CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 febbraio 2021, n. 3079
Tributi – Accertamento – Fatture per operazioni inesistenti – Imputazione ai soci di maggior reddito di partecipazione – Sanzione per infedele dichiarazione – Responsabilità soci non amministratori – Omesso o insufficiente esercizio del potere di controllo
Fatti di causa
1. Con ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Roma la A. di M.T. s.a.s. ed i soci T.M., R.M. e A.P. impugnavano, con distinti ricorsi, gli avvisi di accertamento con i quali l’Agenzia delle entrate, dopo avere rilevato la contabilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente ed oggettivamente inesistenti e costi non documentati per carburante, aveva proceduto al recupero a tassazione di IRAP ed I.V.A. nei confronti della società, imputando contestualmente ai soci maggiore reddito di partecipazione.
L’Amministrazione finanziaria, in particolare, aveva accertato l’esistenza di fatture passive emesse da diverse società che avevano omesso di presentare le dichiarazioni fiscali e di versare le imposte, oltre che pagamenti a mezzo assegni bancari o in contanti che, sulla base di riscontri documentali, risultavano in realtà effettuati nei confronti di soggetti terzi estranei alle operazioni.
La società eccepiva la nullità dell’accertamento per mancata allegazione del processo verbale di constatazione e per contraddittorietà della motivazione, oltre che la infondatezza della ripresa a tassazione, mentre i soci, oltre a ribadire le difese svolte dalla società, deducevano l’illegittimità delle sanzioni irrogate.
2. I giudici di primo grado, previa riunione dei ricorsi, li rigettavano con sentenza avverso la quale veniva proposto appello dinanzi alla Commissione tributaria regionale del Lazio.
I giudici regionali rigettavano gli appelli della società e dei soci, ritenendo solidi e condivisibili gli elementi sui quali si fondava la contestazione dell’Ufficio e sostenendo che la società verificata non era stata in grado di presentare documentazione dalla quale potesse evincersi l’effettività delle prestazioni rese dalle società che avevano emesso le fatture oggetto di contestazione.
Con riguardo alla ripresa a tassazione dei costi per carburanti, osservava che le schede carburanti rinvenute presso la società erano incomplete e non conformi al modello allegato al d.P.R. n. 444 del 1997, e, quindi, inidonee a determinare i benefici fiscali.
Accoglieva, tuttavia, l’appello dei soci limitatamente alle sanzioni irrogate, ritenendo non sufficiente per la loro applicazione la mera volontarietà del comportamento sanzionato e necessaria la colpevolezza ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 472 del 1997.
3. Ricorrono per la cassazione della suddetta decisione la società T.C.R. s.r.l. (già A. di M.T. s.a.s.) ed i soci T.M., R.M. e A.P., con un unico motivo.
L’Agenzia delle entrate resiste mediante controricorso e propone ricorso incidentale, con due motivi.
Motivi della decisione
1. Con un unico articolato motivo i contribuenti censurano, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la sentenza impugnata per violazione degli artt. 2697 cod. civ., 1 legge n. 241 del 1990, 36 d.lgs. n. 546 del 1992, nonché per omessa, contraddittoria e lacunosa motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.), lamentando che la C.T.R., laddove afferma che la società non è stata in grado di presentare alcuna documentazione dalla quale potesse evincersi l’effettività delle prestazioni fatturate, non ha fatto corretta applicazione dei criteri di ripartizione dell’onere della prova, poiché l’Amministrazione finanziaria non aveva assolto l’onere di fornire la giustificazione della pretesa fiscale.
Rilevano, a tale proposito, che la esistenza delle operazioni sottese all’emissione delle fatture contabilizzate trova conferma nelle dichiarazioni rese dai legali rappresentanti delle società che hanno emesso le fatture e che le ragioni per le quali l’Ufficio considera le fatture relative ad operazioni inesistenti – ossia la presenza di indizi di pericolosità fiscale nelle società emittenti le fatture ed i pagamenti effettuati nei confronti di soggetti terzi – non costituiscono elementi sufficienti a far ritenere l’operazione inesistente.
L’Ufficio, secondo i ricorrenti, non ha inoltre portato a conoscenza dei soci, attraverso l’avviso di accertamento, tutti gli atti sulla base dei quali ha ritenuto di operare, con la conseguenza che l’atto impositivo è nullo per difetto di motivazione, considerato che l’avviso a carico del socio deve contenere una motivazione autonoma e completa.
2. Con il ricorso incidentale la difesa erariale deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 5 del d.lgs. n. 472 del 1997, in relazione all’art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986 (primo motivo) e, in subordine, correlato vizio di motivazione ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. (secondo motivo).
Nel rammentare che l’art. 5 citato impone al giudice tributario di prendere in esame anche l’elemento soggettivo, ossia l’esistenza di un comportamento che sia almeno <<colpevole>>, evidenzia, con specifico riferimento alle società di persone, che la stessa Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare il principio secondo cui il reddito di partecipazione agli utili sociali del socio, costituente, ai fini Irpef, reddito proprio del socio, è a lui imputato sulla base della presunzione di un’effettiva percezione; ove tale presunzione non venga superata, è da ritenersi provata, ai fini dell’applicazione delle sanzioni, sia la volontarietà della condotta del socio sia la sua colpevolezza. Si duole, inoltre, dell’omesso esame di fatti decisivi, per non avere la Commissione regionale considerato che la contestazione riguardava la fittizia rappresentazione contabile e fiscale di operazioni non eseguite ovvero la falsa rappresentazione contabile e fiscale di operazioni diverse da quelle eseguite.
3. Va premesso che il motivo del ricorso principale prospetta plurimi profili di doglianza che comprendono sia la violazione di norme di diritto sostanziale (art. 2697 cod. civ.) e di norme processuali (art. 36 d.lgs. n. 546 del 1992), sia vizi di motivazione della impugnata sentenza.
Le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., sez. U, 6/05/2015, 9100) hanno chiarito che <<la circostanza che l’unico motivo di ricorso sia articolato in più profili, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non è certo, di per sé, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione. Per rendere ammissibile il ricorso è sufficiente che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate, onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati>>.
Nel caso in esame, le censure sviluppate nel ricorso sono chiaramente individuabili e conservano una propria autonomia espositiva, sicché sono ammissibili.
4. Venendo all’esame dei suaccennati profili di doglianza contenuti nel ricorso principale, è opportuno sgomberare subito il campo dalla censura riguardante la pretesa violazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 546 del 1992, che sicuramente non sussiste.
Si è infatti in presenza di una ipotesi di motivazione apparente, quando la motivazione, seppure graficamente esistente, risulta costruita in modo tale da non consentire il controllo sull’esattezza e logicità del ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, e, quindi, da porsi al di sotto del <<minimo costituzionale>> richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost.(Cass., sez. U, 3/11/2016, n. 22232).
La sanzione di nullità colpisce, infatti, non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione o che presentano un «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili>> e che «presentano una motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile>> (Cass., sez. U, 7/04/2014, n. 8053), ma anche quelle che non esternano un «ragionamento che, partendo da determinate premesse, pervenga con un certo procedimento enunciativo», logico e consequenziale, <<a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi» (Cass., sez. U, 3/11/2016, n. 22232).
Ciò non ricorre nel caso in esame, laddove la C.T.R., seppure in maniera sintetica, ha ritenuto di dover confermare gli atti impositivi, di cui ha ritenuto sufficiente la motivazione, considerando sussistenti i presupposti impositivi e provata la fittizietà delle operazioni sottese alle fatture oggetto di contestazione.
Esplicitando le ragioni della decisione, la motivazione non può considerarsi meramente apparente ed eventuali profili di contraddittorietà o di insufficienza del ragionamento decisorio, pure censurati con il mezzo in esame, non la viziano in modo così radicale da escluderne l’idoneità ad assolvere alla funzione di cui all’art. 36 d.lgs. n. 546 del 1992.
5. L’altro profilo di doglianza concernente il dedotto difetto di motivazione degli avvisi di accertamento non si sottrae alla declaratoria di inammissibilità.
La Commissione regionale, nel confermare gli atti impositivi, in ragione dell’assenza di prova di elementi concreti dai quali poter ricavare l’effettività delle prestazioni rese dalle società che avevano emesso le fatture, ha, implicitamente, ritenuto che l’Amministrazione abbia adeguatamente motivato le ragioni per le quali ha proceduto al recupero a tassazione nei confronti della società e dei soci, accertando, pertanto, che gli atti impugnati sfuggono alla sollevata censura di carenza di motivazione.
I contribuenti, intendendo lamentarsi in questa sede dell’erronea valutazione espressa dal giudice di merito, avevano l’onere – imposto dall’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ. – di produrre l’avviso di accertamento – che è atto amministrativo e non processuale (Cass., sez. 5, 3/12/2001, n. 15234; Cass., sez. 5, 6/11/2019, n. 28570) – o comunque di indicarne il contenuto, trascrivendolo nel ricorso, al fine di consentire a questa Corte di valutare l’eventuale fondatezza della doglianza.
Poiché non risulta riportata la motivazione degli avvisi di accertamento, il mezzo in esame, sotto tale profilo, è inammissibile per difetto di autosufficienza (Cass., sez. 5., 13/02/2015, n. 2928; Cass., sez. 5, 13/11/2018, n. 29093).
6. L’esame dei rimanenti profili di doglianza può essere condotto congiuntamente, in quanto rivolti a lamentare vizi inerenti l’individuazione degli elementi costitutivi della fattispecie concernente la emissione e l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti e la conseguente valutazione – operata dai giudici di appello – degli elementi indiziari forniti dall’Amministrazione a dimostrazione della natura fittizia delle operazioni riferibili alla società verificata.
6.1. I rilievi sono infondati.
6.2. Occorre rammentare che il diritto alla detrazione I.V.A. ex art. 19 d. P.R. n. 633 del 1972 ed il correlativo diritto alla deducibilità dal reddito d’impresa, ai fini delle imposte dirette, dei costi non può prescindere dalla regolarità delle scritture contabili, ed in particolare della fattura che, come si evince dall’art. 21 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, deve indicare l’oggetto ed il corrispettivo di ogni operazione commerciale.
Nelle ipotesi di fatture che l’Amministrazione finanziarie ritenga relative ad operazioni inesistenti – tra le quali devono essere ricondotte sia le ipotesi di mancanza assoluta dell’operazione fatturata, sia le ipotesi di inesistenza soggettiva, nelle quali venga accertato che uno o entrambi i soggetti del rapporto documentato della fattura sono falsi – non spetta al contribuente provare che l’operazione è effettiva e realmente avvenuta, ma grava sull’Amministrazione finanziaria, che adduce la falsità del documento, provare che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, in realtà non è stata mai posta in essere (Cass., sez. 5, 10/06/2011, n. 12802; Cass., sez. 5, 11/09/2013, n. 20786; Cass., sez. 5, 14/01/2015, n. 428).
Come precisato da questa Corte, tale prova è raggiunta se l’Amministrazione fornisce validi elementi, che possono assumere la consistenza di attendibili indizi idonei ad integrare una presunzione semplice, per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni (anche solo parzialmente) fittizie, ovvero per dimostrare, <<in modo certo e diretto>>, la <<inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati>>, ovvero <<la inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione>>. In tal caso passa sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate (Cass., sez. 5, 19/10/2007, n. 21953; Cass., sez. 5, 11/06/2008, n. 15395; Cass., sez. 5, 10/06/2011, n. 12802; Cass., sez. 5, 6/06/2012, n. 9108; Cass., sez. 5, 5/12/2014, n. 25775; Cass., sez. 5, 14/01/2015, n. 428; Cass., sez. 5, 15/12/2017, n. 30148).
Conseguentemente, il giudice di merito è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione e, qualora ritenga tali elementi dotati dei caratteri della gravità, precisione e concordanza, può procedere alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, che ne è onerato ai sensi dell’art. 2697 cod. civ.(Cass., sez. 5, 23/04/2010, n. 9784; Cass., sez. 5, 14/01/2015, n. 428; Cass, sez. 5, 5/07/2018, n. 17619; Cass., sez. 5, 19/10/2018, n. 26453).
6.3. Con specifico riferimento alle ipotesi di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti – che sono caratterizzate dal fatto che la merce acquistata dal contribuente che esercita il diritto alla detrazione I.V.A. proviene in realtà da soggetto diverso da quello fittiziamente interposto che ha emesso la fattura, incassando l’I.V.A. ed omettendo poi di versarla all’Erario – secondo il consolidato orientamento di questa Corte, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attiene ad operazioni inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza, della sostanziale inesistenza del contraente; qualora l’Amministrazione assolva detto onere probatorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della documentazione contabile esibita e dei pagamenti, né che la merce sia stata effettivamente consegnata, trattandosi di circostanze non concludenti, la prima in quanto insita nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente, e la seconda perché relativa ad un dato di fatto inidoneo di per sé a dimostrare l’estraneità alla frode (Cass., sez. 5, 20/04/2018, n. 9851; Cass., sez. 5, 30/10/2018, n. 27566; Cass., sez. 5, 24/07/2009, n. 17377; Cass., sez. 5, 20/01/2010, n. 867; Cass., sez. 5, 10/06/2011, n. 12802).
6.3.1 La prova, da parte dell’Amministrazione può ritenersi raggiunta se vengono forniti attendibili indizi idonei ad integrare una presunzione semplice e, dunque, non occorre la prova <<certa>> ed incontrovertibile di ogni operazione, per cui l’onere probatorio può essere assolto anche mediante presunzioni, come prevede per l’I.V.A. l’art. 54, secondo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972 e, per le imposte dirette, l’art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, e mediante elementi indiziari (Cass., sez. 6-5, 7/06/2017, n. 14237; Cass., sez. 5, 24/09/2014, n. 20059; Cass., sez. 5, 5/12/2014, n. 25778; nello stesso senso Corte di Giustizia 6 luglio 2006, Kittei, C-439/04 e C-440/04; Corte di Giustizia 21 giugno 2012, Mahagében e David, C-80/11 e C-142/11).
6.3.2. In ordine all’elemento soggettivo, se è vero che non è ipotizzabile un automatismo probatorio e che al destinatario non compete, di norma, conoscere la struttura e le condizioni di operatività del proprio fornitore, sussiste, tuttavia, un obbligo di verifica, nei limiti dell’esigibile, in presenza di indici personali ed operativi anomali dell’operazione commerciale, tali da evidenziare irregolarità o da ingenerare dubbi di una potenziale evasione.
6.4. Tanto premesso in diritto, la Commissione regionale era tenuta a verificare se gli elementi indiziari emergenti dal processo verbale di constatazione, singolarmente e globalmente considerati, conducevano alla dimostrazione della inesistenza oggettiva delle operazioni fatturate o alla prova della interposizione fittizia, valendosi a tale scopo dei criteri legali che devono sorreggere la prova presuntiva.
Nella specie, i giudici d’appello, attenendosi ai suddetti principi, hanno ritenuto che la società contribuente avesse utilizzato fatture passive relative a fittizie prestazioni di servizi, affermando che nel corso della verifica era emerso che: a) la società contribuente aveva ricevuto e registrato fatture per prestazioni eseguite da parte di società che presentavano indizi di pericolosità fiscale per avere omesso dichiarazioni e versamenti d’imposta; b) i pagamenti di dette fatture erano stati eseguiti in contanti o con assegni risultati intestati ad altri soggetti; c) il titolare di una delle società emittenti le fatture aveva escluso di avere effettuato attività di intermediazione immobiliare con la contribuente; d) la società sottoposta a verifica non era stata in grado di presentare documentazione da cui potesse evincersi l’effettività delle prestazioni fatturate.
Hanno, quindi, considerato assolto, da parte dell’Amministrazione finanziaria, l’onere probatorio in ordine alla fittizietà delle operazioni, negando al contempo – con una valutazione di fatto non sindacabile in sede di legittimità – che gli elementi probatori offerti dalla contribuente fossero idonei a superare gli elementi presuntivi esposti dall’Ufficio.
6.5. Il giudice di merito, così argomentando, non ha operato una indebita inversione dell’onere probatorio, trasferendolo sulla società contribuente, ma ha piuttosto ritenuto che l’Amministrazione finanziaria abbia debitamente fornito elementi indiziari idonei a dimostrare la inesistenza – oggettiva e soggettiva – delle prestazioni sottese alle fatture e che tale prova non sia stata validamente confutata, da parte del contribuente, con validi elementi probatori di segno contrario.
Non è, quindi, ravvisabile la violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ., che è configurabile solo se il giudice del merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni, non anche quando abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (Cass., sez. 3, 5/09/2006, n. 19064; Cass., sez. 3, 17/06/2013, n. 15107; Cass., sez. 6-3, 21/02/2018, n. 4241; Cass., sez. 1, 29/05/2018, n. 13395).
L’eventualità, invece, che la valutazione delle acquisizioni istruttorie sia stata incongrua ed il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata avesse assolto l’onere probatorio, non integra violazione dell’art. 2697 cod. civ., ma solo un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile nei limiti di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.
6.6. Va, parimenti, dichiarata l’inammissibilità del dedotto vizio di motivazione.
Il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., applicabile ratione temporis, deve essere dedotto mediante esposizione chiara e sintetica del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero delle ragioni per le quali l’insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione, fornendo elementi in ordine al carattere decisivo di tali fatti, che non devono attenere a mere questioni o punti, dovendosi configurare in senso storico o normativo (Cass., sez. 5, 13/12/2017, n. 29883; Cass., sez. 5, 23/05/2018, n. 12676).
Peraltro, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità, non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo esame, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale, spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (Cass., sez. 5, 4/08/2017, n. 19547).
Le parti ricorrenti, con la censura in esame, non individuano specificamente fatti storici decisivi il cui esame da parte della Commissione regionale sarebbe stato insufficiente, ma tendono piuttosto a una diversa ricostruzione in fatto rispetto a quella operata dai giudici di merito.
7. Questo Collegio non può, comunque, esimersi dal rilievo ex officio, con riferimento alla deducibilità dei costi per operazioni soggettivamente inesistenti ai fini delle imposte dei redditi, che ha diretta rilevanza nel presente giudizio l’art. 8, comma 1, del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito dalla legge 26 aprile 2012, n. 44 (che ha sostituito il comma 4-bis dell’art. 14 della legge n. 537 del 1993), che, operando quale ius superveniens, trova applicazione anche in sede di legittimità, in quanto il rapporto tributario non è ancora esaurito (Cass., sez. 5, 15/01/2014, n. 661).
Infatti, il comma 3 del citato art. 8 stabilisce che <<le disposizioni di cui ai commi 1 e 2, si applicano, in luogo di quanto disposto dal comma 4-bis dell’art. 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore, degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al citato comma 4-bis previgente non si siano resi definitivi.
Come questa Corte ha ripetutamente affermato, sulla scorta della relazione al disegno di legge di conversione del d.l. n. 16 del 2012, lo scopo della norma è quello di <<inibire in modo inequivoco la deducibilità dei componenti negativi di reddito direttamente connessi al compimento delle fattispecie di reato più gravi, evitando che tale indeducibilità possa essere letta come una sanzione impropria, venendo invece la stessa inquadrata come regola generale nell’ambito della determinazione del reddito imponibile» (Cass., sez. 5, 20/06/2012, n. 10167).
Per effetto di questa disposizione, l’indeducibilità non trova applicazione per i costi e le spese esposti in fatture o altri documenti aventi analogo rilievo probatorio che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi, ferme restando le regole generali in materia di detrazione della relativa imposta sul valore aggiunto di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 e in tema di deduzione previste dal testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917.
Ciò significa che sono deducibili per l’acquirente dei beni i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una frode carosello), per il solo fatto che essi sono sostenuti, anche per l’ipotesi che l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che a norma del t.u.i.r. siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (Cass., sez. 5, 30/10/2013, n. 24426; Cass., sez. 5, 17/12/2014, n. 26461; Cass., sez. 6-5, 7/12/2016, n. 25249; Cass., sez. 5, 22/06/2018, n. 16528; Cass., sez. 5, 30/10/2018, n. 27566).
Ne discende che ai soggetti coinvolti nelle cd. frodi carosello non è più contestabile, alla luce della nuova norma, la deducibilità dei costi, in quanto i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente <<al fine di commettere il reato>>, ma, salvo prova contraria, per essere commercializzati e venduti. Sicché non è più sufficiente il coinvolgimento (anche consapevole) dell’acquirente in operazioni che siano fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore perché non siano deducibili, ai fini delle imposte dirette, i costi relativi alle predette operazioni, anche se resta aperto il problema della concreta deducibilità dei costi in relazione ai principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, accertamento che non è stato effettuato nel caso di specie.
Sotto tale profilo, pertanto, la sentenza va cassata con rinvio al giudice di merito perché esamini nuovamente la questione concernente la deducibilità dei costi delle operazioni soggettivamente inesistenti, facendo applicazione del principio di diritto secondo cui <<In tema di imposte sui redditi, a norma dell’art. 14, comma 4-bis, legge n. 537 del 1993 nella formulazione introdotta con l’art. 8, comma 1, d.l. n. 16 del 2012, sono deducibili per l’acquirente dei beni i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti, per il solo fatto che essi sono sostenuti nel quadro di una cd. “frode carosello”, anche per l’ipotesi che l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che a norma del t.u.i.r. siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità»».
8. Merita accoglimento il ricorso incidentale.
8.1. I giudici di appello hanno dichiarato non dovute le sanzioni irrogate ai soci considerando l’intento fraudolento quale presupposto imprescindibile della norma incriminatrice di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 471 del 1997.
In realtà, la disposizione normativa in esame, nel configurare l’illecito tributario, prescinde dall’esigenza di un dolo specifico e, applicando alla materia fiscale il principio sancito dall’art. 3 della l. n. 689 del 1981, reputa sufficiente, per la punibilità dell’illecito tributario, la mera colpa, che si presume a carico di colui che abbia consapevolmente e volontariamente posto in essere l’atto vietato, salvo che provi di avere agito incolpevolmente (Cass., sez. 5, 20/02/2009, n. 4171; Cass., sez. 6-5, 13/04/2017, n. 9637; Cass., sez. 5, 28/06/2017, n. 16116; Cass., sez. 5, 13/09/2018, n. 22329; Cass., sez. 5, 15/05/2019, n. 12901; Cass., sez. 5, 30/01/2020, n. 2139). Ciò comporta che è sufficiente la coscienza e volontà, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa (o dell’intento fraudolento), atteso che la norma pone una presunzione di colpa per l’atto vietato a carico di chi lo ha commesso, lasciando a costui l’onere di provare di avere agito senza colpa (Cass., sez. 5, 25/10/2006, n. 22890; Cass., sez. 5, 15/06/2011, n. 13068).
8.2. Questa Corte, proprio con riguardo al maggior reddito societario risultante dalla rettifica operata nei confronti di una società di persone ed imputato al socio, ai fini Irpef, in proporzione della sua quota di partecipazione, ai sensi dell’art. 5 del d.P.R. 29 settembre 1986, n. 917, ha ripetutamente affermato che da tale accertamento scaturisce anche l’applicazione allo stesso socio della sanzione per infedele dichiarazione, prevista dall’art. 46 del d.P.R. n. 600 del 1973.
Tale principio si applica anche al socio accomandante di una società in accomandita semplice, risultando irrilevante l’estraneità di tali soci all’amministrazione della società, in quanto agli stessi è sempre consentito verificare l’effettivo ammontare degli utili conseguiti (Cass., sez. 5, 9/12/2002, n. 17492).
La sanzione non viene, quindi, irrogata al socio accomandante sulla base della mera volontarietà, in contrasto con l’elemento della colpevolezza introdotto dall’art. 5 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, consistendo, nel suo caso, la colpa nell’omesso o insufficiente esercizio del potere di controllo sull’esattezza dei bilanci della società, ai sensi dell’art. 2320, ultimo comma, cod. civ.(Cass., sez. 5, 25/02/2002, n. 2699; Cass., sez. 5, 27/02/2002, n. 2899; Cass., sez. 5, 28/06/2017, n. 16116).
Ciò significa che l’elemento della colpevolezza rilevante ai fini dell’applicazione della sanzione per infedele dichiarazione prevista dall’art. 46 del d.P.R. n. 600 del 1973 consiste, per i soci non amministratori, nell’omesso o insufficiente esercizio del potere di controllo sullo svolgimento degli affari sociali e di consultazione dei documenti contabili, nonché del diritto ad ottenere il rendiconto dell’attività sociale, e, per i soci amministratori, nell’omesso o insufficiente esercizio dei poteri di gestione, direzione e controllo dell’attività sociale (Cass., sez. 6 – 5, 13/04/2017, n. 9637).
La decisione impugnata non si è uniformata ai principi sopra richiamati e va, pertanto, cassata.
9. In conclusione, va accolto il ricorso principale nei termini di cui in motivazione e va accolto il ricorso incidentale, con conseguente cassazione della sentenza impugnata in parte qua, con rinvio alla competente Commissione tributaria regionale, in diversa composizione, per il riesame, oltre che per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso principale nei termini di cui in motivazione; accoglie il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in parte qua e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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