CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 luglio 2021, n. 32387
Reati tributari – Omessa presentazione dichiarazione dei redditi – Evasione – Soglia di punibilità – Determinazione – Condanna legale rappresentante – Confisca per equivalente
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 18 febbraio 2020, la Corte d’appello di Genova ha confermato la sentenza del Tribunale di Savona con la quale V. F. era stato condannato, all’esito del giudizio abbreviato, alla pena di anni uno di reclusione, in relazione al reato di cui all’art. 5 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 per avere, quale legale rappresentante della V. V. srl, omesso di presentare la dichiarazione dei redditi ai fini delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, con evasione di imposta Ires non inferiore a € 60.756,00 nel 2011, a € 184.068,00 nel 2012, e con evasione iva non inferiore a € 108.011,00 nel 2012 e con evasione Ires non inferiore a € 93.342.00,00 nel 2013. Con la medesima sentenza era stata disposta, ai sensi dell’art. 12 – bis d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, la confisca per equivalente per € 445.894,16.
2. Avverso la sentenza di condanna ha presentato ricorso l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, e ne ha chiesto l’annullamento deducendo i seguenti motivi di ricorso.
– Violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod.proc.pen. in relazione all’erronea applicazione della legge penale segnatamente l’art. 5 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, art. 75 TUIR, artt. 39 e 41 del d.P.R. 600 del 1973.
La corte territoriale avrebbe ritenuto dimostrata la prova dell’ammontare dell’imposta evasa sulla scorta del p.v.c. redatto nei confronti della società V. V. srl e così avrebbero imputato a titolo di imposte l’intero ammontare delle somme confluite sui conti correnti della società che costituivano i proventi delle vendite di immobili e l’attività di costruzione degli stessi, senza considerare i costi sostenuti con conseguente indimostrato superamento della soglia di punibilità.
– Violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod.proc.pen. in relazione all’erronea applicazione della legge penale segnatamente l’art. 12 bis d.lgs 10 marzo 2000, n. 74.
La corte territoriale avrebbe confermato la disposta confisca per equivalente senza che via sia la dimostrazione dell’impossibilità di una confisca diretta del profitto del reato, non essendo stato disposto alcun accertamento sulle altre proprietà della società essendo stato accertato che la vendita dei beni immobili è stata effettuata dopo il sequestro preventivo a cui erano stati sottoposti a sequestro preventivo. Il giudice del merito avrebbe ritenuto erroneamente che gli immobili sottoposti a sequestro non potessero essere confiscati in quanto vi era stata la trascrizione del sequestro preventivo. Anche l’ammontare del profitto sarebbe errato in quanto comprendente anche i costi sostenuti dalla società (vedi motivo precedente).
Considerato in diritto
3. Il primo motivo di ricorso è inammissibile per la proposizione di censure meramente ripetitive di quelle già devolute al giudice dell’impugnazione e da quel giudice disattese con motivazione congrua, il che costituisce causa di inammissibilità. In ogni caso, sono anche manifestamente infondate. Deve, in primo luogo, rammentarsi il principio secondo il quale quando le sentenze di primo e secondo grado concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo, sicché è possibile, sulla base della motivazione della sentenza di primo grado colmare eventuali lacune della sentenza di appello (Sez. 4, n. 15227 del 14/02/2008, Rv. 239735).
Quanto al primo motivi di ricorso, la corte territoriale, in continuità con il giudice di primo grado, ha rilevato che, con riferimento all’anno di imposta 2011, unico anno in contestazione per il quale erano stati rilevati costi sostenuti dalla società, il p.v.c. li aveva considerati ai fini della determinazione delle imposte evase, mentre per gli anni 2012 e 2013 non era risultato che la società avesse sopportato costi, né la parte li aveva allegati.
La circostanza che la società fosse inattiva dal 2011 dimostrava, sempre secondo i giudici del merito, che i versamenti sui conti correnti bancari sulla base dei quali era stato calcolato il reddito si riferivano a vendita di immobili che, essendo stati acquistati o costruiti primi, non avevano generato costi per la produzione del reddito negli anni 2012-2013, confermando così l’ammontare dei redditi sulla base dei quali è stata calcolata l’imposta evasa (Ires e Iva).
La corte territoriale si è attenuta al dictum della giurisprudenza di legittimità secondo cui in tema di reati tributari, il giudice, per determinare l’ammontare dell’imposta evasa, deve effettuare una verifica che, pur non potendo prescindere dalle specifiche regole stabilite dalla legislazione fiscale per quantificare l’imponibile, risente delle limitazioni derivanti dalla diversa finalità dell’accertamento penale, con la conseguenza che occorre tenere conto dei costi non contabilizzati solo in presenza, quanto meno, di allegazioni fattuali, da cui desumere la certezza o, comunque, il ragionevole dubbio della loro esistenza (Sez. 3, n. 8700 del 16/01/2019, Holz, Rv. 275856 – 01; Sez. 5, n. 40412 del 13/06/2019, Tirozzi, Rv. 277120 – 01).
4. Il secondo motivo di ricorso non è fondato in forza delle seguenti ragioni.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può, infatti, essere disposto nei confronti del legale rappresentate di una società quando, all’esito di una valutazione allo stato degli atti sullo stato patrimoniale della persona giuridica, risulti impossibile il sequestro diretto del profitto del reato nel patrimonio dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato, non essendo necessaria, ai fini dell’accertamento di tale impossibilità, l’inutile escussione del patrimonio sociale se già vi sono elementi sintomatici dell’inesistenza di beni in capo all’ente (v. Sez. 3, n. 3591 del 20/09/2018, Bennati, Rv. 275687; Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, P.G/Papini, Rv. 274816 – 06; Sez. 4, n. 10418 del 24/01/2018, Rubino, Rv. 272238 – 01).
Superando un risalente orientamento, citato nella sentenza impugnata, secondo cui è legittimo il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente dei beni dell’imputato sul presupposto dell’impossibilità di reperire il profitto del reato nel caso in cui dallo stesso soggetto non sia stata fornita la prova della concreta esistenza di beni nella disponibilità della persona giuridica su cui disporre la confisca diretta (Sez. 3, n. 42966 del 10/06/2015, Klein, Rv. 265158 – 01), la giurisprudenza di legittimità, ormai consolidata, ritiene sufficiente che il giudice dia conto del fatto che all’esito di una indagine allo stato dei fatti non sia possibile la confisca diretta del profitto del reato.
Quanto al caso in esame, risulta dalla sentenza di primo grado che i sei immobili sottoposti a sequestro preventivo erano stati venduti nell’ambito di procedura esecutiva immobiliare e per uno di questi il Ministero aveva esercitato il diritto di prelazione ai sensi del d.lgs n. 42 del 2004 (cfr. pag. 2 sentenza del Tribunale). Era, dunque, positivamente dimostrata l’assenza di beni della società e dunque del profitto diretto del reato e del tutto correttamente, i giudici del merito, hanno disposto la confisca per equivalente nei confronti dell’imputato.
5. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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