CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 gennaio 2019, n. 442
Lavoro – Collaborazione giornalistica – Subordinazione – Stabile inserimento nell’organizzazione aziendale
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Roma rigettava l’appello principale e quello incidentale proposti rispettivamente da T.N. s.p.a. e da S. Antonio, redattore corrispondente dalle regioni Calabria e Basilicata, formalmente non assunto dalla società, che aveva, anzi, nel dicembre 2007, richiesto al predetto di sottoscrivere una lettera, nella quale era stata proposta una collaborazione giornalistica non dotata del carattere della subordinazione, in palese contrasto con la configurazione giuridica delle prestazioni rese. Il licenziamento intimato allo S. il 22 gennaio 2009 era stato ritenuto legittimo dal Tribunale, dinanzi al quale avevano trovato accoglimento soltanto la domanda di pagamento dei compensi pari ad euro 164.070,00 e quella con la quale era stata richiesta la corresponsione, in favore dell’INPGI, dei contributi non versati e delle sanzioni di legge per omissione contributiva.
2. Rilevava la Corte che la stipulazione di un contratto di collaborazione nel febbraio 2008 non era idonea ad escludere l’accertato vincolo della subordinazione al cospetto delle dimostrate modalità di concreto svolgimento del rapporto – caratterizzato, sin dal suo inizio, da subordinazione attenuata, propria del lavoro intellettuale del giornalista -, anche in presenza di collaborazione con altri giornali e di comprovato esercizio della professione di avvocato da parte dello S.
3. Dall’istruttoria orale e documentale era emerso che quest’ultimo era stato stabilmente inserito nell’organizzazione aziendale assicurando con continuità un’esigenza informativa del giornale attraverso la sistematica compilazione di lanci di agenzia e di articoli, con apporto soggettivo e creativo, sui fatti di attualità che si verificavano nel territorio calabrese.
4. L’appello principale era respinto anche con riguardo alla censura con la quale era stata rimarcato il rilievo da attribuirsi alla mancanza di iscrizione dello S., a far data dal 24.10.2005, all’albo dei giornalisti professionisti, sulla base della considerazione che alla violazione di norme imperative conseguiva che la nullità derivatane non produceva effetti ex art. 2126 c.c. e che il lavoratore aveva diritto alla giusta retribuzione liquidata in sentenza. Anche le deduzioni relative alla genericità della domanda avanzata dall’INPGI erano respinte con richiamo alla previsione legislativa di automaticità delle sanzioni civili previste in caso di omissione o ritardato pagamento dei contributi o premi previdenziali.
5. L’appello incidentale era rigettato sul rilievo che le differenze retributive richieste per lavoro straordinario, ferie non godute ed altre voci non erano supportate da specifiche allegazioni e che il relativo onere probatorio non era stato assolto. Con riguardo alla censura riferita al capo della decisione sul licenziamento, la Corte si limitava ad osservare che, in ogni caso, in assenza di iscrizione all’albo professionale ed in presenza di mera iscrizione all’albo dei pubblicisti, potevano essere riconosciute solo differenze retributive ex art. 2126 c.c., non potendo ordinarsi la riassunzione del lavoratore, atteso che nel contratto affetto da nullità per violazione di norma imperativa non era concepibile un licenziamento e non erano configurabili le conseguenze conservative che la legge collegava al recesso nullo.
6. Di tale decisione domanda la cassazione T.N., affidando l’impugnazione a due motivi, cui resistono lo S. e l’INPGI, con distinti controricorsi. Lo S. ha depositato memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, la società ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 50 c.p.c.e 125 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 414 c.p.c. ed all’art. 2 Cost., osservando che il giudizio in sede di riassunzione dinanzi a giudice dichiarato competente costituisce la prosecuzione del giudizio originario e che non poteva essere autorizzata alcuna emendatici libelli, determinando ciò un’indebita sanatoria di domanda nulla, al di fuori del procedimento di cui all’art. 164 c.p.c., asseritamente applicabile al rito del lavoro, ed un frazionamento sequenziale del credito azionato, in contrasto con i principi di correttezza e buona fede. In particolare, assume che nell’originario atto introduttivo erano stati omessi sia l’allegazione di un conteggio esplicativo del credito azionato, sia l’indicazione dei titoli e voci retributive che componevano la somma richiesta di € 166.034,43 (differenze richieste tra il trattamento economico riconosciuto di collaboratore autonomo e quello previsto per il redattore corrispondente). Aggiunge che tali omissioni avevano impedito alla società di prendere specifica posizione per eventuali contestazioni sulla sussistenza del credito e sulla correttezza dei relativi calcoli e che, nel successivo atto di riassunzione, il ricorrente aveva introdotto una specificazione del quantum richiesto, con la domanda di specifiche voci riferite a maggiorazione di agenzia, indennità per ferie non godute, lavoro straordinario nei giorni festivi e domenicali, lavoro notturno e compensi per mancato godimento compensativo.
2. Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione agli artt. 115, 116, 210 e 213 c.p.c., sostenendo che l’indagine svolta dal giudice del gravame sulla insussistenza di una contemporanea attività di lavoro subordinato con altro datore di lavoro non sia rispettosa dei principi in tema di onere probatorio, disattesi pure avendo la società fornito elementi indiziari essenziali sulla sussistenza, nel medesimo arco temporale, di un autonomo rapporto di lavoro dello S. con un ente pubblico, provato da riscontri documentali allegati dal ricorrente al ricorso introduttivo (ricezione di regolari stipendi dal gennaio 2006 con cadenza mensile dalla C.E.S.S.I.I. e, dal dicembre 2005, di regolari compensi da non ben identificato Ente Parco Naturale Regionale).
3. Con riguardo al primo motivo, questa Corte non ravvisa alcuna pertinenza del richiamo effettuato dalla ricorrente a precedenti giurisprudenziali di questa Corte sulla parcellizzazione del credito e sull’abuso del processo. Ed invero, al di là di ogni considerazione in ordine al superamento della tesi restrittiva sulla possibilità di domande nuove nel giudizio di riassunzione (Cass. 7392/2008, Cass. 11628/2007) ad opera di diverso orientamento, avallato da Cass. 15753/2014 – con richiamo a Cass. 223/2011 e Cass. 821/2006 – e di Cass. 8.1.2016 n. 132, è sufficiente osservare che la censura è fuori centro, in quanto, rispetto alla valutazione compiuta del giudice del merito sulla mancanza del carattere di novità delle domande contenute nel ricorso in riassunzione, la ricorrente avrebbe dovuto incentrare la critica sulla contestazione della ritenuta connotazione di mera specificazione dell’originaria pretesa.
4. Peraltro, al di là di tali rilievi, va osservato che, a fini quantificatori del credito dello S., la sentenza impugnata ha rilevato come l’appellante principale non abbia contestato le differenze retributive riconosciute in sentenza, essendosi limitata a sottolineare che le richieste economiche fossero state accolte nonostante che l’appellato dal 24.10.2005 non fosse più iscritto all’albo dei giornalisti professionisti. La sentenza ha chiarito che la violazione di norme imperative comportava gli effetti di cui all’art. 2126 c.c. e ciò è conforme all’orientamento di legittimità secondo cui, “per l’esercizio dell’attività giornalistica di redattore ordinario è necessaria la iscrizione nell’albo dei giornalisti professionisti. Ne consegue che il contratto giornalistico concluso con un redattore non iscritto nell’albo dei giornalisti professionisti, è nullo non già per illiceità della causa o dell’oggetto, ma per violazione di norme imperative, con la conseguenza che, per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, detta nullità non produce effetti ex art. 2126 cod. civ. e il lavoratore ha diritto, ai sensi dell’art. 36 Cost., alla giusta retribuzione, la cui determinazione spetta al giudice di merito” (Cass. 21.4.2017 n. 10158, Cass. n. 23638/2010; conforme, fra le altre, Cass. 4941/2004).
5. La Corte territoriale, nel confermare la decisione del giudice di primo grado, ha considerato che lo svolgimento, da parte dello S., delle mansioni di redattore in quanto corrispondente da capoluogo di provincia giustificasse, ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, l’adozione di un parametro remunerativo in tutto corrispondente alle previsioni per tale figura del CCNL Giornalisti, pervenendo, tuttavia, al rigetto dell’appello incidentale, sul rilievo che, rispetto all’originaria richiesta, lo S. aveva avanzato richieste economiche modificative dell’originaria prospettazione, tentando di superare nell’atto di appello il difetto probatorio evidenziato nella sentenza di primo grado. E’ stato al riguardo evidenziato che, al di là della continuità della prestazione resa, “non vi erano state specifiche allegazioni, deduzioni e prove idonee a fondare richieste economiche varie neppure originariamente quantificate, condizionate da elementi costitutivi non puntualmente dedotti e dimostrati nel pieno contraddittorio delle parti e nel rispetto delle regole processuali” (in tali termini la motivazione della decisione impugnata, pag. 17). Ciò induce a ritenere inconferente la censura articolata nel motivo di ricorso anche su tale ulteriore rilievo, se è vero che la decisione ha ritenuto di prescindere da deduzioni aggiuntive, che, al di là di ogni considerazione sul mutamento sostanziale dell’originaria pretesa, sono state ritenute infondate e, per la parte riferibile al trattamento retributivo base, sono state reputate, per quanto già sopra detto, alla stregua di una mera esplicitazione del quantum già autonomamente determinabile ai fini di cui all’art. 2126 c.c. e con riferimento all’art. 36 Cost., sulla base dei parametri retributivi contrattuali corrispondenti alla qualifica di redattore, evincibili dai CCNL in vigore.
6. Quanto al secondo motivo, sul rapporto con l’Ente Parco la sentenza ha specificato che l’incarico rivestito dallo S., di addetto stampa del Presidente dell’Ente, al pari dello svolgimento della libera professione di avvocato, non era connotato da subordinazione e quindi non incideva in termini preclusivi rispetto allo svolgimento di attività giornalistica in regime di subordinazione.
7. In relazione ai rilievi di natura processuale, va escluso che l’ordine di esibizione, a norma dell’art. 210 cod. proc. civ., possa supplire al mancato assolvimento dell’onere della prova a carico della parte istante (cfr. Cass. 29.7.2011 n. 16781) – nella specie della parte oneratane, ai sensi dell’art. 2697 c.c., che doveva identificarsi nella società, che aveva allegato un fatto che incideva in termini impeditivi sulla dedotta subordinazione.
8. Quanto, infine, al dedotto mancato esercizio dei poteri ufficiosi da parte del giudice di merito, va ribadito che nel processo del lavoro, l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio in grado d’appello presuppone la ricorrenza di alcune circostanze: l’insussistenza di colpevole inerzia della parte interessata, con conseguente preclusione per inottemperanza ad oneri procedurali, l’opportunità di integrare un quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti, l’indispensabilità dell’iniziativa ufficiosa, volta non a superare gli effetti inerenti ad una tardiva richiesta istruttoria o a supplire ad una carenza probatoria totale sui fatti costitutivi della domanda, ma solo a colmare eventuali lacune delle risultanze di causa e che non ricorrono, pertanto, i suddetti presupposti, allorché non sussista alcun elemento, già acquisito al processo, tale da poter offrire lo spunto per integrare il quadro probatorio già tempestivamente delineato (cfr. Cass. 11. 3.2011 n. 5878; Cass. 5.11.2012 n. 18924). Nella specie gli indizi, valutati secondo un corretto procedimento logico presuntivo, avallavano, secondo la Corte del merito, l’esistenza di un rapporto lavorativo con la CESSII, instaurato non con lo S., ma con la moglie di quest’ultimo, e quindi era onere della società fornire la dimostrazione contraria. Non sussistono pertanto le dedotte violazioni degli artt. 2697 c.c. e 115 e 116 c.p.c.
9. Alla stregua di tali considerazioni, il ricorso va complessivamente respinto.
10. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e sono liquidate, in favore di ciascuno dei controricorrenti, nella misura indicata in dispositivo.
11. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore di entrambi i controricorrenti, liquidate per ciascuno in complessivi euro 200,00 per esborsi, euro 5500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato o D.P.R.
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