CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 dicembre 2021, n. 39416
Tributi – Accertamento – Redditi di capitale – Utili di esercizio di società lussemburghese – Raddoppio dei termini di accertamento – Scudo fiscale
Fatti di causa
La controversia trae origine dall’impugnazione, da parte del rag. A.B., di cinque avvisi di accertamento, tutti notificatigli in data 30 aprile 2013 dall’Agenzia delle Entrate – D.P. 1 di Milano – relativi alle annualità 2004, 2006, 2007, 2008 e 2009, con i quali l’Ufficio accertò a carico del B. un reddito da capitale non dichiarato, rispettivamente negli importi di: a) euro 1.538.333,00 per l’anno 2004; b) euro 26.378.991,60 per il 2006; c) euro 18.879.170,74 per il 2007; d) euro 5.074.041,60 per il 2008; e) euro 4.452.934,25 per l’anno 2009, importi corrispondenti agli utili di esercizio quali emergenti, per gli anni sopra indicati, dai bilanci della società lussemburghese C. S.A., interamente partecipata dal B.
L’Ufficio, recependo le conclusioni del processo verbale di constatazione in data 30 dicembre 2012 redatto dalla Guardia di Finanza e preliminarmente disconoscendo gli effetti preclusivi dell’attività accertatrice connessi con la dichiarazione riservata presentata dal contribuente nel 2009 ai sensi del d.l. n. 78/2009 (c.d. scudo fiscale), contestò che la C. S.A. fosse stata “fittiziamente interposta” nel possesso di immobilizzazioni finanziarie (partecipazioni in società italiane, lussemburghesi e spagnole), conseguentemente attribuite direttamente al B. e come tali trattate sia ai fini delle imposte dirette che del monitoraggio relativamente al possesso di capitali all’estero.
La Commissione tributaria provinciale (CTP) di Milano, riuniti i ricorsi proposti dal contribuente, li accolse, in particolare sottolineando come non potesse essere condivisa la tesi dell’interposizione fittizia di cui agli atti impositivi, essendo state inconfutabilmente accertate l’esistenza e l’operatività della società lussemburghese.
Avverso la sentenza di primo grado ad essa sfavorevole l’Agenzia delle entrate interpose appello, che la Commissione tributaria regionale (CTR) della Lombardia, con sentenza n. 3956/32/2015, depositata il 18 settembre 2015, non notificata, respinse nel merito, dopo avere espressamente disatteso l’eccezione preliminare d’inammissibilità dell’appello proposto dall’Amministrazione finanziaria, formulata dal contribuente, per avere l’Ufficio mutato, secondo l’appellato, le ragioni poste a base degli avvisi di accertamento.
La CTR, nel rigettare il gravame dell’Ufficio, affermò che: a) per le annualità 2004, 2006 e 2007 era intervenuta decadenza dell’Ufficio dall’azione di accertamento, non risultando applicabile la disciplina sul c.d. raddoppio dei termini di cui all’art. 43, terzo comma, del d.P.R. n. 600/1973, nella formulazione vigente ratione temporis; b) l’operatività dello scudo fiscale conseguito alla dichiarazione riservata di rientro presentata dal B. nel 2009 determinava l’effetto preclusivo dell’azione accertatrice; c) la pronuncia di primo grado andava infine confermata anche laddove aveva ritenuto l’inesistenza della contestata interposizione, ex art. 37, terzo comma, del d.P.R. n. 600/1973, della C. S.A.
Avverso la summenzionata sentenza della CTR della Lombardia l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, cui resiste il contribuente con controricorso, spiegando altresì ricorso incidentale, affidato ad un solo motivo.
Fissata la trattazione del ricorso per l’udienza pubblica del 15 ottobre 2021, essa si svolge in presenza, avendo parte controricorrente formulato tempestiva richiesta di discussione orale, debitamente comunicata alla difesa erariale, che non ha presenziato alla pubblica udienza.
Il controricorrente ha altresì depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso principale l’Agenzia delle entrate denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 43, terzo comma, del d.P.R. n. 600/1973, introdotto dall’art. 37, comma, 24, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla l. 4 agosto 2006, n. 248, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., lamentando l’erroneità della pronuncia impugnata nella parte in cui ha affermato l’intervenuta decadenza dell’Ufficio dall’esercizio dell’azione di accertamento per le annualità 2004, 2005 e 2006 sulla base di argomentazioni (di seguito esplicitate in dettaglio sub par. 6), tutte in contrasto con la norma indicata in rubrica così come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità a seguito della sentenza della Corte costituzionale 25 luglio 2011, n. 247, resa in relazione all’analoga disciplina, in tema di IVA, di cui all’art. 57, terzo comma, del d.P.R. n. 633/1972, come introdotto dal citato d.l. n. 223/2006 (art. 37, comma 25).
2. Con il secondo motivo l’Agenzia delle entrate denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 13 bis del d.l. n. 78/2009 e 12, 13 e 14, del d.l. n. 350/2001, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto l’operatività della dichiarazione riservata resa nel 2009 dal contribuente, ai fini del prodursi dell’effetto preclusivo sull’accertamento, senza rilevare la mancanza di qualunque prova in punto di corrispondenza tra le somme oggetto della dichiarazione riservata, presentata ai fini del rimpatrio dei capitali detenuti all’estero e le somme che, in base ai controlli effettuati dall’Amministrazione finanziaria, risultino effettivamente percepite dal contribuente nelle annualità interessate.
3. Con il terzo motivo l’Agenzia delle entrate lamenta violazione dell’art. 37, terzo comma, del d.P.R. n. 600/1973 e falsa applicazione degli artt. 1414 e 2332 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., nella parte in cui la sentenza impugnata ha negato l’esistenza dell’interposizione contestata dall’Ufficio in ragione della formale esistenza della C. S.A.
4. Con il quarto ed ultimo motivo di ricorso principale l’Amministrazione finanziaria lamenta omesso esame di fatti decisivi per il giudizio su cui vi è stata discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., con riferimento alle ulteriori circostanze fattuali addotte dall’Ufficio riguardo all’interposizione della C. S.A. come schermo tra il B. ed il fisco, aventi ad oggetto: a) il fatto che la C. S.A. non solo fosse di proprietà del B., ma era anche diretta dallo stesso, coloro che comparivano come amministratori della società essendo meri prestanome; b) il fatto che la delibera di distribuzione dei dividendi della società del 2011 fosse solo un mezzo per giustificare la mancata distribuzione degli utili per le annualità precedenti, ma che alla stessa non avesse corrisposto alcun effettivo spostamento patrimoniale, essendo stati detti utili imputati ad un trust costituito in frode alla legge (il The 21 december Trust).
5. Con l’unico motivo di ricorso incidentale il contribuente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 345 cod. proc. civ. e 57 del d. lgs. n. 546/1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., nella parte in cui il giudice tributario di secondo grado ha disatteso l’eccezione d’inammissibilità del gravame dell’Ufficio formulata da esso contribuente, pur dando atto dell’intempestività di taluni rilievi addotti dall’Amministrazione finanziaria con il ricorso in appello, in ragione del fatto che il contribuente avesse comunque «avuto ampia possibilità di difesa per tutti i rilievi, ancorché intempestivi, mossi dall’Agenzia delle entrate».
6. Nell’esame del primo motivo di ricorso principale occorre premettere che la sentenza impugnata ha ritenuto nella fattispecie in esame essersi verificata la decadenza dell’Amministrazione finanziaria dall’esercizio del potere accertativo con riferimento alle annualità 2004, 2006 e 2007, stante l’affermata inoperatività della disciplina in tema di c.d. raddoppio dei termini, per le seguenti ragioni: a) la decadenza relativamente all’anno d’imposta 2004 era conseguente alla notifica dell’avviso di accertamento in data 30 aprile 2013, successivamente, quindi, allo spirare, alla data del 31 dicembre 2009 del termine ordinario per l’accertamento medesimo, nonché all’essersi alla data della notifica dell’atto impositivo, già consumata la prescrizione edittale della fattispecie penale; b) ugualmente l’esercizio dell’azione accertativa doveva ritenersi tardivo per gli anni 2006 e 2007, essendo la notifica degli avvisi di accertamento avvenuta dopo la scadenza del termine ordinario (rispettivamente al 31 dicembre 2011 per l’anno 2006 ed al 31 dicembre 2012 per il 2007). Non poteva, in ogni caso, ai fini dell’operatività del raddoppio dei termini, prescindersi dall’inoltro della denuncia, non essendo sufficienti, diversamente da quanto argomentato dall’Ufficio, la mera perseguibilità in astratto del reato ipotizzabile richiedente l’obbligo della relativa comunicazione ex art. 331 cod. proc. civ.; c) detta conclusione è in linea con la disciplina del raddoppio dei termini delineata dalla legge delega fiscale n. 23/2014, che, all’art. 8, comma
2, ha esplicitamente previsto che il raddoppio di termine per l’accertamento possa essere utilizzato solo attraverso la presentazione della denuncia penale prima dello spirare del termine per l’accertamento.
6.1. Dette affermazioni, come rilevato dall’Amministrazione finanziaria nel primo motivo di ricorso, si pongono in contrasto con i principi affermati in materia dalla giurisprudenza di questa Corte, in linea con la nota sentenza della Corte costituzionale n. 247 del 25 luglio 2011, resa in relazione all’analoga previsione, in tema di accertamento ai fini IVA, dell’art. 57, terzo comma, del d.P.R. n. 633/1972, quale inserito dall’art. 37, comma 25, del succitato d.l. n. 223/2006, convertito con modificazioni dalla l. n. 248/2006.
Trattandosi di avvisi di accertamento già notificati, relativi a periodi d’imposta anteriori a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, su cui non incidono le modifiche introdotte dall’art. 1, commi da 130 a 132, della l. n. 208/2015 (cfr., tra le altre, Cass. sez. 6-5, ord. 19 dicembre 2019, n. 33793), la sentenza impugnata si scontra con il principio di diritto più volte affermato da questa Corte (cfr., ex multis, Cass. sez. 5, ord. 2 luglio 2020, n. 13481; Cass. sez. 6-5, ord. 29 giugno 2019, n. 17856; Cass. sez. 6-5, ord. 30 maggio 2016, n. 11171), che va ulteriormente ribadito in questa sede, secondo cui, in tema di accertamento tributario, «il raddoppio dei termini previsto dagli artt. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, nei testi applicabili “ratione temporis”, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte cost. nella sentenza n. 247 del 2011, sicché, ove il contribuente denunci il superamento dei termini di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria, deve contestare la carenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, non potendo mettere in discussione la sussistenza del reato, il cui accertamento è precluso al giudice tributario». Ciò comporta che non rileva neppure l’eventuale prescrizione del reato, poiché ciò che interessa è solo l’astratta configurabilità di un’ipotesi di reato, atteso il regime di doppio binario tra giudizio penale e giudizio tributario (cfr. Cass. sez. 6-5, ord. 11 aprile 2017, n. 9322).
6.1.1. Né è ostativa all’applicazione della disciplina in tema di raddoppio dei termini la circostanza che, per quanto riguarda l’anno 2004, l’accertamento sia riferito ad annualità anteriore alla modifica, apportata all’allora art. 43, terzo comma, del d.P.R. n. 600/1973, dall’art. 37, comma 24, del d.l.n. 223/2006, convertito, con modificazioni, nella l. n. 248/2006.
Si è infatti osservato, dovendo prestarsi al principio ulteriore adesione, che «[i]n tema di accertamento tributario, i termini previsti dagli artt. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 per l’IRPEF e 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 per l’IVA, come modificati dall’art. 37, comma 24, del d.l. n. 223 del 2006, conv. con modif. dalla l. 248 del 2006, nella versione applicabile “ratione temporis”, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano sorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche con riferimento alle annualità d’imposta anteriori a quella pendente al momento dell’entrata in vigore (4 luglio 2006) del predetto decreto, tanto derivando non dalla natura retroattiva della novella, ma, secondo la lettura di tali disposizioni data dalla sentenza della Corte costituzionale n. 247 del 2011, dalla circostanza che, stabilendo il prolungamento dei termini non ancora scaduti alla data dell’entrata in vigore del detto decreto, essa incide necessariamente (protraendoli) sui termini di accertamento delle violazioni che si assumono commesse prima di tale data, nel rispetto del principio cristallizzato dall’art. 11, comma 1, disp. prel. al c.c.» (cfr. Cass. sez. 5, ord. 30 ottobre 2018, n. 27629).
6.1.2. Giova ancora ricordare, segnatamente in relazione a quanto si avrà poi modo di precisare sub 8 e relativi sottoparagrafi, riguardo alla specifica contestazione di condotta elusiva di cui agli atti impositivi impugnati, che si è recentemente ancora chiarito che il c.d. raddoppio dei termini di cui all’art. 43, terzo comma, del d.P.R. n. 600/1973, nella formulazione applicabile ratione temporis, opera in presenza di seri indizi, con conseguente obbligo di denuncia penale, del reato di dichiarazione infedele, integrabile anche da condotte elusive a fini fiscali, purché riconducibili a quelle previste dagli artt. 37, comma 3 e 37 bis del d.P.R. n. 60071973, richiedendo la fattispecie di cui all’art. 4 del d. lgs. n. 74/2000 la mera indicazione, anche senza l’uso di mezzi fraudolenti, di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo ed elementi passivi fittizi quando ricorrano le altre condizioni ivi previste e si superino le relative soglie di punibilità (cfr. Cass. sez. 5, ord. 28 aprile 2021, n. 11156).
6.2. Rispetto ai suddetti principi, le rationes decidendi dell’impugnata pronuncia – che hanno attribuito rilevanza, ai fini dell’affermazione dell’inapplicabilità della disciplina in tema di c.d. “raddoppio dei termini” di cui all’art. 43, terzo comma, del d.P.R. n. 600/1973, nel testo applicabile ratione temporis, censurate con il primo motivo di ricorso, rispettivamente alla prescrizione del reato ed al fatto che i termini ordinari di accertamento fossero già scaduti al tempo della notifica degli atti impositivi – si pongono dunque in termini assolutamente antitetici.
6.3. Né, a supporto della tesi dell’imprescindibilità dell’obbligo di presentazione della denuncia con riferimento all’art. 43, terzo comma, del d.P.R. n. 600/1973, quale applicabile ratione temporis al presente giudizio, può essere invocato, come fatto dalla CTR della Lombardia con la pronuncia in questa sede impugnata, il criterio direttivo che la legge delega n. 23/2014 ha posto, all’art. 8, per il legislatore delegato, secondo cui il raddoppio di termine per l’accertamento in tanto può essere utilizzato se ed in quanto la presentazione della denuncia penale avvenga prima dello spirare del termine per l’accertamento.
6.3.1. Si tratta, infatti, di norma entrata in vigore successivamente alle annualità oggetto di accertamento per cui è causa ed alla quale, diversamente da quanto dedotto da parte controricorrente, non può assolutamente riconoscersi natura di norma d’interpretazione autentica, essendo diretta a dettare un principio al quale il legislatore delegato (poi intervenuto al riguardo con il d.lgs. n. 158/2015) era tenuto ad attenersi nel contesto di una compiuta ridefinizione dei termini dell’esercizio del potere di accertamento tributario, tant’è che il succitato decreto legislativo ha dettato, con l’art. 2, comma 3, una specifica disciplina transitoria, che ha fatto salvi gli accertamenti notificati alla data del 2 settembre 2015.
6.4. In tale contesto deve conseguentemente ritenersi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale subordinatamente proposta da parte controricorrente per l’ipotesi di accoglimento del primo motivo di ricorso dell’Agenzia delle entrate, del citato art. 2, comma 3, del d. lgs. n. 158/2015, ove ritenuto tuttora vigente, per contrasto con gli artt. 2 e 3, 24, 53 e 97 Cost. e per intrinseca irragionevolezza della disposizione in esame che determinerebbe, in ragione di un mero accadimento temporale (la notifica dell’atto impositivo prima o dopo la data del 2 settembre 2015) diversità di effetti in presenza di fattispecie alle quali sarebbe imputabile il medesimo disvalore.
6.4.1. Va, al riguardo, premesso che questa Corte ha avuto modo di precisare (cfr. Cass. sez. 5, 16 dicembre 2016, n. 26037; Cass. sez. 5, 9 agosto 2016, n. 16728; Cass. sez. 6-5, ord. 14 maggio 2018, n. 11620; Cass. sez. 6-5, ord. 17 ottobre 2018, n. 25975) che «[i]n tema di accertamento tributario, i termini previsti dagli artt. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 per l’IRPEF e 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 per l’IVA, nella versione applicabile ratione temporis, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se questa sia archiviata o presentata oltre i termini di decadenza, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016, incidano le modifiche introdotte dalla l. n. 208 del 2015, il cui art. 1, comma 132, ha introdotto, peraltro, un regime transitorio che si occupa delle sole fattispecie non ricomprese nell’ambito applicativo del precedente regime transitorio – non oggetto di abrogazione – di cui all’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 128 del 2015, in virtù del quale la nuova disciplina non si applica né agli avvisi notificati entro il 2 settembre 2015 né agli inviti a comparire o ai processi verbali di constatazione conosciuti dal contribuente entro il 2 settembre 2015 e seguiti dalla notifica dell’atto recante la pretesa impositiva o sanzionatoria entro il 31 dicembre 2015».
6.4.2. Nel dare, con la presente pronuncia, ulteriore continuità al succitato indirizzo interpretativo, va rilevato come la prospettata questione di legittimità costituzionale del citato art. 2, comma 3, del d. lgs. n. 158/2015 ometta la fondamentale considerazione che la nuova disciplina dei termini di accertamento di cui all’art. 43 del d.P.R. n. 600/1973, quale sostituito, infine, dall’art. 1, comma 131, della l. n. 208/2015, presupponga a monte un più lungo periodo rispetto alla precedente disciplina per l’esercizio del potere di accertamento (cinque anni in luogo di quattro per la verifica dell’infedeltà della dichiarazione con decorrenza dall’anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione e sette anni, in luogo dei cinque di cui alla disciplina previgente, in caso di omessa dichiarazione), ragione per la quale – nel contesto di tale più lunga previsione dei termini di accertamento – è di fatto venuta meno la disciplina del c.d. raddoppio dei termini, dovendo, diversamente da quanto dedotto dal controricorrente, ritenersi espressione di ragionevole esercizio discrezionale del potere del legislatore la conservazione, pur a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 132 della l. n. 208/2015, della vigenza della disciplina transitoria di cui al succitato art. 2, comma 3, del d. lgs. n. 158/2015, che al primo periodo, per quanto qui rileva, stabilisce che sono comunque fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni amministrative tributarie e degli altri atti impugnabili con i quali l’Agenzia delle entrate fa valere una pretesa impositiva o sanzionatoria, notificati alla data di entrata in vigore del decreto medesimo (cioè al 2 settembre 2015).
6.5. Il primo motivo di ricorso è dunque fondato, dovendo viceversa ritenersi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, subordinatamente proposta dal controricorrente, dell’art. 2, comma 3 del d.lgs. n. 128/2015 in relazione ai parametri sopra indicati.
7. Venendo all’esame del secondo motivo del ricorso principale, va previamente esaminata l’eccezione d’inammissibilità sollevata da parte controricorrente, sul presupposto che si sarebbe formato il giudicato interno sul capo della pronuncia della CTR che ha accertato la validità dello scudo fiscale del 2009, non essendo state oggetto di specifica impugnazione da parte dell’Amministrazione finanziaria le considerazioni svolte dalla sentenza impugnata riguardo al fatto che la documentazione rinvenuta alla Dogana di Ponte di Chiasso ed oggetto del relativo processo verbale di constatazione in data 9 aprile 2009 non era però relativa alla C. S.A. e che comunque nessuna indagine fiscale era stata avviata, essendosi limitati i militari ad estrarre copia di detta documentazione, senza sollevare alcuna contestazione.
7.1. L’eccezione è infondata.
La censura di cui al secondo motivo di ricorso muove, infatti, da una compiuta ricostruzione in fatto dei rapporti non solo tra C. S.A. ed il B., ma riferiti al complesso delle partecipazioni detenute nel periodo 2002 – 2010 dalla C. S.A., avente come socio unico il B., in altre società, compiutamente indicate alle pagg. 3-4 del ricorso dell’Agenzia delle entrate, tutte caratterizzate da elementi tali da farne ritenere la riconducibilità al B. medesimo.
A fronte di ciò, deve ritenersi che sia stata correttamente attinta da censura col motivo di ricorso in esame la statuizione della sentenza impugnata che ha ritenuto valida la dichiarazione riservata di rientro, successiva alla notifica dell’anzidetto processo verbale di constatazione, riguardo ad un credito “scudato” di euro 14.578.000,00, a fronte del ben maggiore importo contestato dall’Ufficio riguardo alla materia imponibile sottratta al fisco, senza che sia stata dato conto della coincidenza di detta somma con quella oggetto di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria.
7.2. Questa Corte ha avuto modo di precisare che «[i]n tema di esercizio del potere d’imposizione sui capitali c.d. “scudati”, l’effetto preclusivo del generale potere di accertamento tributario, previsto all’art. 14, comma 1, lett. a), del d.l. n. 350 del 2001, ha natura di misura eccezionale di agevolazione per il contribuente, il quale ha l’onere di fornire la prova della ricorrenza dei presupposti; la limitazione normativa dell’inibizione dell’accertamento in riferimento agli «imponibili rappresentati dalle somme o dalle altre attività costituite all’estero e oggetto di rimpatrio» richiede la dimostrazione di una concreta correlazione oggettiva (quanto meno di compatibilità, se non di immediata derivazione, oltre che cronologica e quantitativa) tra il reddito accertato e la provenienza delle somme o dei beni rimpatriati o regolarizzati, nel senso che il reddito non dichiarato, oggetto di accertamento, deve essere collegato alle somme o ai beni emersi a seguito dei rimpatrio, restando pertanto escluse dall’efficacia inibente dello “scudo” tutte quelle fattispecie in cui l’accertamento abbia ad oggetto componenti estranei rispetto alle attività “scudate” e con essi non compatibili» (cfr. Cass. sez. 5, 30 dicembre 2019, n. 34577; Cass. sez. 5, 25 febbraio 2020, n. 4984).
7.3. In effetti, la sentenza impugnata non si occupa in alcun modo dell’assolvimento di detto onere probatorio da parte del contribuente, sebbene risultasse l’evidente sproporzione di euro 14.758.000,00 tra l’importo del credito vantato dal B. nei confronti della società L. di M. e gli utili, notevolmente superiori per un totale di euro 58.276.311,34 che, secondo la contestazione dell’Ufficio, sebbene formalmente registrati ed intestati da C. S.A. per le annualità in esame, dovevano intendersi retrocessi in via extracontabile al B. attraverso finanziamenti erogati direttamente allo stesso o a società partecipate sempre riconducibili al B..
7.4. Ne consegue che il secondo motivo è ugualmente fondato e va pertanto accolto.
8. Per la loro stretta connessione, affrontando la medesima questione da presupposti tra loro antitetici, vanno trattati il terzo motivo di ricorso principale e l’unico motivo di ricorso incidentale del contribuente.
Quest’ultimo sostiene, ribadendo ulteriormente il proprio assunto con la memoria depositata in atti, che l’Agenzia delle entrate solamente con il ricorso in appello avverso la sentenza di primo grado avesse mutato la causa petendi della ripresa a tassazione degli atti impositivi, riferiti all’interposizione fittizia di C. S.A., adducendo fatti nuovi, riferiti alla costituzione del trust e ad eventi estranei agli atti impositivi, in quanto verificatisi successivamente ai periodi d’imposta oggetto della presente controversia, e da ultimo, solo con la proposizione del ricorso per cassazione, avesse sostituito alla tesi dell’interposizione fittizia quella dell’interposizione reale della C. S.A. al B., ciò comportando in ogni caso l’inammissibilità del motivo fondato su una diversa causa petendi rispetto a quella che deve delimitare il perimetro della pretesa dell’Amministrazione finanziaria così come esplicitata negli avvisi di accertamento impugnati.
8.1. In primo luogo, con riferimento al motivo di ricorso incidentale, non vi è dubbio che l’allegazione dei fatti riguardanti la costituzione del trust, di cui al ricorso in appello avverso la sentenza di primo grado, attenga a fatti sopravvenuti alle annualità in contestazione, ma si tratta, con ogni evidenza, di fatti secondari, addotti al solo scopo di confortare la prospettazione della natura elusiva della condotta del B., che, sin dalla notifica degli atti impositivi, è stata incentrata dall’Ufficio sulla dedotta violazione dell’art. 37, terzo comma, del d.P.R. n. 600/1973.
8.2. Detta norma prevede, come è noto, che «[i]n sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona».
8.3. Occorre muovere al riguardo da una considerazione essenziale.
8.3.1. I fatti che l’Ufficio adduce a fondamento delle pretese di cui agli atti impositivi sono chiari nella loro essenza: ciò che l’Ufficio contesta in detti atti è che la C. S.A. costituisse un autonomo soggetto di diritto costituito al solo fine di sottrarre ad imposizione in Italia i proventi solo formalmente dalla stessa prodotti e a detta società riferiti, ma in realtà riferibili direttamente al B., al quale, nel corso del tempo, erano stati attribuiti sotto forma di finanziamenti a lui erogati direttamente ovvero attraverso altre società ugualmente riconducibili al B. stesso, finanziamenti dei quali quest’ultimo non aveva mai provato la restituzione.
8.3.2. È pur vero che in detti avvisi di accertamento si fa riferimento all’interposizione fittizia del soggetto C. S.A., come ad evocare una fattispecie di simulazione relativa sul piano soggettivo, che postula un accordo simulatorio di tipo trilatero, certamente insussistente nella fattispecie; ma si tratta, indubbiamente, di erronea qualificazione giuridica di fatti che – nella loro essenza innanzi ricordata – attengono piuttosto ad interposizione reale che presuppone un accordo di tipo bilaterale tra interponente ed interposto e che l’Ufficio ha quindi ipotizzato, sin dagli atti impositivi, nel momento in cui ha contestato che C. S.A., totalmente partecipata dal B., sebbene formalmente esistente, fosse sostanzialmente lo strumento attraverso il quale sottrarre ad imposizione in Italia utili riconducibili direttamente al B. medesimo.
8.3.3. Qualificando il complesso delle operazioni indicate come “interposizione fittizia”, l’Amministrazione finanziaria ha inteso piuttosto indicare il sig. A.B. come il vero dominus di dette operazioni e, in ultima analisi, come il soggetto al quale doveva essere riferito il reddito, cioè il soggetto economico effettivo per interposta persona.
Essendo i fatti addotti sin dagli atti impositivi persino non controversi, nella loro materialità, ne risulta che l’erroneo riferimento, in essi, dell’Amministrazione procedente, all’interposizione fittizia, anziché all’interposizione reale, che trova pur sempre il proprio riferimento normativo nel menzionato art. 37, terzo comma, del d.P.R. n. 600/1973, consente al giudice la diversa qualificazione in tali termini della fattispecie, senza che risultino mutati i fatti addotti a sostegno della pretesa tributaria così come specificati negli avvisi di accertamento notificati al contribuente; dovendosi ancora osservare come la norma in esame neppure presupponga necessariamente un comportamento fraudolento del contribuente, ma postuli l’uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, tale da consentire di eludere l’applicazione del regime fiscale costituente il presupposto d’imposta, essendo finalizzata a stigmatizzare operazioni volte ad aggirare la normativa fiscale alla luce del più generale principio di abuso del diritto (cfr., in senso conforme, Cass. sez. 5, ord. 27 aprile 2021, n. 11055).
8.4. Ne consegue che il terzo motivo di ricorso principale non solo è ammissibile, ma è anche fondato, essendo incorsa la sentenza impugnata nella denunciata violazione dell’art. 37, terzo comma, del d.P.R. n. 600/1973, omettendo di analizzare e valutare l’effettivo contenuto economico delle operazioni quale ipotizzato dal fisco, sulla base di un’interpretazione che ha sostanzialmente espunto dal perimetro applicativo di detta norma l’interposizione reale a cui correttamente riferire i fatti incontrovertibilmente oggetto di contestazione, indipendentemente dall’erronea qualificazione giuridica dei fatti medesimi operata dall’Ufficio negli atti impositivi.
8.5. Di contro, per quanto sopra osservato, va rigettato l’unico motivo di ricorso incidentale formulato dal controricorrente.
9. Resta, infine, assorbito, alla stregua delle considerazioni precedenti, il quarto ed ultimo motivo di ricorso principale come innanzi trascritto al paragrafo 4 della presente decisione.
10. Il ricorso principale va dunque accolto in relazione ai primi tre motivi, assorbito il quarto, mentre il ricorso incidentale deve essere rigettato. La sentenza impugnata deve essere pertanto cassata in relazione ai motivi accolti del ricorso principale, con rinvio per nuovo esame alla Commissione tributaria regionale della Lombardia in diversa composizione, cui si demanda anche la pronuncia sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso principale in relazione ai primi tre motivi, assorbito il quarto, e rigetta il ricorso incidentale.
Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti del ricorso principale e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia in diversa composizione, cui demanda anche di provvedere sulle spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1- quater del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso incidentale, a norma del comma 1 – bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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