CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 aprile 2018, n. 8777
Dipendenti degli enti pubblici – Ricalcolo dell’indennità di buonuscita – Inclusione di tutti gli emolumenti fissi e continuativi – Riserva facoltativa d’impugnazione – Mancata o tardiva esplicitazione della riserva – Decadenza della sola impugnazione differita di quel provvedimento
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Milano, pronunciando sulle sentenze non definitiva n. 63/2010 del 10.2.2010 e definitiva n. 80/2010 del 6.3.2010 emesse dal Tribunale di Como, in accoglimento dell’appello proposto dall’INPS, ha respinto le domande degli ex dipendenti dell’Istituto aventi ad oggetto il ricalcolo dell’indennità di buonuscita con inclusione di tutti gli emolumenti fissi e continuativi percepiti mensilmente e la condanna dell’INPS al pagamento delle differenze specificate nei rispettivi atti.
2. La Corte di appello ha fatto applicazione dell’orientamento interpretativo di cui alle sentenze n. 7154 e 7158 del 2010 le Sezioni Unite della Corte di cassazione che, risolvendo un contrasto insorto nella giurisprudenza della Sezione Lavoro, hanno enunciato il principio secondo cui, in tema di base di calcolo del trattamento di quiescenza o di fine rapporto spettante ai dipendenti degli enti pubblici del c.d. parastato, l’art. 13 della legge 20 marzo 1975 n. 70, di riordinamento di tali enti e del rapporto di lavoro del relativo personale, detta una disciplina del trattamento di quiescenza o di fine rapporto (rimasta in vigore, pur dopo la contrattualizzazione dei rapporti di pubblico impiego, per i dipendenti in servizio alla data del 31 dicembre 1995 che non abbiano optato per il trattamento di fine rapporto di cui all’art. 2120 cod. civ.), non derogabile neanche in senso più favorevole ai dipendenti, costituita dalla previsione di un’indennità di anzianità pari a tanti dodicesimi dello stipendio annuo in godimento quanti sono gli anni di servizio prestato, lasciando all’autonomia regolamentare dei singoli enti solo l’eventuale disciplina della facoltà per il dipendente di riscattare, a totale suo carico, periodi diversi da quelli di effettivo servizio. Il riferimento quale base di calcolo allo stipendio complessivo annuo ha valenza tecnico-giuridica, sicché deve ritenersi esclusa la computabilità di voci retributive diverse dallo stipendio tabellare e dalla sua integrazione mediante scatti di anzianità o componenti retributive similari e devono ritenersi abrogate o illegittime, e comunque non applicabili, le disposizioni di regolamenti come quello dell’Inps, prevedenti, ai fini del trattamento di fine rapporto o di quiescenza comunque denominato, il computo in genere delle competenze a carattere fisso e continuativo.
3. Per la cassazione di tale sentenza gli originari ricorrenti hanno proposto ricorso affidato a tre motivi. Resiste l’INPS con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con i primi due motivi, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 340 cod. proc. civ. con riferimento agli artt. 326 e 327 cod. proc. civ. e vizio di motivazione, si censura la sentenza di appello per il mancato rilievo della inammissibilità del gravame. Si deduce che Corte distrettuale aveva omesso di considerare che l’Inps aveva impugnato unitamente le sentenze, non definitiva e definitiva, senza avere fatto riserva di appello avverso la prima e senza impugnare questa separatamente. Si sostiene che la mancata riserva di appello, mai effettuata – come comprovato dai verbali di causa successivi alla pronuncia del dispositivo della sentenza parziale, trascritti nel ricorso per cassazione -, aveva comportato il passaggio in giudicato della sentenza non definitiva, rilevabile alla data dell’udienza del 7.3.2013, fissata per la trattazione del giudizio di appello. Si sostiene che, solo ove fosse stata presentata riserva di appello, l’Inps avrebbe potuto impugnare con unico atto entrambe le sentenze e proporre un’unica impugnazione differita all’esito della pronuncia definitiva.
2. Il terzo motivo denuncia omessa pronuncia sull’eccezione di incostituzionalità dell’art. 13 L. n. 70/75, come interpretato dalla sentenza delle SS.UU. n. 7154/2010. La Corte di appello avrebbe dovuto motivare in ordine alle deduzioni svolte da parte appellata, mentre nulla di tutto ciò risulta dalla motivazione della sentenza impugnata.
3. Il ricorso è infondato.
4. Quanto ai primi due motivi, va rilevato che nel sistema di riserva facoltativa d’impugnazione contro sentenza non definitiva, la mancata o tardiva esplicitazione della riserva comporta solo la decadenza dall’impugnazione differita di quel provvedimento, ma non ne preclude quella immediata, che deve avvenire nel rispetto dei termini ordinari (breve o lungo, a seconda che la sentenza sia stata, o meno, notificata dalla parte vittoriosa) ex artt. 325 e 327 cod. proc. civ. (Cass. nn. 2188 del 2016, 3807 del 1998, 5737 del 1990).
5. Il ricorso per cassazione muove da un’erronea interpretazione dell’art. 340 cod. proc. civ., sostanzialmente sovrapponendo le due distinte nozioni di impugnazione immediata e di impugnazione differita. Difatti, esso afferma che la parte soccombente che non faccia riserva di impugnare la sentenza non definitiva entro il termine individuato dall’art. 340 cod. proc. civ. (ovvero “entro il termine per appellare e, in ogni caso, non oltre la prima udienza….successiva alla comunicazione”) decade non solo dal potere di proporre il gravame differito, ma anche dalla possibilità di proporlo nei termini ordinari stabiliti (per l’impugnazione immediata) dagli artt. 325 e 327 cod. proc. civ..
6. Al contrario, come ripetutamente affermato da questa Corte, la mancata o tardiva esplicitazione della riserva comporta solo la decadenza dall’impugnazione differita, ma non preclude l’impugnazione immediata della sentenza non definitiva, che deve avvenire nel rispetto dei termini (breve o lungo, a seconda che la sentenza sia stata o meno notificata dalla parte vittoriosa) di cui agli articoli 325 e 327 cod. proc. civ. (cfr. sent. citate).
7. Dunque, la mancata formulazione della riserva di appello non comporta la decadenza ove la sentenza non definitiva venga impugnata nei termini, come è avvenuto nella vicenda in esame. Dalla stessa narrativa processuale riportata nel ricorso per cassazione risulta che l’INPS impugnò (anche) la sentenza non definitiva n. 63/2010 con ricorso depositato nella Cancelleria della Corte di appello di Milano in data 14.5.2010. Poiché non si evince dal ricorso per cassazione, né dalla pronuncia ora impugnata che la sentenza non definitiva di primo grado fosse stata notificata all’INPS, soccombente, l’Istituto medesimo ai sensi dell’art. 327 cod. proc. civ. (nel testo, applicabile ratione temporis, non ancora novellato dalla Legge n. 69/09), poteva appellarla entro il termine di un anno dalla sua pubblicazione. Tale termine non era ancora spirato alla data del deposito del ricorso in appello, per cui la Corte del merito ha correttamente (ancorché implicitamente) escluso che l’Inps fosse decaduto dall’impugnazione.
8. Il terzo motivo è inammissibile. La questione di legittimità costituzionale di una norma, in quanto strumentale rispetto alla domanda che implichi l’applicazione della norma medesima, non può costituire oggetto di un’autonoma istanza rispetto alla quale, in difetto di esame, sia configurabile un vizio di omessa pronuncia, ovvero (nel caso di censure concernenti le argomentazioni svolte dal giudice di merito) un vizio di motivazione, denunciabile con il ricorso per cassazione: la relativa questione è infatti deducibile e rilevabile nei successivi stati e gradi del giudizio che sia validamente instaurato, ove rilevante ai fini della decisione (Cass. n. 26319 del 2006, n. 17224 del 2010).
9. In ogni caso, a volere interpretare il motivo come diretto a riproporre la questione in forma autonoma, questa Corte ha già ritenuto manifestamente infondate analoghe censure con la sentenza h. 4749 del 2011. Con tale pronuncia è stato affermato che non possono addursi dubbi di legittimità costituzionale in ordine alla soluzione offerta da S.U. n. 7154 del 2010. La motivazione di tale sentenza è da intendersi qui richiamata ex art. 118 disp. att. cod. proc. civ., in quanto integralmente condivisa dal Collegio.
10. Tale sentenza, che ha pure argomentato in ordine alle sentenze della Corte Cost., nn. 366/2006, 470/2002 368/1999, 15/1995, non è stata in alcun modo considerata da parte ricorrente, seppure il ricorso per cassazione sia stato proposto (nel 2013) ben dopo la sua pubblicazione.
11. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
12. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte dei ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi e in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.