di appello osservava, in ordine alla riduzione della somma liquidata a titolo di risarcimento per l’illegittimità del licenziamento (15 gennaio 2007), che il ricorrente si era iscritto in data 19 gennaio 2007 nelle liste di disoccupazione e in data 20 aprile 2009 nelle liste di collocamento provinciali per le categorie protette, essendo stato riconosciuto invalido civile, con riduzione della capacità lavorativa in misura dell’80%. Dovendosi stimare in circa due anni il tempo medio necessario ad un invalido civile iscritto nelle apposite liste per essere avviato al lavoro e in mancanza di dati ulteriori quanto alle eventuali offerte di avviamento, il danno prevedibile è quello determinabile nei quattro anni successivi alla risoluzione del rapporto di lavoro con il Banco P..
2.1. Quanto alla censura secondo cui il giudice di primo grado, determinando l’importo della retribuzione globale di fatto (nella somma lorda mensile di euro 4.274,97) avrebbe violato il principio della domanda per avere il C. avanzato unicamente una domanda di condanna generica al risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, la Corte territoriale escludeva che nel ricorso introduttivo il lavoratore avesse limitato in tal senso la domanda originaria o avesse fatto riserva di agire separatamente per la determinazione delle componenti della retribuzione globale di fatto da assumere a base del calcolo: egli aveva svolto una ordinaria domanda di condanna di risarcimento del danno subito per effetto del licenziamento impugnato, utilizzando la stessa formulazione legale di cui al quarto comma dell’art. 18 legge n. 300 del 1970 (nel testo applicabile alla fattispecie ratione temporis). Si trattava cioè della condanna al pagamento di somme non quantificate, ma determinabili, con indicazione del criterio di quantificazione (retribuzione globale di fatto per il numero di mensilità).
3. Per la cassazione parziale di tale sentenza ha proposto ricorso il C. sulla base di cinque motivi. Il Banco P. soc. coop. ha resistito con controricorso.
3.1. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 18 Stat. lav. in relazione all’art. 1227 cod. civ., poiché la sentenza aveva limitato l’indennità risarcitoria da licenziamento illegittimo ai quattro anni successivi al licenziamento.
Deduce che l’attivazione da parte del lavoratore licenziato è quanto si esige per ritenere la sua diligenza ex art. 1227, secondo comma, cod. civ. e che la durata oltre la media del processo, cui pure la sentenza di appello aveva fatto riferimento, costituisce anch’essa un elemento di non imputabilità al lavoratore.
Il ricorrente richiama l’orientamento interpretativo secondo cui, in tema di risarcimento del danno a seguito di licenziamento illegittimo, in riferimento alla limitazione dello stesso, ex art. 1227 cod. civ., in relazione alle conseguenze dannose discendenti dal tempo impiegato per la tutela giurisdizionale da parte del lavoratore, le stesse non sono imputabili al lavoratore tutte le volte che – sia che si tratti di inerzia endoprocessuale che di inerzia preprocessuale – le norme attribuiscano poteri paritetici al datore di lavoro per la tutela dei propri diritti e per la riduzione del danno (Cass. n. 5862 del 2010 e n. 9898 del 2005), per cui va esclusa l’applicazione dell’art. 1227, secondo comma, cod. civ. in relazione alle conseguenze dannose discendenti dal tempo impiegato per la tutela giurisdizionale da parte del lavoratore – maggiore del previsto – dovendosi escludere che la durata del processo possa risolversi in un pregiudizio per la parte vittoriosa (Cass. n. 4865 del 2016).
2. Con il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. in relazione alla determinazione della retribuzione globale di fatto da assumere quale base di calcolo per l’indennità risarcitoria di cui al quarto comma dell’art. 18 stat. lav. Assume il ricorrente che la domanda introduttiva non conteneva alcuna specificazione quanto all’ammontare rivendicato a base di tale commisurazione.
Il ricorrente, che non contesta di non avere formulato alcuna riserva di agire separatamente per la determinazione del quantum, sostiene tuttavia che la domanda, diretta ad ottenere la condanna della datrice di lavoro “…al pagamento della retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento alla data della effettiva reintegrazione…”, sarebbe da considerare in ogni caso una domanda di condanna generica, a fronte della quale restava precluso al giudice di merito acquisire in giudizio, come invece avvenuto, gli elementi documentali (busta paga di gennaio 2007) occorrenti per la liquidazione dell’indennità.
3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 2103 cod. civ. in relazione all’art. 23 CCNL e dell’art. 4 del contratto integrativo aziendale.
Sostiene l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto legittimo il trasferimento del lavoratore a Monticelli D’Ongina per asserita incompatibilità ambientale, ove non sia provato che al lavoratore vengano garantite nella sede destinazione mansioni equivalenti al proprio inquadramento contrattuale.
4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 1223 cod. civ. in relazione alla decorrenza degli interessi sulle somme liquidate a titolo di risarcimento del danno patrimoniale. Assume che sono dovuti gli interessi legali anche sulle somme liquidate a titolo risarcitorio quali obbligazioni di valore.
5. Con il quinto motivo denuncia violazione degli artt. 2103 e 2087 cod.civ. in relazione alla risarcibilità del danno patrimoniale da demansionamento illegittimo. Sostiene che erroneamente la Corte territoriale, nel ridurre da euro 80.000,00 a euro 40.0, 00 il risarcimento del danno alla professionalità, aveva ritenuto insussistente il danno patrimoniale, ravvisando solo un danno non patrimoniale e all’immagine.
6. Il ricorso, in tutte le sue articolazioni, è privo di fondamento.
7. Quanto al primo motivo, la censura verte sulla presunta violazione dell’art. 1227 cod. civ., mentre la Corte di appello ha fatto applicazione del principio della prevedibilità del danno ai sensi degli artt. 1228 e 1225 cod. civ. e tale ratio decidendi non è stata specificamente censurata, restando così il motivo avulso dalle ragioni su cui la sentenza si fonda.
7.1. In tema di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, l’imprevedibilità, alla quale fa riferimento l’art. 1225 cod. civ., costituisce un limite non all’esistenza del danno, ma alla misura del suo ammontare, che resta limitato a quello astrattamente prevedibile in relazione ad una determinata categoria di rapporti, sulla scorta delle regole ordinarie di comportamento dei soggetti economici e, quindi, secondo un criterio di normalità in presenza delle circostanze di fatto conosciute (Cass. n. 17460 del 2014; v. pure Cass. n. 16763 del 2011). Considerato che l’illegittimo licenziamento è fonte di responsabilità contrattuale e non extracontrattuale (cfr. Cass. n. 8720 del 2004 e Cass. n. 17460 del 2014, cit.), deve aversi riguardo alla prevedibilità dei danni conseguenti all’illegittimità del recesso, costituendo quello della prevedibilità un parametro di legge, in quanto tale oggetto di valutazione da parte del giudice del merito.
7.2. Nello specifico, la motivazione del giudice del gravame è corretta in relazione alla valutazione delle conseguenze dell’inadempimento datoriale, in quanto coerente con i principi di diritto in tema di responsabilità contrattuale, che sicuramente genera una presunzione di imputabilità al debitore, ma non ne determina una responsabilità per danni al di là di quelli prevedibili dal punto di vista della sussistenza di un nesso causale secondo un criterio di ragionevole derivazione dal comportamento inadempiente. Come già precisato, non si tratta di riduzione della misura risarcitola di legge, ma di determinazione delle conseguenze pregiudizievoli connesse all’illegittimità del licenziamento, sicuramente sussistenti in relazione al perdurante stato di disoccupazione, ma in misura, ritenuta dalla Corte del merito, in modo corretto e conforme ai principi richiamati, congruamente determinata nei limiti di un quadriennio successivo alla risoluzione del rapporto di lavoro.
7.3. La prevedibilità di cui all’art. 1225 cod. civ. costituisce uno dei criteri di determinazione dell’ambito del danno risarcibile, consistente in un giudizio di probabilità del verificarsi di un futuro danno espresso in astratto, secondo l’apprezzamento della normale diligenza del soggetto responsabile, che deve tenere peraltro conto di circostanze di fatto concretamente conosciute, attenendo la stessa non già al giudizio di responsabilità, bensì al danno considerato nel suo concreto ammontare, nonché identificandosi con il criterio della regolarità causale, che attribuisce significato giuridico alle conseguenze che possono verificarsi quando lo svolgimento causale ha andamento regolare (v. in tal senso la già citata Cass. n. 17460 del 2014; cfr., tra le altre, Cass. 28.11.2003 n. 18239).
7.4. Il motivo di ricorso non contiene alcuna censura avverso tale ratio decidendi e neppure in ordine al ragionamento presuntivo posto a base della valutazione di prevedibilità del danno. Va pure aggiunto che in tema di responsabilità contrattuale, l’accertamento tanto del nesso di causalità tra l’inadempimento e il danno, quanto della prevedibilità del danno medesimo costituisce un apprezzamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità, ove sorretto da motivazione adeguata e immune da errori (Cass. n. 20961 del 2017).
8. Quanto al secondo motivo, con cui si denuncia il vizio di ultrapetizione ex art. 112 cod. proc. civ., va osservato quanto segue.
8.1. Risulta dalla sentenza impugnata che la censura svolta in appello dal C. verteva sul fatto che il giudice di primo grado “avrebbe violato il principio della domanda, in quanto egli avrebbe chiesto unicamente una condanna generica, riservandosi di agire separatamente per la quantificazione della retribuzione”. A fronte di tale censura, la Corte territoriale ha escluso che siffatta riserva fosse stata formulata nel ricorso introduttivo. Questo Giudice di legittimità, esercitando i poteri di indagine che gli competono nel caso in cui sia denunciato un error in procedendo, dall’esame diretto degli atti processuali, ha potuto verificare che siffatta riserva di agire separatamente non era stata in alcun modo formulata dal ricorrente.
8.2. Per il resto, la sentenza ha correttamente statuito rigettando il motivo di appello, poiché con la domanda formulata nei termini sopra riferiti non viene richiesto alcun ulteriore accertamento aggiuntivo relativamente al quantum del risarcimento, secondo le coordinate di legge, che come tale implichi la necessità di un separato giudizio per la determinazione della misura del risarcimento. La domanda di condanna generica al risarcimento dei danni mediante il pagamento di una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, costituisce un’istanza meramente riproduttiva del contenuto della L. 20 maggio 1970, n.300, art. 18, comma 4, come modificato dalla L. 11 maggio 1990, n. 108, art. 1 e conseguenziale alle richieste principali di dichiarazione di inefficacia del licenziamento, che non comporta alcun accertamento aggiuntivo sul quantum del risarcimento (cfr. Cass. n. 4547 del 2009 e n. 19308 del 2016).
9. Sempre con il secondo motivo, il ricorrente sostiene che la sentenza, confermando sul punto la statuizione del primo giudice, gli aveva arrecato un grave danno in quanto non aveva incluso i premi aziendali, indistintamente corrisposti ai dipendenti rimasti in servizio, gli aumenti tabellari e di anzianità.
9.1. In parte qua, il motivo è inammissibile, in quanto difetta di specificità rispetto al decisum. Il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione (Cass. n. 17125 del 2007, n. 4036 del 2011). Al contrario, la proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al decisum della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366, primo comma n. 4 cod. proc. civ., con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio (Cass. n. 20910 del 2017).
9.2. La Corte di appello ha evidenziato che, una parte delle voci atteneva a trattamenti accessori non percepiti al momento del licenziamento e che pertanto non potevano entrare a far parte della retribuzione globale di fatto e che altre voci erano state rivendicate per la prima volta in appello e dunque costituivano pretese inammissibili. Ha precisato poi che alcune voci (descritte analiticamente) non avevano carattere retributivo, mentre altre erano già state incluse nel parametro (così i rinnovi del CCNL, gli scatti di anzianità e gli importi di ristrutturazione tabellare, l’elemento ex premio di rendimento), oppure erano voci che dipendevano dall’effettiva presenza in servizio o presupponevano il raggiungimento di determinati obiettivi.
A fronte di tale puntuale motivazione, il ricorso si limita a reiterare la tesi difensiva di vedere incluse le voci non riconosciute dalla sentenza impugnata, senza altro aggiungere, in evidente difetto di specificità e dunque in violazione degli oneri di cui all’art. 366, primo comma, n. 4 cod. proc. civ..
10. Quanto al terzo motivo, che attiene al capo della sentenza relativo alla legittimità del trasferimento del ricorrente dalla filiale di Pralboino alla filiale di Monticelli D’Ongina, va premesso che la sentenza ha ampiamente illustrato (v. pagg. da 49 a 52) i motivi per i quali ha ritenuto dimostrato che detto trasferimento fosse derivato da obiettive esigenze organizzative. Il ricorrente lamenta che non gli erano state garantite nella sede di destinazione mansioni equivalenti al proprio inquadramento contrattuale.
10.1. Tale assunto, da un lato appare questione nuova, non essendo stata oggetto di specifica trattazione nella parte della sentenza destinata all’esame del relativo motivo di censura e non avendo il ricorrente chiarito se e in quali termini e atti processuali la questione era stata introdotta in giudizio. In ogni caso, poi, esso involge un riesame dei fatti di causa, del tutto inammissibile in questa sede di legittimità.
10.2. Invero, il motivo, pur denunciando un’erronea ricognizione della fattispecie legale (art. 2103 cod. civ.), in realtà allude ad una erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta, previa ricostruzione dei fatti secondo un diverso apprezzamento di merito e non secondo la ricostruzione fattuale posta a base della sentenza impugnata.
Il vizio di falsa applicazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. n. 7394 del 2010, n. 8315 del 2013, n. 26110 del 2015, n. 195 del 2016). E’ dunque inammissibile una doglianza che fondi il presunto errore di sussunzione – e dunque un errore interpretativo di diritto – su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa.
11. La censura di cui al quarto motivo di ricorso attiene alla liquidazione equitativa che il giudice di primo grado aveva riconosciuto a titolo di maggiori costi di trasporto sostenuti per la durata del trasferimento durante i 44 mesi di efficacia del trasferimento del ricorrente a Cremona. Il giudice aveva riconosciuto interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data della sentenza. La statuizione è stata confermata dalla Corte di appello, poiché la liquidazione era stata attualizzata al momento della pronuncia.
11.1. Il motivo di ricorso non contesta che la liquidazione fosse stata effettuata in via equitativa e all’attualità e dunque che includesse anche gli accessori maturati alla data della sentenza. Non è comprensibile la censura svolta riguardo a tale statuizione, che si limita a reiterare la domanda intesa ad ottenere una diversa liquidazione del danno, senza chiarire l’errore in cui sarebbe incorso il giudice di merito.
12. Anche il quinto motivo è inammissibile. Innanzitutto, come risulta dalla sentenza impugnata (pagg. da 68 a 71), il parziale accoglimento della censura svolta dalla Banca è consistita nella riqualificazione del danno quale danno non professionale, ma la riduzione del quantum è ascrivibile invece alla esclusione della duplicazione del risarcimento per il periodo già coperto dall’indennità risarcitoria da licenziamento illegittimo. Infatti, come risulta dalla motivazione della sentenza il primo giudice aveva ritenuto sussistente il danno anche per il periodo successivo al licenziamento. In relazione a tale periodo la Corte, facendo applicazione del principio espresso da Cass. n. 19831 del 2010, ha ritenuto che il lavoratore non avesse fornito la prova di avere subito danni diversi ed ulteriori rispetto a quelli già indennizzati attraverso la corresponsione dell’indennità risarcitoria ex art. 18 stat. lav. ed ha proceduto alla riduzione equitativa del quantum.
12.1. Il motivo di ricorso, invero, non si confronta con tale soluzione, ma muove dall’erroneo presupposto che la riduzione sia dovuta alla componente relativa demansionamento nel periodo anteriore al licenziamento.
13. In conclusione, il ricorso va rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
14. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002. Il raddoppio del contributo unificato, introdotto dall’art. 1, comma 17, della I. n. 228 del 2012, costituisce una obbligazione di importo predeterminato che sorge ex lege per effetto del rigetto dell’impugnazione, della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità della stessa.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
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