CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 maggio 2019, n. 12332
Imposte sui redditi – Accertamento – Immobili – Locazione – Canoni – Mancata percezione – Riscossione – Contenzioso tributario
I fatti di causa
Con ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale di Salerno G.B. impugnava l’avviso di accertamento sopraindicato col quale l’Agenzia delle Entrate, accertava per l’anno 2004, un maggior reddito derivante da locazione di immobili per € 5.928,00. Deduceva di essere comproprietario di un immobile col nipote B.A., che lo aveva locato senza informarlo, e di aver perciò intrapreso davanti al Tribunale di Avellino un’azione monitoria nei confronti del nipote per il pagamento della quota di canone spettantegli, dopo la riscossione del quale avrebbe provveduto al pagamento della relativa imposta.
L’Agenzia delle Entrate contestava la pretesa del ricorrente sostenendo che i canoni di locazione avrebbero dovuti essere dichiarati indipendentemente dall’effettiva riscossione.
La Commissione Tributaria Provinciale rigettava la domanda con la sentenza 311/06/2011 che, appellata davanti alla Commissione Tributaria Regionale della Campania, sez stacc. di Salerno, era stata da questa confermata, in applicazione analogica dell’art. 26 del TUIR.
Ricorre per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale il contribuente, deducendo, nei due motivi sopra riportati, l’insussistenza dell’obbligazione tributaria in assenza di reddito e l’inapplicabilità dell’art. 26 del D.P.R. 917/’86, trattandosi non di canoni non corrisposti, ma di canoni usurpati.
Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate, che eccepisce preliminarmente l’inammissibilità del ricorso che sostanzialmente ripropone le questioni di fatto già esaminate in merito e, comunque la sua infondatezza, considerato che con l’azione giudiziaria intrapresa contro il nipote il ricorrente avrebbe di fatto ratificato il suo operato. Ribadisce il principio di competenza stabilito dall’art. 26 del D.P.R. 917/’86.
Ragioni della decisione
I due motivi, strettamente connessi, possono essere trattati unitariamente.
Secondo la sentenza impugnata, l’art. 26 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, in base al quale il contribuente è obbligato a dichiarare anche i canoni relativi alle mensilità non corrisposte, disciplina ogni fattispecie di mancata percezione dei canoni di locazione, quale sia la causa concreta della mancata percezione, salvi i correttivi previsti in caso di morosità del conduttore; correttivi secondo i quali “i redditi derivanti da contratti di locazione di immobili ad uso abitativo, se non percepiti, non concorrono a formare il reddito dal momento della conclusione del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità del conduttore. Per le imposte versate sui canoni venuti a scadenza e non percepiti come da accertamento avvenuto nell’ambito del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità è riconosciuto un credito di imposta di pari ammontare”.
Con il primo motivo il ricorrente sostiene che l’art. 26 non è applicabile al caso di specie, dove non si tratta di canoni non riscossi per morosità del conduttore, ma di usurpazione, da parte del comproprietario, dei poteri dell’altro comproprietario; usurpazione che avrebbe comportato l’imputazione automatica di un reddito fondiario nella sua totale inazione. Sostiene conseguentemente che non sarebbe stata tutelata la sua buone fede, in violazione dell’art. 10 dello statuto del contribuente, e che sarebbe stato violato l’art. 53 della Costituzione in quanto egli sarebbe stato sottoposto ad imposizione fiscale senza aver percepito reddito.
Il motivo è destituito di fondamento.
Secondo l’art. 25 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, “sono redditi fondiari quelli inerenti ai terreni e ai fabbricati situati nel territorio dello Stato che sono o devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio urbano”.
L’art. 26, comma 1, dello stesso D.P.R. 917/’87 stabilisce che “i redditi fondiari concorrono, indipendentemente dalla percezione, a formare il reddito complessivo dei soggetti che possiedono gli immobili a titolo di proprietà, enfiteusi, usufrutto o altro diritto reale…”.
Contrariamente all’assunto del ricorrente, l’applicazione, al caso di specie, dell’art. 26, non ne implica un’interpretazione costituzionalmente illegittima, in quanto, come già osservato dalla giurisprudenza costituzionale, “la capacità contributiva, quale idoneità all’obbligazione di imposta, desumibile dal presupposto economico al quale l’imposta è collegata, può essere ricavata, in linea di principio, da qualsiasi indice rivelatore di ricchezza, secondo valutazioni riservate al legislatore, salvo il controllo di costituzionalità” (Corte Cost., sent. 362/00; sentenze n. 143 del 1995, n. 315 del 1994 e n. 42 del 1992). Secondo quanto poi precisato dalla stessa Corte Costituzionale, il sistema del riferimento per la determinazione del reddito dei fabbricati al canone risultante dal contratto di locazione – come sopra sottolineato – è del tutto eccezionale e deve armonizzarsi nel contesto di un sistema che pone la regola per cui i redditi fondiari concorrono a formare il reddito complessivo indipendentemente dalla percezione. Sicché esso potrà operare nel tempo solo fin quando risulterà in vita un contratto di locazione e quindi sarà dovuto un canone in senso tecnico. Quando, invece, la locazione (rapporto contrattuale) sia cessata per scadenza del termine (art. 1596 cod. civ.) ed il locatore pretenda la restituzione essendo in mora il locatario per il relativo obbligo, ovvero quando si sia verificata una qualsiasi causa di risoluzione del contratto, ivi comprese quelle di inadempimento in presenza di clausola risolutiva espressa e di dichiarazione di avvalersi della clausola (art. 1456 cod. civ.), o di risoluzione a seguito di diffida ad adempiere (art. 1454 cod. civ.), tale riferimento al reddito locativo non sarà più praticabile, tornando in vigore la regola generale.
Nel quadro di questi principi e di queste puntualizzazioni, la distinzione fra canone locatizio non riscosso e canone “usurpativamente” somministrato è del tutto sterile, in quanto per sua natura il reddito fondiario è legato alla titolarità del diritto reale, a prescindere dalla sua effettiva percezione.
Questo Collegio non ignora il diverso orientamento espresso dalla sentenza n. 2771/2016, che ha ritenuto il reddito derivante dalla locazione di un fabbricato reddito diverso da quello fondiario e quindi imputabile al locatore, a prescindere dalla titolarità del diritto reale.
Se è invero evidente che secondo gli artt. 25 e segg. del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 i redditi fondiari (dominicali, agrari e di fabbricati) sono parametrati a tariffe d’estimo (artt. 28, 34 e 37 D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), è altrettanto innegabile che, per quanto concerne i redditi di fabbricati, sia l’art. 26 che l’art. 37 introducono, all’interno del testo, la variabile del reddito locatizio senza alcuna modificazione del criterio d’imputazione, che resta quella della titolarità del diritto reale. Cosa che rende sistematicamente impossibile estrapolare il reddito locatizio dal reddito fondiario e dalla sua disciplina, che infatti la Corte costituzionale, nella sentenza sopra riportata, ha ritenuto di dover armonizzare.
Quanto sopra detto appare confermato innanzi tutto dalla sentenza n. 19166 del 2003, richiamata dalla sentenza 2771/2016, che ha negato natura fondiaria al reddito locativo percepito dal promissario acquirente di un immobile solo in quanto non (ancora) titolare del diritto reale cui ha ritenuto è indissolubilmente legato il reddito fondiario (“La possibilità della percezione di un reddito effettivo difforme derivante dalla locazione del bene è prevista come ipotesi derogativa alla imposizione sulla base del reddito catastale ma presuppone sempre che la locazione sia riferibile a un soggetto titolare di uno dei diritti reali indicati nella norma”).
E poi esplicitamente affermato in cass., 20764/2006 (“In tema di imposte sui redditi, il reddito fondiario derivante dalla locazione di un immobile sottoposto a pignoramento concorre alla formazione del reddito del debitore esecutato, indipendentemente dalla percezione dei canoni, a norma dell’art. 23 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917“).
Nello stesso senso sembra potersi leggere la sentenza 15171/2009, che implicitamente comprende, fra i redditi fondiari, quelli percepiti, fino alla conclusione del procedimento per convalida di sfratto, in costanza di un contratto di locazione ad uso abitativo.
Sembra poi perfettamente in termini la sentenza 651/2012 (“In tema di imposte sui redditi, in base al combinato disposto dagli artt. 23 e 34 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, il reddito degli immobili locati per fini diversi da quello abitativo – per i quali opera, invece, la deroga introdotta dall’art. 8 della legge 9 dicembre 1988, n. 431 – è individuato in relazione al reddito locativo fin quando risulta in vita un contratto di locazione, con la conseguenza che anche i canoni non percepiti per morosità costituiscono reddito tassabile, fino a che non sia intervenuta la risoluzione del contratto o un provvedimento di convalida dello sfratto In tema di imposte sui redditi, in base al combinato disposto dagli artt. 23 e 34 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, il reddito degli immobili locati per fini diversi da quello abitativo – per i quali opera, invece, la deroga introdotta dall’art. 8 della legge 9 dicembre 1988, n. 431 – è individuato in relazione al reddito locativo fin quando risulta in vita un contratto di locazione, con la conseguenza che anche i canoni non percepiti per morosità costituiscono reddito tassabile, fino a che non sia intervenuta la risoluzione del contratto o un provvedimento di convalida dello sfratto“). E così ancora cass., 19240/2016 e, da ultimo, cass., 26447/2017.
Palesemente incongruo è il richiamo all’art. 10 della legge 27 luglio 2000, n. 212, trattandosi di norma che regola l’azione dell’amministrazione finanziaria e non la disciplina astratta dell’obbligazione tributaria che rispetta, come sopra si è detto, l’art. 53 della Costituzione.
Il rigetto dell’impugnazione implica il versamento del doppio contributo unificato, a norma dell’art. 13 – quater D.P.R. 115/’02.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle refusione delle spese in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese del presente giudizio, che liquida in € 1.800,00. Sussistono i presupposti perché il ricorrente sia tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.
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