CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 dicembre 2018, n. 31877
Rapporto di lavoro – Mobbing – Configurabilità – Sussistenza di reiterati comportamenti vessatori e persecutori – Prova
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Reggio Calabria, con sentenza del 21.1.2014, confermando la pronuncia del Tribunale della medesima sede, ha respinto la domanda di G.M. di accertamento di una condotta di mobbing e di condanna del datore di lavoro A.B. s.p.a. al conseguente risarcimento del danno.
2. La Corte di appello ha rilevato che il materiale istruttorio aveva smentito ogni volontà persecutoria nonché qualsiasi trattamento differenziato del M. rispetto agli altri dipendenti adibiti alla stessa mansione di saldatore.
3. Avverso questa pronuncia ricorre il lavoratore per cassazione prospettando tre motivi di ricorso. La società resiste con controricorso.
Ragioni della decisione
4. Con il primo motivo il ricorrente denunzia violazione degli artt.1218, 2087, 2697 cod.civ. (ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato il criterio di riparto degli oneri probatori, dovendo limitarsi – il lavoratore – a provare la sussistenza di reiterati comportamenti vessatori e persecutori (ampiamenti dedotti nel ricorso introduttivo del giudizio) e spettando al datore di lavoro provare l’insussistenza di comportamenti colposi.
5. Con il secondo motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione (ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, effettuato un errata valutazione dei fatti dedotti dal lavoratore.
6. Con il terzo motivo di ricorso si deduce violazione degli artt. 2730 cod.civ. e 219 cod.proc.civ. (ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, attribuito valore confessorio alla missiva del 5.12.2007 dei legali del lavoratore.
7. Il primo motivo non è fondato.
Questa Corte ha affermato che, per la configurabilità del mobbing lavorativo debbono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (v. da ultimo Cass. nn. 2142/2017, 158/2016, 1258/2015, 17698/2014, 18836/2013).
8. La Corte distrettuale ha correttamente respinto la domanda non avendo ravvisato la ricorrenza di tutti gli elementi che caratterizzano il fenomeno del mobbing, ed avendo accertato che “ogni volontà persecutoria è smentita proprio dai testi i quali hanno descritto condizioni comuni a tutti gli operai addetti alle medesime lavorazioni del M.” (saldatore), aggiungendo che il lavoratore-appellante non ha impugnato la statuizione del giudice di primo grado circa la mancata prova “di altro comportamento persecutorio e dell’isolamento del Melito da parte del datore di lavoro e dei suoi colleghi”.
9. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso sono inammissibili.
Secondo il novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ. (come interpretato dalle Sezioni Unite n. 8053/2014), il sindacato sulla congruità della motivazione è configurabile soltanto qualora manchi del tutto la motivazione oppure formalmente esista come parte del documento, ma le argomentazioni siano svolte in modo “talmente contraddittorio da non permettere di individuarla” mentre la sentenza impugnata si presenta comunque immune da tali vizi logico-formali, essendosi dato ampiamente ed esaustivamente conto dell’insussistenza dei requisiti che connotano il fenomeno del mobbing alla luce degli elementi probatori, di genesi testimoniale e documentale, raccolti in giudizio.
La censura di cui al terzo motivo, infine, oltre ad attenere a un elemento di prova richiamato solamente ad adiuvandum dalla Corte distrettuale (e quindi non decisivo), è prospettata con modalità non conformi al principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, secondo cui parte ricorrente avrebbe dovuto, quantomeno, trascrivere nel ricorso il contenuto della missiva del 5.12.2007 scritta dai difensori del M., fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi solo così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto a presidio del suddetto principio dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (Cass. 12 febbraio 2014, n. 3224; Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726).
10. In sintesi, il ricorso va rigettato e le spese di lite sono regolate secondo il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
11. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.