CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 luglio 2018, n. 18170
Licenziamento per giusta causa – Inadempimento grave ai doveri di diligenza e di fedeltà, nonché lesivo del vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro – Denuncia di messo esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti – Ricorso inammissibile – Indicazione del “fatto storico”, il “dato” testuale o extratestuale da cui esso risulti, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale e la sua “decisività”
Fatti di causa
Con sentenza in data 10 maggio 2016, la Corte d’appello di Salerno, in accoglimento del reclamo proposto da S. I. A. e D. (SIAD) s.p.a., rigettava le domande di G. B. di accertamento dell’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla società datrice il 7 (9) luglio 2014 e di sue conseguenti condanne reintegratoria e risarcitoria: così riformando la sentenza di primo grado, che, in sede di opposizione a norma dell’art. 1, comma 57 I. 92/2012, aveva invece dichiarato illegittimo il licenziamento impugnato e condannato la società alla reintegrazione del lavoratore e al pagamento, in suo favore a titolo risarcitorio, di una somma pari alla retribuzione globale mensile dal licenziamento alla reintegrazione.
A motivo della decisione, la Corte territoriale escludeva, come già il Tribunale, la prova del primo addebito (installazione, in proprio e in concorrenza diretta con il datore di lavoro, di un impianto di distribuzione di gas presso la cliente società I. A.). Al contrario, riteneva invece dimostrato il secondo (insubordinazione verso il superiore gerarchico, con atteggiamento violento e minaccioso e violazione delle disposizioni di servizio inerenti l’uso e la manutenzione del furgone aziendale con danno dell’impresa) e di gravità tale, nella complessiva valutazione del fatto e del comportamento del lavoratore, da risultare, non solo inadempimento grave ai doveri di diligenza e di fedeltà, ma addirittura lesivo del vincolo fiduciario alla base del rapporto tra le parti, così da giustificare il recesso per giusta causa, essendo pure previste in via esemplificativa, tra le ipotesi di recesso senza preavviso dall’art. 52 del CCNL dell’industria chimica applicato, anche la “insubordinazione verso i superiori” (lett. k) e i “gravi guasti provocati per negligenza al materiale dell’impresa” (lett. h).
Avverso tale sentenza il lavoratore, con atto notificato il 7 luglio 2016, proponeva ricorso per cassazione con tre motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui resisteva la società datrice con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per malgoverno delle risultanze istruttorie, con omissione di elementi probatori rilevanti diversamente apprezzati, in favore del lavoratore, dai giudici della fase sommaria e di opposizione, in riferimento tanto alla contestazione di mancato rispetto delle procedure aziendali nella riparazione del furgone, previa denuncia del sinistro occorso, tanto all’insubordinazione.
2. Con il secondo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, 2105 c.c., 52 CCNL dell’industria chimica, per difetto, nel comportamento tenuto dal lavoratore, dei presupposti individuativi delle norme di legge e di contratto collettivo denunciate.
3. Con il terzo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 e 1455 c.c., per la ravvisata sussistenza di una giusta causa di recesso “nonostante l’ambito documentale e tutte le ulteriori risultanze probatorie abbiano dimostrato che non ricorrono i presupposti applicativi di detta previsione normativa” e così pure di un grave inadempimento, senza operare una seria ed attenta valutazione concreta della vicenda complessiva, in funzione di una corretto apprezzamento dì proporzionalità della sanzione (massima espulsiva) con la condotta del lavoratore, da esaminare in ogni suo aspetto oggettivo e soggettivo.
4. Il primo motivo, relativo ad omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per malgoverno delle risultanze istruttorie, è inammissibile.
4.1. Non si configura, infatti, il vizio denunciato, posto che la censura non attinge alcun omesso esame di un fatto storico, tanto meno decisivo per la pluralità degli elementi enumerati (sicché nessuno di essi davvero ex se decisivo: Cass. 5 luglio 2016, n. 13676), quanto piuttosto una valutazione probatoria non condivisa, ancorché debitamente argomentata (in particolare dal penultimo capoverso di pg. 12 al secondo di pg. 20 della sentenza). Ai fini della corretta denuncia del vizio in questione, il ricorrente deve piuttosto indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”; fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice (come appunto nel caso di specie, per la valutazione, ancorché non condivisa, delle risultanze istruttorie): con la conseguente preclusione nel giudizio di cassazione dell’accertamento dei fatti ovvero della loro valutazione a fini istruttori (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439) e tanto meno di una valutazione della motivazione insufficiente o contraddittoria, salvo che essa non risulti apparente né perplessa o obiettivamente incomprensibile (come non si verifica nel caso di specie).
5. Il secondo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, 2105 c.c., 52 CCNL dell’industria chimica per difetto dei presupposti individuativi delle norme denunciate, è infondato.
5.1. Non sussiste la violazione delle norme denunciate, in difetto dei requisiti loro propri di verifica di correttezza dell’attività ermeneutica diretta a ricostruirne la portata precettiva, né di sussunzione del fatto accertato dal giudice di merito nell’ipotesi normativa, né tanto meno di specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata motivatamente assunte in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 28 novembre 2007, n. 24756; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984).
5.2. Il mezzo consiste piuttosto in una contestazione dell’accertamento in fatto e della valutazione probatoria della Corte territoriale, esclusivamente riservati al giudice di merito e insindacabili in sede di legittimità, avendone la Corte territoriale dato critico e argomentato conto, tanto meno censurabili alla luce del più rigoroso ambito devolutivo del novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., sopra illustrato, applicabile ratione temporis.
6. Il terzo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 e 1455 c.c. per insussistenza di una giusta causa di recesso e così pure di un grave inadempimento, è infondato.
6.1. Neppure la censura di violazione dell’art. 2119 c.c. è appropriata, non rilevando qui (come ancora recentemente ritenuto da: Cass. 15 aprile 2016, n. 7568; Cass. 2 settembre 2016, n. 17539) una questione di sindacabilità, sotto il profilo della falsa interpretazione di legge, del giudizio applicativo di una norma cd. “elastica” (quale indubbiamente è la clausola generale della giusta causa), che indichi solo parametri generali e pertanto presupponga da parte del giudice un’attività di integrazione giuridica della norma, a cui sia data concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico – sociale: in tal caso ben potendo il giudice di legittimità censurare la sussunzione di uno specifico comportamento del lavoratore nell’ambito della giusta causa (piuttosto che del giustificato motivo di licenziamento), in relazione alla sua intrinseca lesività degli interessi del datore di lavoro (Cass. 18 gennaio 1999, n. 434; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10514). E ciò per la sindacabilità, da parte della Corte di cassazione, dell’attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal giudice di merito, a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095).
6.2. La censura in esame è piuttosto indirizzata all’accertamento in fatto, tanto relativo alla sussistenza del fatto contestato quanto alla valutazione di proporzionalità operata in concreto dalla Corte territoriale (dal penultimo capoverso di pg. 19 al secondo di pg. 20 della sentenza), sulla corretta premessa dell’esigenza di una valutazione globale della vicenda, attenta ai suoi profili oggettivi e soggettivi (in particolare all’ultimo capoverso di pg. 15 e di pg. 17 della sentenza) insindacabile in sede di legittimità.
7. Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna G. B. alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
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