CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 marzo 2018, n. 5728
Tributi – Accertamento – Riscossione – Cartella di pagamento – Dichiarazione dei redditi integrativa
Fatti di causa
S.F. impugnava la cartella di pagamento emessa, a seguito di controllo automatizzato, per complessivi euro 37.255,14, per Iva, Irpef ed Irap, nonché per ritenute alla fonte, per l’anno d’imposta 2001, in relazione a tributi dichiarati e non versati.
La contribuente evidenziava che l’iscrizione era stata determinata dall’erronea compilazione della dichiarazione dei redditi, poi rettificata con dichiarazione integrativa.
L’impugnazione era accolta dal giudice di primo grado. La sentenza era parzialmente riformata dal giudice d’appello limitatamente alle ritenute alla fonte, attesa la mancata impugnazione della cartella sul punto, con conferma delle restanti statuizioni.
L’Agenzia delle entrate ricorre per cassazione con tre motivi, cui resiste la contribuente con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Va disattesa, preliminarmente, l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dal controricorrente per tardiva impugnazione.
L’art. 38, d.lgs. n. 546 del 1992, non ha istituito un regime speciale per il processo tributario in ordine all’applicazione del termine lungo di impugnazione, impermeabile alle disposizioni transitorie di cui all’art. 58 della I. n. 69 del 2009: tale principio si desume dall’art. 62 del medesimo decreto, che fa espresso riferimento, per la disciplina del giudizio di cassazione in materia tributaria, alle norme del codice di procedura civile, così attribuendo prevalenza alle norme processuali ordinarie ed escludendo l’esistenza di un giudizio “tributario di legittimità” (Cass. n. 12642 del 19/05/2017, Rv. 644238).
Ne deriva che, trattandosi, nella specie, di giudizio instaurato anteriormente al 4 luglio 2009, è inapplicabile, per effetto dell’art. 58 cit., la riduzione a sei mesi del termine lungo.
2. Passando all’esame del ricorso, il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, d.P.R. n. 322 del 1998 e 38, d.P.R. n. 602 del 1973.
2.1. Il secondo mezzo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 36 bis, d.P.R. n. 600 del 1973.
2.2. I motivi – da esaminare unitariamente in quanto logicamente connessi – stigmatizzano, sostanzialmente, che il giudice d’appello abbia ritenuto emendabili dal contribuente gli errori commessi in dichiarazione nel termine di cui all’art. 38, d.P.R. n. 602 del 1973 e non, invece, in quello, già decorso, di cui all’art. 2, comma 8 bis, d.P.R. n. 322 del 1998 e, comunque, ammissibile la presentazione da parte del contribuente di dichiarazione integrativa per correggere errori od omissioni in proprio danno successivamente all’emissione di cartella esattoriale ex art. 36 bis cit.
2.3. I motivi non sono fondati.
2.4. Sulla questione, infatti, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 13378 del 30/06/2016, componendo un contrasto insorto, hanno affermato, in via generale, che “la possibilità di emendare la dichiarazione dei redditi, per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l’indicazione di un maggior reddito o, comunque, di un maggior debito d’imposta o di un minor credito, mediante la dichiarazione integrativa di cui all’art. 2 comma 8 bis, è esercitabile non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa ai periodo d’imposta successivo, con compensazione del credito eventualmente risultante. La possibilità di emendare la dichiarazione dei redditi conseguente ad errori od omissioni in grado di determinare un danno per l’amministrazione, è esercitabile non oltre i termini stabiliti dall’art. 43 del D.P.R. n. 600 del 1973. Il rimborso dei versamenti diretti di cui all’art. 38 del dpr 602/1973 è esercitabile entro il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data del versamento, indipendentemente dai termini e modalità della dichiarazione integrativa”.
La Corte, tuttavia, ha anche precisato che “il contribuente, indipendentemente dalle modalità e termini di cui alla dichiarazione integrativa prevista dall’art. 2 dpr 322/1998”, e dall’istanza di rimborso di cui all’art. 38 d.P.R. n. 602 del 1973, “in sede contenziosa, può sempre opporsi alla maggiore pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria, allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella redazione della dichiarazione, incidenti sull’obbligazione tributaria”.
2.5. L’arresto delle Sezioni Unite, dunque, pone in chiara evidenza che la dichiarazione dei redditi, in quanto dichiarazione di scienza, non è un elemento intangibile ma, di fronte alle richieste del Fisco, è suscettibile di emenda e ritrattazione, sì da influire sulla pretesa dell’erario.
Il contribuente, in altri termini, è sempre ammesso, in sede contenziosa, a provare che egli non ha giustificatamente versato la (maggiore) somma pretesa dall’Amministrazione finanziaria con la cartella esattoriale poiché l’originaria dichiarazione era viziata da un errore di fatto o di diritto (e, dunque, il presupposto impositivo non era sussistente), senza che rispetto a tale difesa siano configurabili decadenze di sorta.
Ciò vale, peraltro, esclusivamente quando l’opposizione miri a limitare o contrastare la pretesa fiscale che si sia tradotta nell’emissione di una cartella esattoriale o di altro atto impositivo, ma non anche per introdurre una nuova e contrapposta richiesta ovvero per far valere un credito da parte del contribuente.
È evidente infatti che il contribuente, autore di una dichiarazione inesatta a proprio danno, ove abbia dato seguito alla dichiarazione stessa, provvedendo a versare (in tutto o in parte) una somma più elevata rispetto a quella effettivamente dovuta, non può contrapporre, nella sede contenziosa, alla pretesa dell’Amministrazione l’esistenza di un diritto di rimborso ovvero di un credito per aver versato un importo erroneamente computato (v. anche Cass. n. 21730 del 20/09/2017; Cass. n. 21242 del 13/09/2017).
Depone in tal senso, del resto, il carattere impugnatorio del processo tributario, che ha ad oggetto esclusivamente il controllo della legittimità, formale e sostanziale, di uno degli specifici atti impositivi elencati nell’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992.
L’indagine sul rapporto tributario, quindi, è limitata al riscontro della consistenza della pretesa fatta valere con l’atto stesso, sicché è strutturalmente incompatibile con il processo tributario la possibilità di proporre una domanda riconvenzionale (v. Cass. n. 4145 del 20/02/2013; Cass. n. n. 5928 del 11/03/2010; Cass. n. 20516 del 22/09/2006), ancorché l’asserito diritto vantato dal contribuente possa rinvenire il suo fondamento sullo specifico rapporto tributario.
Tale situazione, peraltro, comporta, semplicemente, che il contribuente ha l’onere di presentare apposita istanza di rimborso ovvero di riconoscimento di un credito d’imposta (ovvero, mutatis mutandis, di chiedere in detrazione l’eventuale eccedenza Iva) secondo le specifiche modalità e procedure previste dalla normativa vigente (quali l’art. 38, d.P.R. n. 602 del 1973, l’art. 19, d.P.R. n. 633 del 1972, ovvero in relazione a specifiche previsioni quali l’art. 14, comma 5, tuir, nonché in via residuale l’art. 21, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992), con l’osservanza dei termini stabiliti a pena di decadenza, salva la possibilità, in ipotesi, di impugnare l’atto di diniego opposto dall’Erario.
2.6. Va pertanto affermato il seguente principio di diritto: “il contribuente che, nel redigere la dichiarazione fiscale, abbia riconosciuto a suo danno importi in misura superiore a quelli effettivi senza procedere anche al pagamento della maggiore imposta può, in sede giudiziale e senza limiti sostanziali o temporali, opporre alla pretesa dell’Amministrazione per l’omesso o insufficiente versamento che l’originaria dichiarazione era viziata da un errore di fatto o di diritto; ove, invece, all’erronea dichiarazione abbia anche fatto seguito, in tutto o in parte, il pagamento del maggior importo non dovuto, il contribuente è tenuto ad esperire le procedure di rimborso, nel rispetto delle modalità e dei termini di decadenza previsti, esclusa la possibilità di opporre, in giudizio, l’eventuale credito vantato per l’indebito pagamento“.
3. Il terzo mezzo denuncia insufficiente motivazione in ordine alle denunciate difformità degli importi tra la dichiarazione del 2002 e quella integrativa del 2006, asseritamente contestate dall’Ufficio in termini solo generici.
3.1. Il motivo è fondato.
3.2. Occorre precisare, preliminarmente, che, in applicazione delle regole generali sulla distribuzione dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c., spetta al contribuente che “ritratta” la propria dichiarazione provare il fatto impedivo della obbligazione tributaria (v. Cass. n. 27127 del 28/12/2016, Rv. 642379; Cass. n. 26550 del 21/12/2016, Rv. 642365).
3.3. Nella specie, la CTR, pur valutando, in coerenza con il principio sopra affermato, le ragioni dedotte dal contribuente, ha, tuttavia, riversato sull’Ufficio un onere di specifica contestazione ed ha affermato che «l’Ufficio lamenta una generica difformità di dati tra le due dichiarazioni … in mancanza di specifiche contestazioni in merito ai costi indicati con la rettifica, gli stessi devono essere considerati esistenti», incorrendo, in tal modo, in una palese insufficienza motivazionale (suscettibile di considerazione ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., vigente ratione temporis) sul fatto decisivo della prova del fatto impeditivo dell’obbligazione tributaria, incombente sul contribuente, che ne giustifica la cassazione.
4. La sentenza, in accoglimento del terzo motivo, va quindi cassata con rinvio, anche per le spese, innanzi alla Commissione tributaria regionale competente in diversa composizione per un nuovo esame.
P.Q.M.
In accoglimento del terzo motivo di ricorso, rigettati il primo ed il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia in diversa composizione per un nuovo esame.
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