CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 maggio 2019, n. 12117
Dichiarazioni dei redditi – Tributi – Accertamento – Redditometro – Riscossione – Processo tributario
Fatti di causa
M. T. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 113/13/2012, depositata il 26.11.2012 dalla Commissione Tributaria Regionale della Toscana, con la quale erano accolte le questioni processuali sollevate dalla contribuente nei confronti della pronuncia di primo grado, ma nel merito rigettato il ricorso avverso gli avvisi di accertamento relativi agli anni d’imposta 2003, 2004 e 2005, con i quali l’Agenzia delle Entrate aveva riconosciuto redditi mai dichiarati dalla M. con ricostruzione sintetica fondata sul cd. redditometro.
Ha riferito che a seguito di verifiche ex art. 38 co. 4 del d.P.R. n. 600 del 1973 erano recuperati a tassazione redditi dell’importo di € 338.424,80 per il 2003, di € 313.600,00 per il 2004, di € 313.600 per il 2005 sulla base di due indici di capacità contributiva, l’acquisto di un immobile in San Casciano Val di Pesa, avvenuto nel 2006 verso il corrispettivo di € 1.550.000,00, oltre compensi corrisposti all’agenzia immobiliare per l’attività di mediazione, e la assunzione a servizio nell’anno 2003 di una collaboratrice domestica. La ricorrente non aveva presentato dichiarazioni dei redditi per i suddetti anni.
Contestando le pretese dell’Amministrazione, la ricorrente aveva adito la Commissione Tributaria Provinciale di Firenze, che con sentenza n. 15/19/2011 aveva dichiarato l’inammissibilità del ricorso per mancata nomina di nuovo difensore a seguito della rinuncia al mandato del precedente. La Commissione Tributaria Regionale della Toscana, con la sentenza ora al vaglio della Corte, aveva accolto le ragioni processuali ma rigettato quelle di merito dell’appellante.
La contribuente censura con due motivi la sentenza:
con il primo per nullità della pronuncia per omessa rimessione della causa al giudice di primo grado (in relazione all’art. 360 co. 1 n. 4 c.p.c.), con pregiudizio del principio del doppio grado di giurisdizione; ha invocato, qualora ritenuta legittima la decisione ai sensi dell’art. 59 del d.lgs. n. 546 del 1992, l’incostituzionalità della medesima norma e la rimessione della questione al giudice costituzionale;
con il secondo per violazione e falsa applicazione dell’art. 38 del d.P.R. n. 600 del 1973, per l’erronea valutazione espressa dal giudice d’appello in ordine alla capacità contributiva della ricorrente.
Ha chiesto dunque, nell’ordine, la declaratoria di nullità della sentenza, la rimessione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 59 cit. alla Corte Costituzionale, nel merito l’accertamento della falsa applicazione dell’art. 38 cit.
Si è costituita l’Agenzia, che ha contestato le avverse ragioni, chiedendo il rigetto del ricorso.
Alla pubblica udienza del 15 marzo 2019, dopo la discussione, il P.G. e le parti hanno concluso. La causa è stata trattenuta in decisione.
Ragioni della decisione
Il primo motivo, con il quale la ricorrente si duole della mancata rimessione del giudizio alla Commissione Tributaria Provinciale, nonostante il giudice regionale avesse accolto il motivo d’appello relativo all’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso in primo grado -per rinuncia al mandato del difensore ritualmente costituito e la mancata nomina di nuovo difensore da parte della ricorrente-, è infondato.
L’art. 59 del d.lgs. n. 546 del 1992 individua tassativamente le fattispecie di rimessione del processo alla commissione provinciale nelle lettere a), b), c), d) ed e) del co. 1 della norma, disponendo poi nel co. 2 che <<al di fuori dei casi previsti nel comma precedente la commissione tributaria regionale decide nel merito, previamente ordinando, ove occorra, la rinnovazione di atti nulli compiuti nel primo grado>>. Posto che nel caso di specie nessun atto doveva essere rinnovato, era compito del giudice d’appello decidere la causa nel merito.
Non ha pregio poi invocare la illegittimità costituzionale della norma, perché lesiva della garanzia della tutela giurisdizionale imposta dall’art. 24 Cost. Nel sistema processuale il doppio grado di giurisdizione di merito non è costituzionalmente sancito (cfr. Sez. U., sent. n. 22610/2014), e la limitazione dei casi in cui sia prevista la rimessione del processo al giudice di primo grado è d’altronde già presente nell’art. 354 c.p.c.
Parte ricorrente si duole delle limitazioni istruttorie previste nel processo tributario in sede d’appello, per una supposta carenza di poteri suppletivi istruttori della Commissione tributaria regionale. Trattasi di doglianza per un verso incomprensibile, alla luce del tipo di processo apprestato in materia tributaria e dei poteri istruttori riconosciuti dall’art. 7 indistintamente nei due gradi di merito. Quanto poi alla denunciata limitazione di accesso in secondo grado a poteri istruttori suppletivi, è qui sufficiente evidenziare che la doglianza, neppure del tutto chiara perché non spiega quali sarebbero state le ulteriori attività istruttorie necessarie a decidere la presente causa, si infrange comunque nei poteri riconosciuti dall’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992.
Infondato infine è il secondo motivo di ricorso (identificato con il nr. 3).
La contribuente lamenta la erronea applicazione dell’art. 38 del d.P.R. n. 600 del 1973. A parte che il motivo sfiora l’inammissibilità perché non è ben comprensibile se con esso si lamenti una violazione di legge o un vizio motivazionale, esso è infondato perché la sentenza è esente sia da error in iudicando che da vizi di motivazione. Quanto al primo questa Corte ha già affermato che in tema di accertamento in rettifica delle imposte sui redditi delle persone fisiche, la determinazione effettuata con metodo sintetico, sulla base degli indici previsti dai decreti ministeriali del 10 settembre e 19 novembre 1992, riguardanti il cd. redditometro, dispensa l’Amministrazione da qualunque ulteriore prova rispetto all’esistenza dei fattori-indice della capacità contributiva, sicché è legittimo l’accertamento fondato su di essi, restando a carico del contribuente, posto nella condizione di difendersi dalla contestazione dell’esistenza di quei fattori, l’onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore (cfr. Cass., sent. n. 16912/2016; sent. n. 17793/2017). Nel caso di specie è pacifico che il reddito è stato determinato con metodo sintetico in ragione delle spese sostenute nel 2006 e nel 2003, e ciò a fronte della omessa dichiarazione di qualunque reddito.
Quanto poi alle ragioni esposte dalla ricorrente, a giustificazione dell’importante acquisto immobiliare, il motivo è inammissibile per due ragioni. A fronte della pretesa della M. di giustificare l’acquisto milionario di un immobile con il denaro erogato dal compagno e padre del proprio figlio, le argomentazioni della sentenza evidenziano un esame esaustivo degli elementi a disposizione, ed in particolare della documentazione allegata dalla difesa della contribuente. Il giudice regionale ha ritenuto tale documentazione inidonea, mettendone in discussione leggibilità e provenienza, attesa la assenza di <<elementi in base ai quali sia possibile individuare con certezza il nome e l’indirizzo della banca tenutaria del rapporto, della reale provenienza degli accrediti e dei destinatari degli addebitamenti.>>; ha rilevato che la fotocopia depositata a dimostrazione dei flussi di denaro ricevuti dal compagno sarebbe un fax proveniente dalla “Banca di San Marino” <<senza ulteriori indicazioni>>, peraltro non <<conforme ai moduli bancari utilizzati per gli estratti conto>>, priva della completa denominazione sociale, dell’indicazione della sede legale e del codice fiscale. Ha inoltre rilevato che in ogni caso i flussi di denaro non sarebbero stati sufficienti per l’acquisto, che mancava ogni prova della convivenza tra i due nell’anno 2006.
Trattasi con ogni evidenza di un accertamento in fatto, privo di errori materiali o di salti logici, sicché ogni diversa valutazione pretesa in sede di legittimità sarebbe inibita.
Peraltro, quand’anche si volessero evidenziare gli errori e le contraddizioni delle argomentazioni utilizzate dal giudice regionale, in particolare la circostanza che la ricorrente sarebbe stata condannata penalmente per reati di riciclaggio del denaro provento di illeciti commessi dal compagno, il motivo è parimenti inammissibile perché -a margine la non definitività della sentenza invocata e comunque l’applicazione del principio secondo il quale i proventi illeciti, anche ove derivanti da frodi fiscali, devono essere ricondotti alla categoria dei redditi diversi, sebbene non ricompresi nell’elencazione di cui all’art. 67 del d.P.R. n. 917 del 1986, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 36, co. 34-bis, del d.l. n. 223 del 2006, conv. in I. n. 248 del 2006 (Cass., ord. n. 26440/2018)- non si indica in quale atto processuale e in quale fase del giudizio di merito quella documentazione sarebbe stata allegata e ad essa si sia fatto riferimento. Anche sotto il profilo della violazione della regola dell’autosufficienza il motivo è pertanto inammissibile.
In conclusione il ricorso va rigettato e le spese processuali seguono la soccombenza liquidandosi come da dispositivo. Deve inoltre darsi atto, ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del co. 1-bis dello stesso articolo 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione in favore della Agenzia delle Entrate delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 10.300,00, oltre spese prenotate a debito e raddoppio del contributo unificato.
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