CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 marzo 2018, n. 5513
Procedura di licenziamento collettivo – Rapporto di natura dirigenziale – Esclusione – Normativa antecedente all’intervento legislativo ex art. 16, L. 30 ottobre 2014, n. 161
Fatti di causa
1. Il giudice di primo grado ha respinto la domanda con la quale A.D.B. aveva chiesto accertarsi la illegittimità, per violazione della procedura di legge o per motivo illecito, del licenziamento intimato con lettera del 19 settembre 2009, con le conseguenze di cui all’art. 18 Legge 20/05/1970 n. 300; ha respinto la domanda subordinata di accertamento della ingiustificatezza del licenziamento e di condanna della società datrice al pagamento dell’indennità supplementare oltre che la domanda di condanna al risarcimento del danno biologico, comprensivo del fare areddituale del lavoratore, per lesione della dignità professionale; in accoglimento della domanda avente ad oggetto differenze retributive ha condannato la società a corrispondere le differenze sulla indennità di mancato preavviso, sul tfr e sul bonus manageriale.
2. La Corte di appello di Roma, pronunziando sulle impugnazioni proposte da entrambe le parti avverso la decisione di primo grado, ha respinto l’appello del D.B. ed, in parziale accoglimento dell’appello della società, in parziale a riforma della decisone, ha condannato BNL s.p.a. al pagamento in favore del dirigente della minor somma di € 9.067,84 a titolo di differenza sull’indennità sostitutiva del preavviso (€ 5.538, 49) e di tfr (€ 3.539,35), oltre accessori, e il D.B. alla restituzione della maggior somma percepita in esecuzione della sentenza di primo grado, oltre interessi legali dalla data del pagamento.
2.1. Per quel che ancora rileva, il giudice di appello ha osservato che la procedura di licenziamento collettivo dettata dalla Legge 23/07/1991 n. 223 non trovava applicazione nei confronti dei dirigenti e puntualizzato che, ratione temporis, la fattispecie in esame non era assoggettata alla modifica intervenuta con l’art. 16 Legge 30/10/2014 n. 161 con la quale il Legislatore, in adempimento all’obbligo di conformarsi al diritto comunitario, aveva esteso anche ai dirigenti l’applicazione della procedura relativa ai licenziamenti collettivi prevedendo un regime sanzionatorio ad hoc; ha, quindi, escluso la possibilità di pervenire, sulla base di un’interpretazione conforme alla Direttiva 98/59/CE, all’estensione anche ai dirigenti della disciplina dettata dalla Legge n. 223 /1991, nel testo anteriore alla richiamata modifica legislativa, in ragione del chiaro tenore letterale della previsione risultante dal combinato disposto dell’art. 24 e dell’art. 4 comma 9 legge n. 223 cit. che limitava il collocamento in mobilità agli impiegati, agli operai ed ai quadri eccedenti; ha escluso, inoltre, la possibilità di disapplicazione di tale previsione, per contrasto con la Direttiva medesima, sul rilievo della cd. efficacia orizzontale di quest’ultima.
2.2. Il giudice d’appello ha, quindi, ritenuto che gli elementi acquisiti non consentivano di affermare la natura ritorsiva del recesso datoriale e osservato che la dedotta genericità della motivazione alla base del recesso datoriale non comportava, secondo quanto già chiarito dal giudice di legittimità (Cass. 11/02/2013 n. 3175), che il licenziamento dovesse ritenersi privo di giustificatezza, con conseguente diritto all’indennità supplementare; nel merito il licenziamento del dirigente risultava giustificato dalle allegate esigenze di riorganizzazione e ristrutturazione aziendale, ancora in corso all’epoca del provvedimento datoriale.
3. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso A.D.B. sulla base di due motivi; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso.
3.1. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. .
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 comma primo n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 4 comma 9 L. n. 223/1991 in relazione all’art. 12 Preleggi e all’obbligo di interpretazione conforme del diritto comunitario. Censura, in sintesi, la decisione per avere ritenuto che la disciplina di riferimento non presentasse spazi interpretativi tali da consentire una lettura della legge conforme alla Direttiva 98/59/CE alla stregua della quale la procedura di licenziamento collettivo doveva trovare applicazione nei confronti di tutti i lavoratori e, quindi anche dei dirigenti. In particolare, premesso che la Legge n. 223/1991 individua due ipotesi di licenziamento per riduzione di personale, delle quali la prima riferita ai lavoratori collocati in CIG (art. 4 comma primo) e la seconda (art. 24 comma 1) che prescinde dal preventivo intervento della CIG e che, invece, presuppone solo la intenzione dell’impresa, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, di effettuare almeno cinque licenziamenti nell’arco di centoventi giorni, sostiene che l’art. 4 comma 9, che prevede la facoltà dell’impresa di collocare in mobilità “gli impiegati, gli operai ed i quadri eccedenti” e, quindi, non i dirigenti, si riferisce, come evincibile dal richiamo alla procedura di mobilità, ai soli lavoratori sospesi in CIG, istituto quest’ultimo non applicabile ai lavoratori con qualifica dirigenziale. In questa prospettiva assume la non decisività del rinvio operato dall’art. 24 comma 1 (anche) al comma 9 dell’art. 4 dall’art. 24 Legge 223/1991 ed evidenzia, ad ulteriore conferma della interpretazione sostenuta, che l’art. 24 cit., nel prevedere ( commi 3 e sgg.), con elencazione di carattere tassativo, le ipotesi di esclusione dell’applicazione delle norme in materia di riduzione di personale, non contempla anche il rapporto di natura dirigenziale e che la interpretazione propugnata risulta coerente con il fatto che la Legge n. 223/1991 costituisce attuazione della direttiva comunitaria alla stregua della quale la procedura di licenziamento collettivo è destinata a trovare applicazione anche nei confronti dei dirigenti .
2. Con il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione della Direttiva 98/59/CE del 20.7.1998 in relazione alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea 13/2/2014, C. 596/2012. Censura, in sintesi, l’affermazione del giudice di merito secondo la quale le sentenze della Corte di Giustizia europea, ancorchè sentenze di condanna ai sensi dell’art. 226 Trattato UE, sono vincolanti per il giudice nazionale ma la portata del vincolo sussiste se la pronuncia della Corte si riferisce ad una direttiva idonea a produrre effetti cd. verticali e non orizzontali. Rappresenta, infatti, che la Direttiva in oggetto non concerne solo rapporti tra i soggetti privati (parti del rapporto di lavoro e rappresentanti dei lavoratori) ma coinvolge anche l’autorità pubblica alla quale il datore di lavoro deve trasmettere la comunicazione il cui contenuto è analiticamente descritto dall’art. 2 e che il successivo art. 3 prevede che il datore di lavoro deve notificare per iscritto ogni progetto di licenziamento collettivo all’autorità pubblica la quale ex art. 4 si avvale del termine di 30 giorni previsto per l’efficacia del progetto per cercare soluzioni ai problemi posti dai licenziamenti collettivi prospettati.
3. Il primo motivo di ricorso è infondato.
3.1. Si premette che la Direttiva 98/59/CE, che ha sostanzialmente confermato l’impianto preesistente risultante dalle precedenti direttive in tema di licenziamenti collettivi (Direttiva 75/129/CEE e Direttiva 92/56/CE), nel definire il proprio campo di applicazione non opera alcuna distinzione nell’ambito della categoria di lavoratori subordinati.
3.2. La Corte di Giustizia UE, pronunciandosi a seguito di ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione Europea contro la Repubblica Italiana (sentenza 13 febbraio 2014 c-596/12), ha precisato che la nozione di lavoratore ha una portata comunitaria e deve essere intesa nel senso più ampio possibile, a nulla valendo il rinvio alle legislazioni degli Stati; anche il dirigente è, quindi, un lavoratore, nell’ampio senso inteso dalla fonte comunitaria, trattandosi comunque di un soggetto che presta attività di lavoro dipendente. Ha, quindi, accertato l’inadempimento della Repubblica Italiana agli obblighi derivanti dagli artt. 1 e 2 della Direttiva 98/59/CE, poiché per effetto dell’art. 4 comma 9 Legge n. 223/1991 la categoria dei dirigenti era esclusa dal novero dei lavoratori destinatari della procedura di licenziamento collettivo nei cui confronti devono essere rispettati gli obblighi di consultazione e di informazione.
3.3. Con l’art. 16 Legge 30/10/2014 n. 161 il Legislatore, in adempimento degli obblighi comunitari, ha esteso l’applicabilità della procedura di mobilità anche ai dirigenti e previsto uno specifico regime sanzionatorio per l’ipotesi di licenziamento del dirigente adottato in violazione degli obblighi procedurali o dei criteri di scelta di cui all’art. 5 comma 1, legge cit. . La modifica introdotta non trova applicazione, ratione temporis, alla fattispecie in esame che è pertanto regolata dalla Legge 23/07/1991 n. 223, nel testo antecedente al richiamato intervento legislativo.
3.4. Come è noto la Legge 223/1991, con la quale lo Stato Italiano ha dato attuazione alla direttiva n. 75/129/CEE, distingue l’ipotesi dell’impresa ammessa al trattamento straordinario di integrazione salariale che nel corso del programma di cui all’art. 1 ritenga di non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative (art. 4 comma 1) e quella, che concerne tutti i datori di lavoro, anche non imprenditori, che occupano più di quindici dipendenti e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa provincia (art. 24 comma 1) .
3.5. Per la prima ipotesi si prevede la facoltà dell’imprenditore di avviare le procedure per la dichiarazione di mobilità “ai sensi del presente articolo”; tali procedure trovano applicazione anche per la seconda ipotesi in virtù dell’espresso richiamo operato dall’art. 24, comma 1, all’art. 4, commi da 2 a 12. La lettura consolidata delle disposizioni in esame, nel testo antecedente alla modifica introdotta dalla Legge n. 161/2014, condivisa dalla costante giurisprudenza di questa Corte (Cass. 21/07/2017 n. 18031; Cass. 13/05/2015 n. 9796; Cass. 01/12/2010 n. 24340) ritiene che la esclusione dei dirigenti dall’ambito di applicazione della disciplina in esame scaturisca dal richiamo operato dall’art. 24 comma 1 alla complessiva procedura di licenziamento collettivo e, quindi, (anche) al comma 9 dell’art. 4, il quale stabilisce che, raggiunto l’accordo sindacale ovvero esaurita la procedura di cui ai commi 6, 7 e 4 l’impresa ha facoltà di collocare in mobilità “gli impiegati, gli operai ed i quadri eccedenti”.
3.6. La correttezza di tale lettura si ritiene di ribadire in questa sede in quanto, innanzitutto, aderente al dato testuale; il richiamo tout court ai commi da 2 a 12 dell’art. 4 operato dall’art. 24 Legge n. 223/1991, con rinvio complessivo quindi alla disciplina regolante la procedura di mobilità, non consente di ritenere, come preteso dalla parte ricorrente, che il riferimento agli “impiegati, gli operai ed i quadri eccedenti” di cui al comma 9 dell’art. 4 sia spiegabile con il fatto che la procedura di mobilità regolata dal comma 1 dell’art. 4 trovava applicazione solo per le categorie di lavoratori per le quali era previsto l’intervento di integrazione salariale, tra le quali, non rientrava la categoria del dirigenti; in conseguenza – si assume- dal rinvio operato dall’art. 24 comma 1, alcuna limitazione poteva scaturire in ordine alla platea dei lavoratori ai quali applicare la procedura di mobilità nella differente ipotesi di licenziamento determinato da riduzione o trasformazione di attività o di lavoro presa in considerazione dall’art. 24 Legge 223/1991.
3.7. Oltre al dato testuale, che rappresenta comunque un ostacolo insuperabile, pur nella doverosa ricerca dell’interpretazione conforme al diritto comunitario, occorre considerare che ulteriore argomento alla tesi qui sostenuta è costituito dal fatto che la estensione in via interpretativa ai dirigenti della disciplina dei licenziamenti collettivi risulta poco coerente con la mancata specifica previsione nel testo di legge all’epoca vigente di uno specifico regime destinato a regolare le conseguenze dell’illegittimità del licenziamento del dirigente connesse a violazioni procedurali o dei criteri di scelta, non essendo ragionevole immaginare, stante il diversificato sistema di tutele dei dirigenti rispetto agli altri lavoratori, connesso all’illegittimo recesso datoriale, che anche per i dirigenti potesse trovare applicazione in questo caso l’art. 18 della Legge 20/05/1970 n.300 richiamato dall’art. 5 comma 3 Legge 223/1991 cit. .
3.8. La correttezza della tesi propugnata, nel senso che la originaria voluntas legis era quella di escludere i dirigenti dall’ambito di applicazione della legge destinata a disciplinare i licenziamenti collettivi, trova, inoltre, una significativa conferma a livello di sistema nel fatto che il legislatore, dopo la richiamata sentenza della Corte di Giustizia, ha ritenuto di dover intervenire, per adeguare la legislazione nazionale alle indicazioni comunitarie e lo ha fatto dettando una disciplina dichiaratamente integrativa dell’originario testo di legge e non con norma di interpretazione autentica.
3.9. Infine, sempre in senso confermativo dell’interpretazione qui condivisa, occorre considerare che l’accertamento della violazione degli obblighi comunitari di cui alla sentenza c-596/12 è stato fondato dalla Corte di Giustizia proprio sulla considerazione che “l’articolo 4, paragrafo 9, della legge n. 223/1991 si riferisce soltanto agli operai, agli impiegati e ai quadri, con esclusione dei «dirigenti». Ne consegue che, come sostenuto dalla Commissione nel suo ricorso, la normativa italiana in esame può essere intesa nel senso che non impone al datore di lavoro di seguire la procedura di licenziamento collettivo per quanto concerne taluni lavoratori.”
3.10. In base alle considerazioni che precedono il primo motivo di ricorso deve essere respinto.
4. Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso non ravvisandosi i presupposti per la disapplicazione della norma interna per contrasto con la direttiva comunitaria.
4.1. Questa Corte ha ripetutamente puntualizzato che le direttive comunitarie, prima della loro attuazione, possono spiegare efficacia diretta, per le disposizioni incondizionate e sufficientemente precise, limitatamente ai rapporti tra autorità dello Stato inadempiente e i soggetti privati e non anche tra i soggetti privati (Cass. 22/10/2009 n. 22440; Cass. 14/09/2009 n. 19771; Cass. 09/11/2006 n. 23937; Cass. 16/10/2006 n. 22125; Cass. 26/07/2006 n. 17004; Cass. 14/09/2005 n. 18202; Cass. 25/02/2004 n. 3762; Cass. 18/03/2002 n. 3914).
4.2. Tale affermazione si pone in continuità con la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE che esclude che dalla direttiva non attuata possano discendere effetti orizzontali, ossia la possibilità per il singolo di far valere le disposizioni della direttiva anche nei confronti di altri soggetti privati: la direttiva vincola solo lo Stato cui è diretta e dunque non può di per sé imporre obblighi a carico dei singoli individui in assenza di misure di attuazione (C. giust. 26.2.1986, C-152/84, Marshall); ritenere diversamente, infatti, “significherebbe riconoscere in capo alla Comunità il potere di emanare norme che facciano sorgere con effetto immediato obblighi a carico dei singoli, mentre tale competenza spetta solo laddove le sia attribuito il potere di emanare regolamenti” ( C. giust. 14.7.1994, C-91/92 Faccini /Dori)
4.3. Tanto premesso, come già osservato dal giudice di legittimità (v. tra le altre, Cass. 17004/2006 cit. Cass. 3914/2002 cit.), la verifica dell’efficacia (verticale o orizzontale) della direttiva e, quindi, della connessa possibilità di disapplicazione della norma interna, impone all’interprete di non arrestarsi al dato formale dell’essere la controversia instaurata tra soggetti privati, ma di prendere in considerazione la reale portata dei contrapposti interessi e la relativa norma regolatrice al fine di stabilire se la disposizione contraria alla direttiva sia destinata alla esclusiva tutela di situazioni meramente private o se coinvolga anche la realizzazione di interessi dei quali sia titolare la Pubblica Amministrazione in quanto ente esponenziale di interessi collettivi.
4.4. In questa prospettiva, ad es. in controversia tra un soggetto privato e l’ente Enasarco, sul rilievo che, pur essendo il rapporto tra agente e preponente innegabilmente di tipo “orizzontale”, doveva tuttavia riconoscersi che la norma imperativa invocata per sostenere la nullità del contratto (art. 9 Legge 03/05/1985 n. 204) non è posta nell’interesse dei privati, ma nell’interesse della Pubblica Amministrazione, riguardando il rapporto tra lo Stato da un lato e gli agenti ed i preponenti dall’altro, è stata disapplicata, per contrasto con la direttiva 86/653/CEE, la norma interna che subordinava la validità del contratto di agenzia all’iscrizione dell’agente di commercio in apposito albo (Cass. 3914/2002 cit.).
4.5. Con riferimento alla legge 223/ 1991, la questione della disapplicazione della norma interna (che, in contrasto con la norma comunitaria, limitava – prima della modifica introdotta d.lgs. 08/04/2004 n. 110 – la disciplina suddetta ai soli datori di lavoro imprenditori) è stata, come evidenziato anche dalla sentenza impugnata, specificamente affrontata da Cass. 17004/2006 cit. e risolta in senso negativo proprio argomentando dal fatto che “la norma risultante dalla L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 5 e L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 24, in base alla quale le disposizioni in materia di licenziamenti collettivi riguardano esclusivamente il datore di lavoro imprenditore, benché di grande rilievo economico e sociale, non regola però rapporti concernenti la pubblica amministrazione quale ente esponenziale di interessi collettivi e non può quindi esser disapplicata, sotto tale profilo”.
4.6. A tale indicazione si ritiene di dare continuità. E’ infatti innegabile che la disciplina dettata in tema di licenziamenti collettivi è destinata a regolare interessi che attengono esclusivamente a situazioni soggettive private (in quanto facenti capo al datore di lavoro da un lato e al lavoratore dall’altro in relazione alla vicenda, anch’essa esclusivamente privatistica, della cessazione del rapporto di lavoro); nè tale caratteristica viene meno per il fatto che, in considerazione dell’impatto economico e sociale normalmente connesso all’adozione di una procedura di licenziamento collettivo è previsto il coinvolgimento nella medesima delle organizzazioni sindacali anch’esse soggetti privati .
4.7. A differente conclusione non è dato pervenire sulla base della valorizzazione degli artt. 2 e 3 della Direttiva 98/59/CE auspicata dalla parte ricorrente sul rilievo degli obblighi di comunicazione all’autorità pubblica prefigurati da dette previsioni a carico della parte datoriale. Ciò per un duplice ordine di considerazione: la riferibilità ad interessi esclusivamente privati, al fine della verifica della possibilità o meno di disapplicazione della norma comunitaria, deve avere ad oggetto necessariamente e logicamente la norma interna da disapplicare e non la direttiva (v., sul punto, in particolare, Cass. 3914/2002 cit.); in ogni caso, le richiamate previsioni della Direttiva comunitaria non sono sufficienti a configurare, sulla base di un mero obbligo di comunicazione all’autorità pubblica del progetto di licenziamento, la esistenza di uno specifico, diretto, interesse collettivo della Pubblica Amministrazione distinto da quello degli altri soggetti privati coinvolti nella procedura di licenziamento collettivo.
4.8. Il rilievo dirimente delle considerazioni che precedono rende non pertinente il richiamo ai precedenti di questa Corte formulato da parte ricorrente nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.; invero l’affermazione dell’efficacia vincolante dell’interpretazione di una norma di diritto comunitario in relazione ai rapporti non ancora esauriti (v. in particolare Cass. 08/02/2016 n. 2468) attiene al tema del vincolo scaturente dall’interpretazione della norma comunitaria da parte della Corte di Giustizia, quale fonte di diritto oggettivo, che è questione diversa da quella affrontata nel presente giudizio nel quale non viene in considerazione alcuna interpretazione della norma comunitaria confliggente con quella fatta propria dalla Corte di Giustizia ma solo la verifica della possibilità di disapplicazione della norma interna. In altri termini, il vincolo in ordine al significato normativo della disposizione comunitaria risultante dalla interpretazione della Corte di Giustizia, non rende tale disposizione direttamente applicabile in assenza delle prescritte condizioni sopra rappresentate.
5. A tanto consegue il rigetto del ricorso e la condanna alle spese della parte ricorrente, secondo soccombenza .
6. La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
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