CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 luglio 2018, n. 18172
Licenziamento disciplinare – Intensità del profilo soggettivo e reiterazione della condotta irregolare in un esteso arco temporale – Principio di immediatezza della contestazione – Garantire al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività e tutelare il legittimo affidamento del prestatore sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile – Tempestività della contestazione va intesa in senso relativo – Compatibilità con un intervallo necessario, in relazione al caso concreto e alla complessità dell’organizzazione datoriale di lavoro – Valutazione del requisito va anche valutato con riferimento al tempo in cui i fatti sono conosciuti dal datore di lavoro
Fatti di causa
La Corte di Appello di Salerno in riforma della sentenza di primo grado, rigettava il ricorso proposto da A. T. nei confronti della Cassa R. ed A. Banca di Credito Cooperativo di F. soc. coop. volto alla declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare adottato nei suoi confronti in data 23/7/2013.
Nel pervenire a tali approdi la Corte distrettuale, per quel che in questa sede rileva, osservava che a seguito di accertamenti espletati dall’istituto di credito e definiti nella relazione del responsabile della Funzione Internai Audit, era stato contestato al dipendente di aver eseguito, nell’esercizio delle mansioni di cassiere a lui ascritte, una serie d’i operazioni in base alle quali a taluni clienti – risultati coinvolti in indagini di polizia giudiziaria – era consentito “con sconcertante cadenza” il versamento di assegni o titoli sul conto corrente con contestuale prelevamento di contante per pari importo, così rendendo immediatamente fruibile una provvista che sarebbe divenuta disponibile solo in tempi successivi; questo modus operandi era stato adottato con continuità, tanto da movimentare negli anni 2008-2010 contante per un ammontare rilevantissimo, anche in favore di clienti classificati “a sofferenza”. La condotta ascritta al dipendente si era esplicata altresì nella autorizzazione alla negoziazione di titoli privi di regolarità formale, recanti firme illeggibili e diverse dagli specimen depositati e per operazioni riconducibili al medesimo soggetto, palesemente diverse, ed, in definitiva, in una sistematica inosservanza delle disposizioni in materia di riciclaggio nelle operazioni realizzate in particolare da un gruppo di clienti oggetto di indagini disposte dalla autorità giudiziaria.
La Corte di merito argomentava, quindi, in ordine alla fondatezza delle formulate contestazioni, ed alla tempestività e proporzionalità della sanzione espulsiva irrogata rispetto alle mancanze ascritte, stante l’intensità del profilo soggettivo qualificato anche da una reiterazione della condotta irregolare in un esteso arco temporale, così pervenendo alla integrale reiezione del diritto azionato.
Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione il T. affidato a tre motivi, illustrati da memoria ex art.378 c.p.c. ai quali resiste con controricorso l’Istituto di credito intimato.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art.2119 c.c., dell’art. l. 604/66 dell’art. 7 l. 300/70 nonché degli artt. 2697 e 2729 c.c. e dell’art.115 c.p.c.. Si critica la sentenza impugnata per non aver ravvisato nel corso della procedura espulsiva, la violazione del principio di immediatezza della contestazione, con riferimento alla mancata acquisizione della prova relativa al momento in cui i vertici aziendali sarebbero venuti a conoscenza dell’esistenza di un procedimento penale che coinvolgeva alcuni suoi dipendenti. La Corte distrettuale, limitandosi a valorizzare talune evidenze formali, non avrebbe colto l’effettivo svolgimento della vicenda, in cui i vertici dell’istituto avrebbero “incoraggiato uh trattamento accondiscendente e di speciale favore nei confronti di alcuni personaggi e clienti evidentemente ritenuti meritevoli di particolare riguardo…”.
2.La censura non è fondata.
Come questa Corte ha già avuto occasione di affermare (Cass. 8/6/2009 n. 13167, Cass. 10/9/2013 n. 20719 cui adde Cass. 25/1/2016 n.1248) in materia di licenziamento disciplinare, il principio dell’immediatezza della contestazione mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall’altro, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore – in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede – sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile; con la conseguenza che, ove la contestazione sia tardiva, si realizza una preclusione all’esercizio del relativo potere e l’invalidità della sanzione irrogata. In questo senso è stata evidenziata, anche in dottrina, la natura pluridirezionale dell’istituto.
Costituisce d’altro canto, orientamento condiviso e consolidato di questa Corte quello secondo il quale il concetto di tempestività della contestazione deve essere inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo necessario, in relazione al caso concreto e alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, per un adeguato accertamento e una precisa valutazione dei fatti (cfr. ex multis Cass. 8/3/2010 n.5546, Cass. 17/12/2008 n.29480, Cass. 22/10/2007 n. 22066).
Il requisito della immediatezza deve, poi, essere valutato con riferimento al tempo in cui i fatti sono conosciuti dal datore di lavoro, e non a quello in cui essi sono avvenuti e che la conoscenza debba tradursi nella ragionevole configurabilità dei fatti oggetto dell’inadempimento, inteso nelle sue caratteristiche oggettive, nella sua gravita e nella sua addebitabilità al lavoratore (Cass. 27/02/2014 n. 4724, Cass. 26/3/2010 n. 7410), ammettendosi anche che il datore di lavoro possa allo scopo procedere alle preliminari necessarie verifiche (Cass. 8/3/2010 n. 5546, Cass. cit. n. 29480/2008).
3. Orbene, la Corte di merito nel proprio incedere argomentativo, non si è discostata dai principi enunciati. Ha infatti rimarcato che l’istituto di credito in data 4/4/2013, venuto a conoscenza del procedimento penale in corso in cui erano coinvolti alcuni dipendenti della filiale di Mercato San Severino, aveva immediatamente deliberato la sospensione cautelare dal servizio di tali dipendenti, avviando una indagine interna; ultimate le operazioni dell’organo ispettivo in data 14/5/2013 i responsabili di filiale avevano formulato la contestazione nei confronti del T. in data 4/6/2013 ed, esaminate le giustificazioni addotte, avevano intimato il provvedimento espulsivo in data 23/7/2013.
I giudici del gravame hanno poi, bene rilevato che prima della elaborazione della indagine interna, la direzione non disponeva di elementi probanti dai quali desumere un effettivo coinvolgimento del lavoratore nei gravissimi fatti emersi all’esito degli accertamenti disposti dalla autorità giudiziaria, con approccio che, corretto sul piano logico e conforme a diritto sul versante giuridico, si sottrae alla censura all’esame.
4. Il secondo motivo prospetta violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., dell’art. 1 l. 604/66, dell’artt. 2106 c.c. e degli artt.115, 116 e 245 c.p.c..
Ci si duole che la Corte abbia “in maniera errata ed immotivata sminuito le giustificazioni fornite dal lavoratore, secondo le quali tutte le operazioni poste in essere dai soggetti indicati nella lettera di contestazione disciplinare venivano normalmente seguite al direttore della filiale…”. Si critica la statuizione con cui i giudici del gravame hanno affermato che ben avrebbe il ricorrente potuto sottrarsi alla prassi irregolare invalsa, perché la tesi accreditata in sentenza finirebbe per “implementare nella clausola generale della giusta causa, uno standard comportamentale e deontologico eccessivamente elevato”. Si lamenta quindi, che la Corte di merito non abbia conferito adeguato peso probatorio alla circostanza che la filiale cui era addetto il ricorrente era stata oggetto di verifiche da parte di organismi interni di controllo, oltre che della Banca d’Italia, le quali non avevano evidenziato alcuna anomalia sul piano del rispetto della normativa antiriciclaggio e delle fonti regolamentari interne, circostanza che aveva rafforzato l’affidamento circa la correttezza del proprio operato. Si deduce che erroneamente la Corte di merito non abbia ammesso gli strumenti probatori articolati, e volti a dimostrare l’esistenza di una prassi operativa alla quale ci si era uniformati.
5. Anche questo motivo va disatteso.
Secondo le linee ermeneutiche dettate da questa Corte, la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale; dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare.
Quale evento “che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici.
Mentre il giudizio di sussunzione è giudizio di diritto, in quanto tale sottoponibile anche a questa S.C., quello di mera proporzionalità in concreto fra illecito disciplinare e relativa sanzione è giudizio di fatto riservato al giudice di merito, che deve operarlo tenendo conto di tutti i connotati oggettivi e soggettivi della vicenda come, ad esempio, l’entità del danno, il grado della colpa o l’intensità del dolo, l’esistenza o non di precedenti disciplinari a carico del dipendente (vedi Cass.29/3/2017 n.8136, Cass. 26/4/2012 n.6498).
È quanto ha fatto la gravata pronuncia, che con motivazione immune da censure ha ritenuto che l’inadempimento fosse di gravità tale da integrare giusta causa di recesso, valorizzando, ai fini del giudizio di proporzionalità, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti (cfr., ex aliis, Cass. 13/2/2012 n. 2013 ed in motivazione, Cass. 17/7/2015 n. 15058).
La Corte ha avuto modo di confutare la fondatezza delle difese articolate dal lavoratore, osservando che, “quand’anche si fosse trovato al cospetto di una prassi diffusa …tollerata dai responsabili dell’istituto di credito (circostanza questa che appare tuttavia, quanto mai inverosimile, ove si consideri che in nessun’altra sede della B.C.C. di Fisciano è mai stata osservata una consuetudine di tal genere), e quand’anche fosse stato indotto dal responsabile della filiale ad eseguire le operazioni summenzionate, il T….ben avrebbe potuto rifiutarsi di agire secondo il presunto illegittimo modus operandi, così come ben avrebbe potuto e dovuto segnalare agli organi di vertice dell’istituto di credito eventuali direttive, impartite dal suo superiore gerarchico, palesemente in contrasto con la normativa di riferimento”.
Siffatta argomentazione, lungi dall’implementare uno standard comportamentale e deontologico superiore a quello usualmente esigibile e non conforme ai valori dell’ordinamento, come dedotto da parte ricorrente, si colloca nel solco dei dieta di questa Corte secondo cui, ai fini della valutazione della giusta causa del licenziamento, deve aversi riguardo al fatto che l’intensità della fiducia richiesta è differenziata a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione parti, dell’oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono (Cass. 10/6/2005 n.12263, Cass. 11/10/2005 n.19742), e risulta particolarmente elevata in un settore delicato come quello bancario in cui è radicato il particolare interesse datoriale al mantenimento di un’affidabile e, soprattutto, trasparente organizzazione del lavoro (vedi ex aliis, in motivazione, Cass. 8/4/2016 n.6901).
6. I giudici di merito non hanno, poi, tralasciato di considerare che la Banca aveva documentalmente provato di avere a più riprese impartito direttive aventi ad oggetto proprio l’osservanza delle normative antiriciclaggio, ritenendo arduo ipotizzare che il lavoratore non fosse stato adeguatamente reso edotto dai responsabili dell’istituto di credito, degli obblighi di legge derivanti dalle richiamate disposizioni.
Nell’ottica descritta, coerente con le esposte premesse, si palesa la statuizione della Corte distrettuale con la quale è stato escluso ogni approfondimento istruttorio, con reiezione delle istanze formulate dal lavoratore – già respinte dal giudice di prima istanza – perché prive del requisito di indispensabilità, intesa quale idoneità dello strumento probatorio a sovvertire la decisione di primo grado fornendo in contributo decisivo all’accertamento della verità materiale, in coerenza coi principi del giusto processo, secondo le linee tracciate da questa Corte di legittimità (vedi Cass. 29/4/2016 n.8568, Cass. S.U. 4/5/2017 n. 10790).
7. In definitiva, al lume delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto, restando logicamente assorbita la terza censura, concernente la violazione o falsa applicazione dell’art. 78 c.c.n.I. di settore che sancisce la tutela reintegratoria a tutti i dipendenti a prescindere dai limiti dimensionali aziendali, inapplicabile alla fattispecie, stante la legittimità della sanzione espulsiva irrogata.
Il governo delle spese del presente giudizio di legittimità, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata.
Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
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