CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 ottobre 2018, n. 24758
Rapporto di lavoro – Mansioni di bibliotecario comunale – Spostamento ad altra mansione – Condotta grave – Demansionamento – Accertamento
Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Venezia, con la sentenza n. 675 del 2017, rigettava l’appello proposto da X.D. nei confronti del Comune di Breganze, nonché della Rappresentanza generale per l’Italia degli assicuratori dei L., in relazione a distinte polizze, della A. spa, della U. assicurazioni spa, avverso la sentenza emessa tra le parti dal Tribunale di Vicenza.
2. Il Tribunale rigettava le domande di risarcimento del danno proposte dal lavoratore e non esaminava, quindi, le domande di garanzia.
La sentenza dava atto che la vicenda traeva origine dall’accertamento del possesso, in capo al lavoratore, e nella postazione dell’ufficio da lui occupata, di materiale pornografico. Rilevava che tale circostanza era grave, perché le mansioni di bibliotecario comunale del ricorrente lo ponevano in contatto con utenti anche di giovane età e, unitamente al predetto materiale erano state rinvenute caramelle e mazzi di carte da gioco per bambini. Tale fatto aveva comportato lo spostamento ad altra mansione da svolgere in archivio.
Il lavoratore aveva censurato detto spostamento come demansionamento e mobbing che aveva causato malattia, prima sintomatologia ansiosa e poi depressione, in ragione della quale era stato assente dal servizio.
Il Tribunale evidenziava che il lavoratore durante il periodo di assenza dal posto di lavoro era andato all’estero e ciò contraddiceva la prospettata depressione, né, nel corso della causa, lo stesso aveva fatto riferimento alle suddette vicende.
3. La Corte d’Appello rigettava l’impugnazione. Affermava, in particolare, che il trasferimento non aveva natura disciplinare e che il Tribunale non aveva giustificato lo spostamento in ragione del ritrovamento del materiale pornografico.
Lo stesso appellante aveva riferito come già nel 2001 era stato assegnato al riordino dell’archivio e il provvedimento, a seguito di opposizione, era stato revocato nell’aprile 2001. Ciò indicava che il Comune aveva affettivamente l’esigenza di adibire il dipendente a quelle mansioni ancor prima degli episodi in questione. Inoltre, lo spostamento del giugno 2002 era stato disposto in via temporanea in un altro servizio del medesimo Settore servizi sociali, nell’ambito del progetto 30 marzo 2002, avente ad oggetto il riordino dell’archivio, in attesa dell’espletamento delle indagini penali.
Da ciò si desumeva che il trasferimento non era vessatorio e rientrava nei poteri organizzativi del Capo dell’ufficio.
Diverso era il problema del carattere inferiore della mansioni, per il quale non si poteva invocare il 2103 cod. civ., dovendo trovare applicazione l’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001.
La Corte d’Appello, quindi, in ragione dei profili professionali delle declaratorie contrattuali riteneva che non vi era stato demansionamento.
Escludeva, inoltre, l’inidoneità del locale ove si svolgeva l’attività lavorativa, e la correlazione tra malattia e lavoro in archivio, atteso il breve periodo – da giugno a ottobre 2002, senza continuità.
5. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore prospettando 10 motivi di ricorso.
6. Resiste il Comune con controricorso e propone, a sua volta, ricorso incidentale condizionato articolato in tre motivi aventi ad oggetto il proprio difetto di legittimazione passiva. Resiste altresì con controricorso U. assicurazioni s.p.a.
7. Il lavoratore resiste con controricorso al ricorso incidentale.
8. La U. Assicurazioni spa e il lavoratore hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza pubblica.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotto, ai sensi dell’art. 360, n.3, cod. proc. civ., error in iudicando, violazione di legge: per mancata e/o errata applicazione degli artt. 1 e 52 del d.lgs. n. 165 del 2001.
Assume il ricorrente di avere richiamato, nel prospettare il demansionamento, anche l’art. 52 del d.lgs. 165 del 2001, e che le nuove mansioni non potevano ricondursi al quadro contrattuale di riferimento.
Ciò, anche considerando che il demansionamento sussiste anche quando, pur nella formale equivalenza delle mansioni, siano assegnati di fatto incarichi sostanzialmente inferiori al lavoratore.
L’incarico di sistemazione dell’archivio non aveva carattere d’urgenza e straordinarietà, né dette mansioni potevano dirsi confacenti ad un dipendente inquadrato così come era esso ricorrente all’epoca.
2. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente si duole, ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per error in iudicando, violazione di legge: per mancata e/o errata applicazione dell’art. 113 cod. proc. civ. Violazione del principio iura novit curia (con riferimento agli artt. 2103 cod. civ. e all’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001).
Espone che, in relazione ai poteri del giudice, va distinto il giudizio di diritto dal giudizio sul fatto. La parte deve indicare i fatti costitutivi posti a fondamento della propria richiesta, mentre spetta al giudice applicare le norme del caso, anche mutando la qualificazione giuridica dei fatti. Pertanto si censura l’affermazione della sentenza che rilevava l’erroneità della difesa per avere invocato l’art. 2103 cod. civ., in luogo del citato art. 52, spettando al giudice stabilire la disciplina applicabile.
3. Con il terzo motivo è prospettata ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., error in iudicando, violazione di legge per mancata e/o errata applicazione dell’art. 113 cod. proc. civ., violazione del principio iura novit curia (con riferimento alla omessa e/o errata considerazione delle disposizioni di cui al CCNL, applicabile al rapporto di lavoro controverso).
Il ricorrente si duole del rigetto della domanda di declaratoria del demansionamento per avere invocato l’art. 2103 cod. civ., e non l’art. 52 del d.lsg. n. 165 del 2001, senza che la Corte d’Appello prendesse in considerazione il contenuto delle specifiche declaratori contrattuali.
4. Con il quarto motivo di appello è dedotta ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., error in iudicando, violazione di legge per mancata e/o errata applicazione del CCNL nella parte in cui identifica le mansioni riferibili a ciascun profilo professionale (nella specie profilo B e profilo C).
Deduce il lavoratore che non sussisteva, come affermato dalla Corte d’Appello, omessa allegazione e prova della qualificazione delle mansioni attribuite a sé medesimo, in quanto spettava al giudice, sulla base delle declaratorie contrattuali, accertare se alla luce dell’istruttoria le mansioni assegnate al dipendente rientravano nell’uno o nell’altro profilo di riferimento.
Egli era inquadrato nella categoria C del CCNL enti locali 31 marzo 1999, cui andavano ricondotte le figure di assistente bibliotecario e di bibliotecario nelle piccole realtà. Diverse erano le mansioni della categoria B, cui andavano ricondotte quelle cui era stato successivamente assegnato.
5. Con il quinto motivo di ricorso è prospettato, ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., error in iudicando, violazione di legge per mancata e/o errata applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. (con riferimento all’omessa considerazione delle risultanze documentali e della istruttoria orale).
Il ricorrente si duole dell’accertamento della Corte d’Appello in ordine alla non riconducibilità alla categoria B delle mansioni cui era stato addetto. Ciò, sia in ragione delle declaratorie medesima, sia dell’esito delle deposizioni testimoniali (testi B.M., C.F., X.R., S.D.), della cui valutazione da parte del giudice di secondo grado si duole.
6. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono fondati.
7. L’applicazione del principio iura novit curia fa salva la possibilità – doverosità per il giudice di dare una diversa qualificazione giuridica ai fatti ed ai rapporti dedotti in lite nonché all’azione esercitata in causa, ricercando, a tal fine, le norme giuridiche applicabili alla vicenda descritta in giudizio e ponendo a fondamento della sua decisione disposizioni e principi di diritto eventualmente anche diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, con il solo limite dell’immutazione della fattispecie da cui conseguirebbe la violazione del principio di correlazione tre il chiesto ed il pronunciato.
Nella specie la Corte d’Appello a fronte della domanda di accertamento del demansionamento prospettata ai sensi dell’art. 2103 cod. civ., ha proceduto, vertendosi nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato, secondo il principio iura novit curia, a sussumere la fattispecie nell’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, e a fare applicazione del relativo regime giuridico. Dunque il rigetto della domanda non è intervenuto per l’erroneo richiamo all’art. 2103, cod. civ., ma perché, nel vagliare la domanda di demansionamento, correttamente riferendo la fattispecie al T.U. del pubblico impiego, la Corte d’Appello con accertamento di fatto riservato al giudice di merito, raffrontando le declaratorie contrattuali, ha rilevato l’equivalenza formale delle mansioni cui era stato addetto il ricorrente rispetto a quelle precedenti.
8. A partire dalla sentenza resa a Sezioni Unite da questa Corte n. 8740 del 2008, è pacifico nella giurisprudenza di legittimità che in materia di pubblico impiego contrattualizzzato non si applica l’art. 2103 cod. civ., essendo la materia disciplinata compiutamente dal d.lgs. n. 165 del 2001, art. 52 – nel testo anteriore alla novella recata dal d.lgs. n. 150 del 2009, art. 62, comma 1, inapplicabile ratione temporis al caso in esame i cui fatti si verificavano nel 2002 – che assegna rilievo, per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della p.a., solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che possa quindi aversi riguardo all’art. 2103 cod. civ. ed alla relativa elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale che ne mette in rilievo la tutela del c.d. bagaglio professionale del lavoratore, e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione (Cass., n. 7106 del 2014, n. 17396 del 2011, n. 18283 del 2010, n. 11405 del 2010).
9. La Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione di tali principi, affermando che non potevano essere apprezzate in sé le deduzioni dell’appellante riferite alla complessità e importanza delle mansioni svolte nell’ambito della biblioteca e alla sottoutilizzazione delle capacità acquisite nell’archivio, ma bisognava accertare se le mansioni successivamente espletate, a decorrere dal 17 giugno 2002, alle quali si riferivano le doglianze, fossero comprese nella categoria di inquadramento.
Rileva il giudice di secondo grado che nella categoria C) del CCNL enti locali rientravano le mansioni di riorganizzazione e sistemazione dell’archivio proprie dell’istruttore amministrativo, alla cui declaratoria andavano ricondotte le mansioni assegnate al lavoratore, poiché la riorganizzazione dell’archivio comportava la raccolta, l’elaborazione, l’analisi dei dati, con l’utilizzo dei programmi archivistici di riordino, la capacità di distinguere gli atti di carattere amministrativo da quelli di valore storico e l’assunzione della responsabilità di risultato, sotto la direzione del responsabile di servizio.
10. Tale affermazione è corretta in ragione della declaratoria contrattuale.
Ed infatti, da un lato va ricordato che appartengono alla categoria C) i lavoratori che svolgono attività caratterizzate da: approfondite conoscenze monospecialistiche e un grado di esperienza pluriennale, con necessità di aggiornamento; contenuto di concetto con responsabilità di risultati relativi a specifici processi produttivi/amministrativi; media complessità dei problemi da affrontare basata su modelli esterni predefiniti e significativa ampiezza delle soluzioni possibili.
11. Le mansioni di riorganizzazione dell’archivio non potevano ricondursi alla categoria B), come dedotto dal lavoratore, in quanto in quest’ultima vi rientrano, in particolare, compiti di contenuto operativo o esecutivo, come si evinceva dalla relativa declaratoria contrattuale, secondo cui appartengono a questa categoria i lavoratori che svolgono attività caratterizzate da: buone conoscenze specialistiche ed un grado di esperienza discreto; contenuto di tipo operativo con responsabilità di risultati parziali rispetto a più ampi processi produttivi/amministrativi; discreta complessità dei problemi da affrontare e discreta ampiezza delle soluzioni possibili.
12. Con il sesto motivo di ricorso si invoca l’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., error in iudicando, violazione di legge: per mancata e/o errata applicazione degli artt. 2087, 1218, 1223, 2059 e 2087 cod. civ., nonché degli artt. 115 e 116, cod. proc. civ. Il lavoratore censura la sentenza di appello che ha escluso la responsabilità datoriale e l’esistenza di danni risarcibili in ragione delle mansioni affidategli e dello stato dei luoghi di svolgimento delle stesse, negando, altresì, l’esistenza di un intento persecutorio.
Il ricorrente prospetta che le prove testimoniali, la documentazione fotografica, la documentazione medica che ripercorre nell’esposizione del motivo, facevano emergere la responsabilità del datore di lavoro, in ragione dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità che richiama nel corso della trattazione.
13. Nel settimo motivo di ricorso si fa riferimento all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., error in iudicando, violazione di legge: per mancata e/o errata applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ. (con riferimento alla mancata considerazione del motivo di appello inerente l’omessa ammissione di consulenza tecnica di ufficio). Il ricorrente auspica l’accoglimento del ricorso e di conseguenza la nomina di un CTU, in sede di giudizio di rinvio, per la quantificazione del danno.
14. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi sono inammissibili in quanto, pur rubricati come vizi di violazione di legge, si sostanziano nella deduzione di vizi della motivazione della sentenza che evidenzierebbe una non adeguata valutazione delle risultanze istruttorie e della sollecitazione alla nomina di CTU, riconducibile all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.
Tale norma è applicabile ratione temporis nel testo modificato dalla legge 7 agosto 2012 n.134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, che consente di denunciare in sede di legittimità unicamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.
Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. n. 19881 del 2014 e Cass. S.U. n. 8053 del 2014) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 n. 5, cod. proc. civ. ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, “in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”. Ciò non ricorre nel caso in esame, ove la motivazione della sentenza di appello non è affetta dai suddetti vizi, anche considerando che la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili (Cass., sentenza n. 11511 del 2014), e che anche nel testo precedente dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., il vizio di motivazione, non può essere inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non si può proporre con esso un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice.
15. Con l’ottavo motivo di ricorso si prospetta il vizio di cui all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., error in iudicando, violazione di legge: per mancata e/o errata applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. (con riferimento sia alla impugnazione della sanzione disciplinare di cui al sesto motivo di appello che alla riconducibilità della malattia alle condizioni di lavoro).
Il ricorrente prospetta di aver impugnato in appello l’omesso esame della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per 2,5 mesi, comminata il 31 maggio 2006, per un episodio risalente ad alcuni giorni prima, che aveva visto il ricorrente non rispettare la mansioni assegnategli e assentarsi dal servizio, e si duole della asserita succinta motivazione della sentenza di secondo grado.
La sentenza non avrebbe considerato le risultanze istruttorie che sostanziavano l’addebitabilità al datore di lavoro dello stato di malattia.
16. Il motivo è inammissibile. La Corte d’Appello nella trattazione del sesto motivo di impugnazione rileva che il Comune aveva contestato al dipendente l’assenza ingiustificata dal servizio dal 14 marzo 2006, che integrava violazione dei doveri del dipende in relazione al codice disciplinare, e il lavoratore si era difeso dichiarando che il 7 marzo aveva lasciato il lavoro per disturbo agli occhi, ma senza produrre né fare riferimento ad alcuna certificazione medica relativa al periodo di assenza oggetto della contestazione disciplinare. La Corte d’Appello, quindi, osservava che ciò metteva in evidenza che il lavoratore riconosceva l’esistenza del fatto a lui addebitato ma non forniva alcuna concreta giustificazione, come avrebbe dovuto fare presentando la certificazione relativa al periodo di assenza, e la condotta integrava la violazione delle disposizioni contrattuali richiamate, artt. 23 e 25 del CCNL.
Tale statuizione non è stata adeguatamente censurata, in quanto nella statuizione della sentenza di appello oggetto della presente doglianza non viene in rilievo la sussistenza o meno della malattia o la riconducibilità o meno della stessa al datore di lavoro, su cui verte il motivo di appello, ma il tempestivo avviso all’ufficio dell’assenza dal lavoro in questione, rispetto a cui non vi sono deduzioni circostanziate.
17. Con il nono motivo di ricorso è dedotto il vizio di cui all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.: error in procedendo per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (sotto i due differenti profili riferiti alla pretesa colpevolezza del ricorrente e dell’accettazione delle nuove mansioni assegnate).
La Corte d’Appello sarebbe incorsa in errore per aver omesso l’esame di un fatto storico la cui esistenza risultava dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che aveva costituito oggetto di discussione tra le parti.
Ricordava che il procedimento penale attivato a seguito della denuncia inoltrata dal Comune contestualmente al mutamento delle funzioni era stato archiviato, e che le mansioni inerenti il riordino dell’archivio, come disposto nel verbale del 7 ottobre 2002 di conciliazione giudiziale conclusivo del ricorso ex art. 700 cod. proc. civ. a suo tempo proposto dinanzi al Tribunale di Vicenza avverso le illecite nuove mansioni, aveva carattere temporaneo.
18. Il motivo è inammissibile in ragione dei principi richiamati nella trattazione del sesto e del settimo motivo di ricorso.
Tanto premesso si rileva che la Corte d’Appello, pur ricordando le vicende che si erano verificate prima del trasferimento e che avevano dato luogo anche ad un procedimento penale, poi archiviato come espone il ricorrente, ha affermato che lo spostamento del lavoratore era connesso all’effettiva esigenza del Comune di adibire il dipendente a quelle mansioni, e che lo stesso risultava giustificato dal progetto 30 marzo 2002 di riordino dell’archivio, così rientrando nel potere organizzativo del datore di lavoro. Pertanto il riferimento in sentenza ad un accodo tra le parti, che il ricorrente richiama assumendone la mera temporaneità, costituisce argomentazione ad abundantiam che non incide sulla ratio decidendi, costituita dalla sussistenza in relazione all’assegnazione all’archivio, del legittimo esercizio del potere di organizzazione datoriale. Né rileva, rispetto alla ratio decidendi, la dedotta intervenuta archiviazione del procedimento penale.
Dunque, quanto dedotto nel motivo di impugnazione, non coglie e censura adeguatamente la ratio decidendi della sentenza di appello.
19. Con il decimo motivo di appello si prospetta il vizio di cui all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.: error in procedendo per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (per quanto attiene alla illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto).
Espone il lavoratore che nell’appello aveva dedotto come in ragione della riferibilità della malattia al datore di lavoro non poteva che dichiararsi illegittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto. La questione veniva ritenuta assorbita ma rivive in ragione della prospettata fondatezza dei precedenti motivi di ricorso.
20. Al rigetto dei motivi di impugnazione che precedono segue l’assorbimento del suddetto motivo.
21. Il ricorso principale deve essere rigettato.
22. Con i due motivi del ricorso incidentale condizionato, il Comune di Breganze ha prospettato il proprio difetto di legittimazione passiva e di titolarità passiva del rapporto dedotto in giudizio, in relazione, rispettivamente, all’art. 360, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.
23. Al rigetto del ricorso principale segue l’assorbimento di quello incidentale condizionato.
24. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
25. Ai sensi dell’art. 13 c. 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 , dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale, assorbito l’incidentale. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida per ciascuno dei controricorrenti costituiti in Euro 200,00 per esborsi, euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 c. 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 , dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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