CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 novembre 2018, n. 28676
Tributi locali – TARSU – Accertamento – Riscossione – Cartella di pagamento – Immobili – Costo smaltimento rifiuti – Superficie immobile posseduto – Principio comunitario “chi inquina paga”
Fatti rilevanti e ragioni della decisione
1.1 N. srl propone quattro motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. 3690/29/16 del 25 ottobre 2016, con la quale la commissione tributaria regionale della Sicilia, in riforma della prima decisione, ha ritenuto legittima la cartella di pagamento notificatale dal Comune di Palermo per Tarsu 2009 (classe tariffaria alberghi).
La commissione tributaria regionale, in particolare, ha ritenuto che: – non vi fossero i presupposti per la sollecitata rimessione pregiudiziale degli atti alla CGUE, ex articolo 267 TFUE, sulla conformità della disciplina nazionale Tarsu (artt. 65, 68, 69 d.lgs. 507/93) al principio UE del ‘chi inquina paga’, posto che tanto la disciplina legislativa interna quanto il regolamento del Comune di Palermo rispettavano, nella previsione di diverse categorie tariffarie a seconda del volume stimato di rifiuti prodotti, tale principio; – non vi fossero i presupposti per la, pure sollecitata, rimessione degli atti alla Corte Costituzionale per asserito contrasto della normativa Tarsu con i principi di cui agli articoli 3, 23 e 53 Cost., posto che l’articolo 68 cit. indicava criteri idonei a delimitare la discrezionalità dell’ente impositore, e che la commisurazione tariffaria a seconda delle diverse tipologie produttive di rifiuti rispondeva tanto al principio di eguaglianza e ragionevolezza, quanto a quello di capacità contributiva effettiva; – la competenza per la determinazione delle aliquote Tarsu spettasse alla giunta comunale e non al consiglio comunale, secondo quanto desumibile dall’articolo 42, co. 2^, lett. f) d.lgs. 267/00 (TUEL), il quale (diversamente da quanto previsto dall’articolo 32 della previgente legge 142/90 sull’ordinamento delle autonomie locali) attribuiva al consiglio la competenza per la istituzione e l’ordinamento dei tributi locali, ma con espressa esclusione della determinazione delle relative aliquote; rientranti nella competenza residuale della giunta comunale ex articoli 107, co. 1^ e 2^, e 48, co. 2^, TUEL; – legittimamente la delibera della giunta comunale di Palermo relativa alla annualità 2009 prevedesse una tariffa Tarsu per gli esercizi alberghieri notevolmente superiore a quella concernente le case di abitazione, costituendo dato di ‘comune esperienza’ la maggiore produzione di rifiuti dei primi rispetto alle seconde (come anche già stabilito dalla S.C.).
Resiste con controricorso il Comune di Palermo.
1.2 Con istanza ex articolo 376, co. 2^, cod.proc.civ., in data 2 novembre 2017, N. srl ha chiesto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite della corte di cassazione, assumendo un contrasto interpretativo interno alla sezione tributaria in ordine a due fondamentali questioni di diritto suscettibili di risoluzione di rilievo nomofilattico (Cass. sez.VI Trib. ord. n. 1640 del 20 gennaio 2017; Cass. sez.V Trib. ord. n. 15050 del 16 giugno 2017): a. il potere-dovere del giudice tributario di disapplicare, ex art. 7 d.lgs. 546/92, una delibera tariffaria Tarsu meramente riproduttiva di altra delibera concernente una precedente annualità, già dichiarata illegittima ed annullata erga omnes dal giudice amministrativo con sentenza passata in giudicato (come accaduto nella specie); b. l’individuazione dell’organo del Comune di Palermo (giunta o consiglio) competente a deliberare annualmente la tariffa unitaria Tarsu.
2.1 Con il primo motivo di ricorso N. srl lamenta – ex art. 360, 1^ co. n. 3 cod.proc.civ. – violazione e falsa applicazione dell’articolo 15 Dir. 2006/12/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 aprile 2006, nonché dell’articolo 14 Dir. 2008/98/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008. Per non avere la commissione tributaria regionale disposto il rinvio degli atti alla CGUE in sede di questione interpretativa pregiudiziale sulla conformità della disciplina nazionale Tarsu (artt. 65, 68 e 69 d.lgs. 507/93) al principio UE del ‘chi inquina paga’. Ancorché la CGUE si fosse già pronunciata in materia (in causa C-254/2008), affermando la conformità di una disciplina interna volta alla differenziazione tra categorie di utenti in ragione della produzione stimata di rifiuti, non altrettanto poteva dirsi con riguardo ad una normativa interna che, come quella di cui al d.lgs. 507/93, non ricollegasse la determinazione delle tariffe, per le varie categorie di utenti, a criteri obiettivi in rapporto diretto col costo del servizio, come appunto stabilito dalla CGUE.
2.2 Il motivo è infondato.
La decisione di non rimessione alla CGUE si pone in linea con l’orientamento di questa corte, la quale ha osservato che tale rimessione, costituente un obbligo per il giudice di ultima istanza, opera soltanto in presenza di determinati presupposti di natura interpretativa; sicché “non sussiste alcun diritto della parte all’automatico rinvio pregiudiziale alla CGUE ai sensi dell’art. 267 TFUE ogniqualvolta la Corte di cassazione non ne condivida le tesi difensive, bastando che le ragioni del diniego siano espresse, ovvero implicite laddove la questione pregiudiziale sia manifestamente inammissibile o manifestamente infondata” (Cass. 14828/18).
Con ord. 15041/17 questa corte ha inoltre affermato che il presupposto della rimessione va individuato, in particolare, nella sussistenza di un “dubbio interpretativo su una norma comunitaria, che non ricorre allorché l’interpretazione sia autoevidente, oppure il senso della norma sia già stato chiarito da precedenti pronunce della Corte, non rilevando, peraltro, il profilo applicativo di fatto, che é rimesso al giudice nazionale, a meno che non involga un’interpretazione generale ed astratta”.
Ora, non vi sono ragioni di disattendere tale indirizzo, del resto maturatosi (ord. da ultimo citata) proprio con specifico riguardo alla medesima questione qui dedotta. Là dove si è infatti affermato che la delibera Tarsu del Comune di Palermo di differenziazione della tariffa degli esercizi alberghieri da quella delle civili abitazioni deve ritenersi legittima, perché conforme al principio ‘chi inquina paga’, espresso nell’art. 15 della direttiva 2006/12/CE e nell’art. 14 della direttiva 2008/98/CE; disposizioni che, come già interpretate dalla CG, consentono al diritto nazionale, nell’osservanza del principio di proporzionalità, di differenziare il calcolo della tassa di smaltimento per categorie di utenti ed in ragione del diverso volume di rifiuti prodotti.
Va d’altra parte considerato che i presupposti della rimessione ex art. 267 TFUE sono già stati ritenuti mancanti da Cass. 2202/11 anche con specifico riguardo ai dubbi qui palesati dalla ricorrente, posto che: “in tema di TARSU, la disciplina contenuta nel d.lgs 15 novembre 1993, n. 507 sulla individuazione dei presupposti della tassa e sui criteri per la sua quantificazione non contrasta con il principio comunitario “chi inquina paga”, sia perché è consentita la quantificazione del costo di smaltimento sulla base della superficie dell’immobile posseduto, sia perché la detta disciplina non fa applicazione di regimi presuntivi che non consentano un’ampia prova contraria, ma contiene previsioni (v. art. 65 e 66) che commisurano la tassa ad una serie di presupposti variabili o a particolari condizioni”.
Tale pronuncia ha preso in esame, ritenendoli dirimenti in ordine all’esclusione della violazione del principio eurounitario del ‘chi inquina paga’, le sentenze CGUE 24.6.08 in causa C-188/07 e 16.7.09 in causa C-254/08 (quest’ultima, avente ad oggetto un rinvio pregiudiziale in una causa pendente dinanzi al TAR Campania, nella quale veniva contestata proprio la legittimità, per affermato contrasto con l’art. 15 della direttiva 2006/12/CE (ndr art. 15 della direttiva 2006/112/CE), della disciplina legislativa sulla Tarsu, nonché di norme di un regolamento comunale in base alle quali le imprese alberghiere sarebbero state tenute al versamento della tassa sui rifiuti in misura superiore ai privati).
Ebbene, nella valutazione di conformità della disciplina nazionale in materia rispetto al principio evincibile dall’art. 15 lett. a), della direttiva 2006/12 (ndr art. 15 lett. a), della direttiva 2006/112) (già desumibile dall’art. 11 della direttiva 75/442), la CG ebbe ad affermare (come recepito da Cass. cit.), che:
– è spesso difficile, persino oneroso, determinare il volume esatto di rifiuti urbani conferito da ciascun detentore;
– in tali circostanze, ricorrere a criteri basati sulla capacità produttiva dei detentori, calcolata in funzione della superficie dei beni immobili che occupano, nonché della loro destinazione e/o sulla natura dei rifiuti prodotti può consentire di calcolare i costi dello smaltimento e ripartirli tra i vari detentori;
– sotto tale profilo, la normativa nazionale che preveda, ai fini del finanziamento, una tassa calcolata in base ad una stima del volume dei rifiuti generato e non sulla base del quantitativo effettivamente prodotto non può essere considerata in contrasto con l’art. 15, lett. a), della direttiva 2006/12 (ndrart. 15, lett. a), della direttiva 2006/112);
– nella materia le autorità nazionali dispongono di un’ampia discrezionalità per quanto riguarda le modalità di calcolo della tassa;
– per quanto riguarda la differenziazione tra categorie di detentori, la stessa deve ritenersi ammessa, purché non venga fatto carico ad alcuni di costi manifestamente non commisurati ai volumi o alla natura dei rifiuti da essi producibili”.
Sicché, in definitiva, “il metodo di calcolo basato sulla superficie di immobile posseduto non è, di per sé, contrario al principio ‘chi inquina paga’ recepito dall’ art. 11 della direttiva 75/442. Il limite posto dalla Corte di Giustizia alla discrezionalità delle autorità nazionali costituisce attuazione del principio di proporzionalità, largamente applicato dalla giurisprudenza comunitaria in materia fiscale, secondo il quale non sono ammessi regimi d’imposizione i cui fatti costitutivi si fondano su presunzioni legali che non ammettono prova contraria. La Corte richiama, a titolo esemplificativo, la sentenza della Corte di Giustizia 17 luglio 1997 in causa C – 28/95, Leur Bloemr punti da 41 a 45”.
Posto tutto ciò, è dunque evidente come la valutazione di effettiva congruità e proporzionalità di una determinata tariffa comunale rispetto al volume ed alla tipologia del rifiuti, così come al costo del servizio, non integra questione interpretativa di portata generale, quanto questione di merito attinente alla fattispecie concreta; cosi da dover essere risolta dal giudice nazionale (anche in applicazione del su ricordato sistema interno di presunzione legale relativa) e non dalla CGUE in sede di rinvio interpretativo pregiudiziale.
3.1 Con il secondo motivo di ricorso N. srl lamenta – ex art. 360, 1^ co. n. 3 cod.proc.civ. – violazione e falsa applicazione dell’art. 7 d.lgs. 546/92, in rapporto agli articoli 13 LR Sicilia; 4 1.142/90 (recepita con LR Sicilia 48/91); 49 Statuto Comune di Palermo; 14 Regolamento Tarsu Comune di Palermo; 65 d.lgs. 507/93. Per non avere la commissione tributaria regionale considerato che: – la delibera GC Tarsu per l’anno 2009 (n.120/08) era meramente riproduttiva e confermativa (al pari di quelle degli anni immediatamente precedenti) della delibera GC Tarsu per l’anno 2006 (n. 165/2006); – quest’ultima delibera (comportante un aumento del 75% della tariffa applicata fino al 2005) era stata annullata per incompetenza (oltre che per eccesso di potere, stante la mancanza di istruttoria e di motivazione sui presupposti del consistente incremento tariffario), in quanto emanata dalla giunta e non dal consiglio comunale, dal TAR Sicilia con sentenza n. 1550/09, passata in giudicato per mancata impugnazione; – tale annullamento operava erga omnes e, inoltre, i suoi difetti erano suscettibili di essere estesi, mediante disapplicazione ex art. 7 cit., anche alle delibere successive meramente riproduttive, indipendentemente dal fatto che queste ultime si riferissero ad annualità d’imposta diverse; – come correttamente stabilito dal giudice amministrativo, la competenza in materia di determinazione tariffaria spettava al consiglio comunale, e non alla giunta, dal momento che in Sicilia, regione a statuto speciale, non trovava applicazione il TUEL (erroneamente richiamato dalla commissione tributaria regionale), bensì la disciplina su menzionata e, in particolare, l’articolo 49 dello statuto del Comune di Palermo, il quale assegnava alla giunta la competenza a procedere a variazioni tariffarie e di aliquota dei tributi comunali “entro i limiti assegnati dalla legge o dal consiglio comunale”, nonché l’articolo 14 lett.d) regolamento Tarsu del Comune di Palermo (delib.37/1997) che assegnava espressamente “al consiglio comunale la competenza esclusiva in ordine alla determinazione del fattore (compreso tra 0,5 ed 1) per esprimere il grado di copertura del costo del servizio, da statuire annualmente all’atto di approvazione delle tariffe unitarie”.
3.2 Il motivo è infondato sotto tutti i profili nei quali si articola.
Nel presente giudizio si controverte di una annualità Tarsu (2009, su delibera 2008) diversa da quella fatta oggetto dell’annullamento TAR Sicilia (2006); e quest’ultimo annullamento, pur essendo definitivo e pur avendo indubbia efficacia erga omnes in relazione alla annualità da esso considerata, non si estende alle delibere Tarsu (non impugnate) concernenti le annualità successive, quand’anche meramente riproduttive della delibera annullata.
Ricorre, anche in proposito, l’orientamento prevalente di questa corte, secondo cui (Cass. ord. 1979/18): “non può affermarsi la nullità della delibera Tarsu afferente l’anno 2010 sulla base del fatto che essa recepiva il contenuto della delibera adottata per l’anno 2006 che era stata annullata. Ciò in quanto l’adozione della delibera n. 121 del 29 giugno 2010 è frutto di una nuova volontà procedimentale che si concretizza per ogni anno solare di imposta, sicché ogni deliberazione tariffaria costituisce nuova regolamentazione della materia giuridicamente autonoma rispetto alle determinazioni assunte negli anni precedenti”. In termini è Cass. ord. 15050/17, la quale ha in motivazione osservato che “il primo motivo è infondato, essendo pacifico che l’impugnata cartella non abbia quale atto presupposto la delibera annullata (G.M. 165/2006), bensì una successiva (G.M. 120/2008), la quale ultima, a prescindere dal rapporto contenutistico con l’altra, è autonomamente idonea a sorreggere l’atto derivato”.
Tale indirizzo individua, nella specie, un’ipotesi di invalidità non caducante, atteso che la delibera Tarsu annullata non costituisce il presupposto delle delibere successive; con la conseguenza che queste ultime non vengono automaticamente travolte dall’annullamento giurisdizionale della prima, potendo venir meno solo all’esito di impugnativa, e di esplicita ed autonoma pronuncia giurisdizionale di annullamento.
La conclusione (già recepita, proprio in materia di delibera Tarsu, anche dal giudice amministrativo: Tar Sicilia 130/2011; CGA Sicilia 420/2006) non muta in considerazione della ripetitività di contenuto delle delibere Tarsu successive, dal momento che questa stessa ripetitività costituisce espressione di una rinnovata ed autonoma volontà provvedimentale generale di conferma, e non rappresenta una conseguenza dipendente e necessitata della delibera annullata (il che, del resto, è conforme a quanto stabilito dalla legge in ordine all’esigenza che le tariffe Tarsu vengano deliberate dal Comune di anno in anno).
Escluso che la delibera successiva possa ritenersi invalida per derivazione dalla delibera antecedente annullata, ovvero per effetto di propagazione temporale del giudicato esterno di annullamento (vertendosi, nella specie, in tema di invalidità derivata dell’atto amministrativo generale e non di durevolezza pluriennale dei presupposti fattuali d’imposta relativi ad uno specifico rapporto giuridico tributario), resta da valutare se l’annullamento della delibera antecedente possa – o addirittura debba – rilevare sul diverso piano della disapplicazione della delibera successiva da parte del giudice tributario, ex art. 7, 5^ co., d.lgs. 546/92.
Si premette che il potere-dovere del giudice tributario di disapplicare gli atti amministrativi costituenti il presupposto per l’imposizione è espressione del principio generale dell’ordinamento, contenuto nell’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E; ed è dettato dall’interesse, di rilevanza pubblicistica, all’applicazione in giudizio di tali atti solo se legittimi. Ne consegue che detto potere può, in effetti, essere esercitato – purché gli atti in questione siano stati investiti dai motivi di impugnazione dedotti dal contribuente in relazione all’atto impositivo impugnato – anche d’ufficio, ed indipendentemente dall’avvenuta impugnazione dell’atto avanti al giudice amministrativo; trovando esso limite esclusivamente nell’eventuale giudicato amministrativo diretto di affermata legittimità dell’atto (SSUU 6265/06, proprio in materia di delibere comunali di approvazione di tariffe della TARSU, ‘presupposte’ agli atti impositivi impugnati avanti al giudice tributario).
Ciò posto, la disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del giudice tributario
– disposta con effetto meramente incidentale – è purtuttavia anch’essa subordinata ad un vaglio originario ed autonomo della illegittimità dell’atto; facendo difetto, anche sotto questo profilo, qualsivoglia nesso di necessaria consequenzialità rispetto alla pronuncia invalidante eventualmente già resa, con riguardo ad un diverso e non impugnato atto amministrativo precedente, dal giudice amministrativo.
Ancorché Cass. sez. 6A Trib. ord. 1640/17 – con riguardo alla materia in esame – sia pervenuta a disapplicare la delibera Tarsu 2008 per effetto dell’annullamento giurisdizionale della medesima delibera relativa all’anno 2006, tale decisione è fondata, da un lato, sull’esclusione di qualsivoglia effetto espansivo da giudicato amministrativo esterno e, d’altro lato, sulla sola considerazione che la parte ricorrente aveva sostenuto l’illegittimità in via incidentale, dinanzi al giudice tributario, della delibera tariffaria successiva per la “medesima ragione di diritto posta a base dell’annullamento da parte del giudice amministrativo della precedente delibera”, il che stabiliva una diretta “correlazione tra il sollecitato potere di disapplicazione (…) e l’oggetto della specifica impugnazione da parte della contribuente”.
Sennonché, in diverse altre pronunce (anch’esse relative alla Tarsu Palermo) questa corte di legittimità ha ritenuto che tale correlazione costituisca elemento necessario, ma non sufficiente, per la disapplicazione dell’atto amministrativo ex art. 7 cit.; la quale muove pur sempre da una delibazione autonoma da parte del giudice tributario, e non da un automatismo di derivazione.
Ed è proprio nell’esercizio di tale autonoma delibazione che queste pronunce, come si vedrà, hanno escluso la disapplicazione delle delibere Tarsu successive a quella annullata, non ravvisando in esse – pur in presenza della già menzionata reiterazione di contenuto – il vizio di incompetenza (emanazione da parte della giunta invece che del consiglio comunale) posto a fondamento dell’annullamento ad opera del giudice amministrativo.
3.3 Il problema si sposta dunque sul ‘merito incidentale’ della dedotta illegittimità delle delibere tariffarie Tarsu successive; e l’orientamento di legittimità in materia (tra le altre, Cass. nn. 360/14, 8336/15, 913/16, 11959/16, 15150/17, 17497-8/17, 1979/18, 3187/18) è nel senso di attribuire alla giunta palermitana, e non al consiglio comunale, la competenza per l’emanazione di tali delibere.
Va premesso che, in base all’art. 42 lett. f) d.lgs 267/00 (TUEL), spetta al consiglio comunale (…) “f) l’istituzione e ordinamento dei tributi, con esclusione della determinazione delle relative aliquote; disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni e dei servizi”, dal che si evince, a contrario, che la fissazione delle aliquote tributarie spetta invece alla giunta comunale in quanto organo di competenza residuale.
Tuttavia in Sicilia (regione in cui, tra l’altro, l’organo di competenza residuale non è la giunta ex art. 48 TUEL, bensì il sindaco ex art. 13 LR 7/92) il TUEL non si applica, in quanto regione a statuto speciale che non lo ha recepito (art. 1, co.2^ TUEL).
In Sicilia continua ad applicarsi la legge sull’ordinamento delle autonomie locali n. 142/90, come recepita con legge regionale 48/91 (art. 1 letta)). In base allo statuto speciale della Regione Siciliana (approvato con RD Lgs. 455/46 conv.in l. Cost. 2/48) tale materia è infatti demandata alla potestà legislativa esclusiva della regione, con la conseguenza che le norme statuali hanno efficacia solo se richiamate con apposita legge regionale.
Ciò precisato (a dovuta rettifica dell’errore nel quale è in effetti incorsa la commissione tributaria regionale nella sentenza qui impugnata), conta che – pur nella vigenza della legge 142/90 cit. (art. 32, comma 2, lett. g)) – “la concreta determinazione delle aliquote delle tariffe per la fruizione dei beni e servizi (nella specie tariffe di diversificazione tra esercizi alberghieri e locali adibiti ad uso abitazione) è di competenza della giunta e non del consiglio comunale poiché il riferimento letterale alla ‘disciplina generale delle tariffe’ contenuto nella disposizione, contrapposto alle parole ‘istituzione e ordinamento’ adoperato per i tributi, rimanda alla mera individuazione dei criteri economici sulla base dei quali si dovrà procedere alla loro determinazione e, inoltre, i provvedimenti in materia di tariffe non sono espressione della potestà impositiva dell’ente, ma sono funzionali alla individuazione del corrispettivo del servizio da erogare, muovendosi così in un’ottica di diretta correlazione economica tra soggetto erogante ed utenza, estranea alla materia tributaria” (così, tra le altre già cit., Cass. 1979/18).
Non pare che a diversa conclusione si pervenga – per la città di Palermo – in considerazione dell’art. 49 dello statuto comunale, secondo il quale la giunta è competente, tra il resto, a procedere “a variazioni delle tariffe ed aliquote dei tributi comunali e dei corrispettivi dei servizi a domanda individuale entro i limiti indicati dalla legge o dal consiglio comunalene’ dell’art. 14 lett. d) del Regolamento Comunale Tarsu (adottato con delibera consiliare n. 37/97) il quale stabilisce che il consiglio fissi i “criteri di determinazione delle tariffe unitarie e relativi meccanismi di quantificazione”, prescrivendo in particolare che esso debba annualmente fissare, all’atto dell’approvazione delle tariffe unitarie della tassa da far valere per l’anno successivo, “il numero, compreso tra 0,5 ed 1, che esprime il grado di copertura del costo del servizio”.
I ‘limiti’ entro i quali deve estrinsecarsi l’attività determinativa della tariffa annuale trovano fondamento normativo statuale nell’art. 65 2^ co. d.lgs Tarsu 507/93, secondo cui le tariffe, per ogni categoria o sottocategoria omogenea, sono determinate ‘dal comune’ secondo ‘il rapporto di copertura del costo prescelto entro i limiti di legge’.
Ciò posto, non si ritiene (per le ragioni più volte sostenute dal su richiamato consolidato indirizzo) che la mancata fissazione di tali ‘limiti’ da parte del consiglio sia di per sé dirimente nel senso (quello qui dedotto ex art. 7 d.lgs. 546/92) della incompetenza della giunta in materia tariffaria. Né può rilevare, in diverso avviso, la circostanza meramente contingente che, successivamente alla delibera Tarsu in discussione, il consiglio comunale di Palermo sia poi effettivamente intervenuto (delib. 342/2010) – al solo fine di far cessare ogni residuo contenzioso su questo punto – nella indicazione del fattore di copertura.
Non va del resto taciuto, da ultimo, che l’indicazione del legislatore nazionale in materia è comunque poi radicalmente mutata mediante l’adozione di un opposto principio ispiratore dell’imposizione sui rifiuti, volto a far sì che la tariffa in materia consenta la integrale copertura dei costi di investimento e di esercizio del servizio di gestione dei rifiuti urbani (criterio introdotto nell’ordinamento dall’art. 49 d.lgs. 22/97 abolitivo della Tarsu, ancorché quest’ultimo tributo, come noto, abbia poi trovato ulteriore applicazione fin vista l’emanazione della disciplina esecutiva della TIA). Dal che si evince una chiara linea evolutiva della legislazione statuale nel senso del superamento del previgente sistema di copertura discrezionale dei costi del servizio (rispondente anche a scelte di indirizzo politico dell’ente locale demandate, in quanto tali, al consiglio comunale) a favore di un sistema tariffario più rigido, perché sempre improntato (per ragioni di interesse generale connesse al governo della fiscalità locale) a copertura integrale (fattore 1/1).
3.4 Da tutto quanto finora affermato discende, in primo luogo, che la decisione della commissione tributaria regionale qui censurata deve ritenersi – sul punto specifico della legittimità della delibera Tarsu dedotta in giudizio – corretta in diritto; ancorché la stessa necessiti di essere rettificata nella parte in cui ha fondato la competenza in materia tariffaria della giunta comunale di Palermo su un compendio normativo (TUEL) in realtà non applicabile, per le indicate ragioni, nella specie.
Discende altresì, in secondo luogo, l’insussistenza dei presupposti per la richiesta rimessione della causa alle Sezioni Unite di questa corte, sui due profili di asserito contrasto (sopra § 1.1).
Per quanto concerne la caducazione, ovvero disapplicazione, necessitata della delibera tariffaria in oggetto (sopra, § 3.2), già si è posto in evidenza come l’ordinanza della 6^ sez. Trib. 1640/17 non collimi con quello che può ben definirsi come orientamento di legittimità assolutamente predominante; così da costituire espressione di un indirizzo nettamente minoritario che trova dissonanza in varie pronunce, anche ad essa successive.
Per quanto concerne la competenza della giunta palermitana (sopra, § 3.3), non è neppure dato di riscontrare un vero e proprio contrasto interpretativo interno alla sezione, posto che l’orientamento nel senso della effettiva competenza di tale organo comunale appare del tutto consolidato. Ciò in considerazione del fatto che le varie pronunce che hanno invece affermato la competenza del consiglio comunale in materia di Tarsu, oltre che più risalenti di quelle sopra citate, sono state emesse con riguardo a fattispecie differenti da quella che ci occupa, perché relative a diversi comuni (non siciliani): v. Cass. 14376/10, Casalborgone; 23836/09, Ostuni; 21310/04, Ostuni; 16870/03, Avellino).
4.1 Con il terzo motivo di ricorso si deduce – ex art. 360, 1^ co. n. 3 cod.proc.civ. – violazione e falsa applicazione degli articoli 65, 68 e 69 d.lgs. 507/93, in relazione agli articoli 3 l. 241/90 e 7 legge 212/00. Per non avere la commissione tributaria regionale considerato che la delibera Tarsu 2009 era del tutto priva di criteri logici di determinazione qualitativa e quantitativa della tariffa; sicché l’applicazione di una tariffa agli alberghi di circa sei volte superiore a quella delle case di abitazione risultava arbitraria, contraria al principio del ‘chi inquina paga’ e, inoltre, del tutto scollegata dalla reale produzione di rifiuti (come anche evincibile sia dalla prodotta perizia asseverata commissionata dalla Federalberghi di Palermo, sia dalla equiparazione tariffaria tra alberghi e civili abitazioni operata da diversi comuni in Sicilia e nel resto d’Italia).
4.2 Il motivo è infondato.
Va, pure in proposito, richiamata la costante giurisprudenza di questa Corte (ord. 913/16 cit., con ulteriori richiami), secondo cui, in tema di TARSU, “è legittima la delibera comunale di approvazione del regolamento e delle relative tariffe in cui la categoria degli esercizi alberghieri venga distinta da quella delle civili abitazioni, ed assoggettata ad una tariffa notevolmente superiore a quella applicabile a queste ultime. Infatti, la maggiore capacità produttiva di un esercizio alberghiero rispetto ad una civile abitazione costituisce un dato di comune esperienza, emergente da un esame comparato dei regolamenti comunali in materia ed assunto quale criterio di classificazione e valutazione quantitativa della tariffa anche dal d.lgs. 5 febbraio 1997, n 22. Senza che assuma alcun rilievo il carattere stagionale dell’attività, il quale può eventualmente dar luogo all’applicazione di speciali riduzioni d’imposta, rimesse alla discrezionalità dell’ente impositore” (Cass. n. 4797/14, Cass. n. 8336/15).
Si tratta di principio già affermato anche in relazione alle tariffe applicate proprio dal Comune di Palermo alle strutture alberghiere; in ordine alle quali si è aggiunto che gli “elementi di riscontro della legittimità della delibera non vanno, d’altronde, riferiti alla differenza tra le tariffe applicate a ciascuna categoria classificata, ma alla relazione tra le tariffe ed i costi del servizio discriminati in base alla loro classificazione economica” (Cass. ord. 11655/09; così Cass. ord. 15861/11).
Rileva infine, a disattendere quanto affermato dalla ricorrente in ordine alla mancata esplicitazione in atto dei parametri logici e fattuali adottati dalla giunta nella determinazione tariffaria, che: “in tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, non è configurabile alcun obbligo di motivazione della delibera comunale di determinazione della tariffa di cui all’art. 65 del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, poiché la stessa, al pari di qualsiasi atto amministrativo a contenuto generale o collettivo, si rivolge ad una pluralità indistinta, anche se determinabile ‘ex post’, di destinatari, occupanti o detentori, attuali o futuri, di locali ed aree tassabili” (Cass. n. 7044/14; così Cass. 22804/06 e, più recentemente, Cass. 1979/18 e 3187/18 cit.).
5.1 Con il quarto motivo di ricorso si ripropone la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 68 d.lgs. 507/93 in relazione agli articoli 3, 23 e 53 Cost., respinta in maniera erronea e contraddittoria dalla commissione tributaria regionale (secondo la quale l’indeterminatezza dei parametri tariffari avrebbe, al più, colpito il regolamento comunale e non la norma di legge). Diversamente da quanto affermato dal giudice di merito, il regime tariffario in questione doveva invece ritenersi sia lesivo del principio di uguaglianza impositiva (non sussistendo ragioni di diversificazione tra gli alberghi e le case di civile abitazione), sia in contrasto con la riserva di legge in materia e con il principio di capacità contributiva.
5.2 La questione di legittimità costituzionale appare manifestamente infondata in considerazione delle già dedotte ragioni a sostegno sia della non irragionevole diversificazione tariffaria a seconda delle categorie di utenza, sia delle prerogative delegate ai comuni dalla legge istitutiva del tributo, sia – non ultimo – della presenza, nella disciplina di legge censurata, di presunzioni meramente relative volte a consentire al contribuente di allegare e provare la non rispondenza della tassa pretesa alla effettività quali-quantitativa dei rifiuti prodotti.
Da un lato – la disciplina dei presupposti costitutivi dell’imposizione deriva dalla legge statale cui è riservata e non dalla disciplina secondaria dell’ente locale (viceversa mirata sull’individuazione della tariffa in rapporto ai costi economici di smaltimento), e – dall’altro – è sempre ammessa la possibilità, per il contribuente, di fornire la prova dei requisiti della esenzione, ovvero riduzione dell’imposta, in ragione della concreta destinazione delle superfici e della eventualmente assente o minore produttività di RSU.
Il che consente di adeguare il rapporto impositivo alla concretezza della fattispecie, e di escludere la paventata disparità di trattamento tra categorie o sottocategorie di utenza (Cass. 17497/17 ed altre).
P.Q.M.
– rigetta il ricorso;
– condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 2.200,00, oltre rimborso forfettario spese generali ed accessori di legge;
– v.to l’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dalla L. n. 228 del 2012;
– dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale.
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