CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 luglio 2020, n. 14756
Tributi – Ritenute su interessi – Interessi corrisposti a società controllante residente in UE e da questa rigirati a terzi – Esenzione ex art. 26 quater, del DPR n. 600/1973 – Applicabilità
Fatti di causa
1. L’Agenzia delle Entrate emetteva due avvisi di accertamento nei confronti della G.G.P. s.p.a. (GGP I), ora Stiga s.p.a., per l’anno 2006 (periodo di imposta 1-9-2006/31-8-2007), con il primo, rilevando una minore perdita di € 6.561.608,00 rispetto a quella dichiarata dalla società per € 7.154.096,00, per una differenza di € 592.488,00, sulla base dei seguenti rilievi:l.Costi non inerenti per C 374.400,00, per consulenze espletate in relazione ad un conferimento effettuato in suo favore dalla controllante GGP C Sarl, da riaddebitare a quest’ultima;2) mancato riaddebito di interessi passivi pagati dalla società a Banca Intesa per C 90.598,96, per un finanziamento effettuato nell’esclusivo interesse della consociata svedese GGP Sweden Forvaltning AB, della durata di una settimana (12-7-2007/19-7-2007), da ascrivere comunque alla consociata; 3)costi non inerenti per € 83.578,68, correlati alla mera redazione del bilancio consolidato, quindi da imputare alla consolidante, quale unico soggetto gravato della predisposizione del bilancio consolidato;4) errato “stanziamento” a fatture da ricevere per € 35.000,00, in violazione del principio di competenza di cui all’art. 109 Tuir, poi mai ricevute neppure negli anni successivi;5)spese per consulenze legali per € 8.910,18 ritenute indeducibili per violazione dell’art. 108 comma 3 Tuir. Inoltre, si contestava la legittimità dell’esenzione degli interessi di cui all’art. 26 quater d.p.r. 600/1973, e quindi la mancata effettuazione della ritenuta sugli stessi ai sensi dell’art. 26, quinto comma, d.P.R. 600/1973, con ripresa a tassazione della somma di € 4.776.135,15, in quanto gli interessi pagati dalla contribuente alla GGP C Sarl, in realtà spettavano al “beneficiario effettivo”, e quindi alla società che aveva erogato il primo prestito, la M.S., poi, a seguito di vari passaggi societari, giunto sino alla contribuente, asseritamente con le medesime clausole contrattuali. Ai fini Iva veniva emesso il secondo avviso di accertamento, con cui si rilevava l’assenza del documento di spesa, con applicazione della sanzione.
2. La Commissione tributaria provinciale di Venezia, riuniti i ricorsi, annullava il rilievo in materia di ritenute, come pure quelli (n. 1 in parte) relativi alla consulenza resa dallo studio C.S., ed al mancato riaddebito di interessi passivi pagati alla Banca Intesa (n.2), confermando i restanti.
3. L’Agenzia delle entrate proponeva appello, mentre la società proponeva appello incidentale nei confronti della sentenza nella parte in cui aveva confermato i rilievi sub 1 (limitatamente alla consulenza del dott. B.), sub 3, sub 4 e sub 5, nonché quello in materia di Iva, e riproponeva, con appello incidentale condizionato, le eccezioni preliminari relative all’omesso contraddittorio preventivo ed alla illegittima utilizzazione dell’accertamento parziale di cui all’art. 54 d.p.r. 633/1972.
4. La Commissione tributaria regionale del Veneto accoglieva l’appello incidentale della società, in relazione alla consulenza del dott. B., ritenendo inerente il costo, confermando nel resto. In particolare, con riferimento all’appello principale della Agenzia delle entrate, quanto all’esenzione da ritenute sugli interessi pagati alla GGP C Sarl, riteneva che la stessa fosse il beneficiario effettivo in quanto essa, quale vera holding di partecipazione, svolgeva il ruolo di centrale finanziaria per l’intero gruppo, provvedendo a tutte le esigenze di tesoreria e finanziamento, armonizzando gli investimenti e gestendo i flussi finanziari. Tale società aveva l’effettiva disponibilità e titolarità del reddito percepito, senza alcun obbligo giuridico a retrocedere i proventi percepiti a soggetti terzi, come emergeva dal conto economico. Erano, poi, indeducibili i costi relativi a consulenze per la redazione del bilancio consolidato. Era erroneo lo “stanziamento” a fatture da ricevere, in quanto non era mai giunta la relativa fattura passiva, sicché il costo non era né certo né quantificabile.
5. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.
6. Resiste con controricorso la società, che propone ricorso incidentale e, in caso di accoglimento del ricorso principale, ripropone le questioni procedimentali relative ai due avvisi di accertamento, depositando memoria scritta.
7. L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso al ricorso incidentale.
Ragioni della decisione
1. Preliminarmente,devono essere rigettate le eccezioni preliminari sollevate dalla contribuente tese alla dichiarazione di improcedibilità del ricorso per cassazione.
1.1. La prima eccezione, relativa alla prospettata violazione dell’art. 369, secondo comma, nn. 2 e 4, c.p.c., non avendo l’Agenzia delle entrate indicato né allegato gli atti processuali ed i documenti sii cui si fonda il ricorso, né prodotto la copia autentica della sentenza impugnata, né dato atto di avere presentato istanza di trasmissione degli atti vistata dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia, è infondata.
1.2. Invero, quanto al mancato deposito da parte del ricorrente della copia autentica della sentenza impugnata, si rileva che per questa Corte il ricorso di cassazione non è improcedibile ex art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., per omesso deposito da parte del ricorrente della sentenza impugnata, ove quest’ultima risulti comunque nella disponibilità del giudice in quanto prodotta dalla parte resistente, atteso che una differente soluzione, di carattere formalistico, determinerebbe un ingiustificato diniego di accesso al giudizio di impugnazione in contrasto con il principio di effettività della tutela giurisdizionale (Cass., sez. 5, 14 febbraio 2019, n. 4370; anche Cass., sez.un., 10648 del 2 maggio 2017).
La sentenza impugnata, nella specie, risulta negli atti del fascicolo in copia autenticata.
1.3. Inoltre, quanto alla mancata indicazione degli atti processuali e dei documenti su cui si fonda il ricorso, va evidenziato che per questa Corte, a sezioni unite, in tema di giudizio per cassazione, per i ricorsi avverso le sentenze delle commissioni tributarie, la indisponibilità dei fascicoli delle parti (i quali, ex art. 25, secondo comma, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 restano acquisiti al fascicolo d’ufficio e sono restituiti solo al termine del processo) comporta la conseguenza che la parte ricorrente non è onerata, a pena di improcedibilità ed ex art. 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., della produzione del proprio fascicolo e per esso di copia autentica degli atti e documenti ivi contenuti, poiché detto fascicolo è già acquisito a quello d’ufficio di cui abbia domandato la trasmissione alla S.C. ex art. 369, terzo comma, cod. proc. civ., a meno che la predetta parte non abbia irritualmente ottenuto la restituzione del fascicolo di parte dalla segreteria della commissione tributaria; neppure è tenuta, per la stessa ragione, alla produzione di copia degli atti e dei documenti su cui il ricorso si fonda e che siano in ipotesi contenuti nel fascicolo della controparte (Cass., sez.un., 3 novembre 2011, n. 22726; Cass., sez. 5, 30 novembre 2017, n. 28695).
Si evidenzia, peraltro, che nel fascicolo d’ufficio si rinviene l’istanza di trasmissione degli atti alla Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 369, terzo comma, c.p.c., presentata dall’Avvocatura generale alla Commissione tributaria regionale del Veneto in data 26-10-2012.
1.4. Non v’è stata, poi, violazione del principio di autosufficienza, in quanto la ricorrente, seppure in modo molto conciso, ha provveduto alla esposizione sommaria dei fatti di causa ed ha articolato i due motivi di impugnazione in modo specifico, con l’indicazione della regioni poste a fondamento degli stessi.
Inoltre, per questa Corte non viola il principio di autosufficienza, avuto riguardo alla complessità della controversia, il ricorso per cassazione confezionato mediante inserimento di copie fotostatiche o scannerizzate di atti relativi al giudizio di merito, qualora la riproduzione integrale di essi sia preceduta da una chiara sintesi dei punti rilevanti per la risoluzione della questione dedotta (Cass., sez.un., 24 febbraio 2014, n. 4324; Cass., sez. 5, 24 luglio 2018, n. 19562). Nella specie, la ricorrente Agenzia delle entrate, prima di riprodurre le porzioni rilevanti degli avvisi di accertamento ha focalizzato le questioni dirimenti per la soluzione della controversia.
1.5. Con il primo motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate deduce “violazione e falsa applicazione dell’articolo 26 quater del d.p.r. 600/1973, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. Contraddittorietà ed insufficienza della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.”, in quanto la contribuente ha restituito la somma di 38,2 milioni di euro alla propria controllante lussemburghese GGP C San, per il finanziamento ricevuto. La dinamica societaria si sviluppava intorno all’interesse del gruppo ABN Ambro di acquisire nel 2003 la capogruppo GGP Forvaltning, con costituzione di una nuova struttura con al vertice la GGP Luxemburg SA e le due controllate GGP B San l e GGP C San. La società veicolo italiana G.P. Italia s.p.a. acquisiva poi le società italiane (la Alpina P & G s.p.a. e la GGP Italy s.p.a.) da una società di diritto svedese (GGP Sweden Forvaltning AB). Il gruppo ABN Ambro, quindi, aveva provveduto ad acquisire le altre società del gruppo GGP Forvaltning, tramite l’altra società veicolo GGP Secco AB. Dopo l’acquisizione le società italiane hanno effettuato la fusione, dando vita alla società contribuente GGP Italy s.p.a. Il pagamento in parte era stato effettuato con accollo della Prosecco s.p.a. (società veicolo) di un finanziamento in precedenza sottoscritto dalla venditrice con GGP C San. La contribuente, quindi, era debitrice della controllante GGP C Sarl per tale finanziamento accollato, costituito da due finanziamenti originari di € 104 e 15 milioni di euro, denominati Mezzanine e Pik, con la precisazione in bilancio che tale finanziamento era regolato “alle stesse condizioni con cui la controllante si è procurata da terzi la provvista finanziaria”. Il finanziamento della GGP C Sarl, quindi, non era altro che il ribaltamento di un precedente finanziamento proveniente, immutato nei contenuti, con una lunga catena finanziaria, da varie società del gruppo (in cima vi era la Lender, poi la M.S., con contratto del 22-10-2003 e finanziamento dalla Royal bank of Scotland; quindi a scendere la GGP B Sarl con contratto sempre del 22-10-2003; poi la GGP C San, con contratto del 3-12-2003 fra GGP B e GGP C ed infine la GGP Italia s.p.a., con contratto del 9-12-2003, fra GGP C e Secco AB, poi accollato da GGP Italy). Mutuataria finale è, dunque, la contribuente GGP Italy, ed il contratto di finanziamento tra GGP Italy e GGP C è speculare al contratto tra GGP C e GGP B. La GGP C non è allora beneficiaria effettiva, in quanto, le somme non le possono essere fiscalmente imputate e gli interessi, appena ricevuti, devono essere girati alla controllante senza poterne disporre. La GGP C Sarl è, quindi, un intermediario, anche in relazione al principio di prevalenza della sostanza sulla forma, quindi con esame dei risultati economici perseguiti in concreto. La valutazione del carattere artificioso di una società è maggiormente importante in caso di holding che si limiti a detenere partecipazioni, senza svolgere alcuna attività sostanziale. Vi è, poi, un breve lasso temporale tra la percezione del reddito e la sua rimessa al beneficiario finale. Inoltre, il margine di utile per la GGP C Sarl è molto modesto, pari allo 0,125 %. L’esenzione di cui all’art. 26 quater d.p.r. 600/1973 va interpretata in modo restrittivo trattandosi di norma di esenzione, mentre l’indagine va improntata sul singolo rapporto contrattuale di finanziamento e non sull’attività posta in essere in generale dalla GGP C San l all’interno del gruppo quale coordinatrice finanziaria.
1.6. Tale motivo è infondato.
1.7. Anzitutto, si premette che il motivo, seppure articolato al suo interno nei vizi di violazione di legge e di motivazione, in realtà consente di discernere con facilità le linee argomentative di ciascuna censura, tanto che la stessa controricorrente articola le sue difese in modo specifico per ciascuna censura.
Infatti, per questa Corte è ammissibile il ricorso per cassazione il quale cumuli in un unico motivo le censure di cui all’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., allorché esso comunque evidenzi specificamente la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (Cass., sez. 5, 11 aprile 2018, n. 8915), essendo sufficiente che la formulazione del motivo consenta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate, sì da consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se essere fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (Cass., sez.un., 6 maggio 2015, n. 9100).
1.8. Quanto al merito, si rileva che l’unica questione in esame attiene alla individuazione del beneficiario effettivo del pagamento degli interessi relativi al finanziamento erogato in favore della società contribuente, in realtà accollato dalla G.P., poi fusa all’interno della contribuente GGP Italy s.p.a. Pertanto, sussistono pacificamene tutti gli altri presupposti di cui all’art. 26 quater d.P.R. 600/1973.
1.9. L’art. 26 quater d.P.R. 600/1973, che prevede, in presenza di particolari condizioni, l’esenzione degli interessi da ogni imposta, stabilisce, al quarto comma lettera c che “la disposizione di cui al comma 1 si applica se:… le società non residenti.. .sono beneficiarie effettive dei redditi indicati nel comma 3” e che “a tal fine, sono considerate beneficiarie effettive di interessi o canoni:1) le predette società, se ricevono i pagamenti in qualità di beneficiario finale e non di intermediario, quale agente, delegato o fiduciario di un’altra persona”.
1.10. Questa Corte, con più pronunce conformi, ha delineato le caratteristiche del “beneficiario effettivo”, in relazione a dividendi, interessi e canoni. Si è evidenziato che la prassi internazional-tributaria ha elaborato il concetto di “beneficiario effettivo” al fine di contrastare quelle pratiche volte proprio a trarre profitto dalla autolimitazione della potestà impositiva statale; in particolare, in ambito OCSE, il concetto di “beneficiario effettivo” è comparso per la prima volta nel modello di convenzione del 1977, negli articoli 10 e 11 (dedicati rispettivamente a regime di tassazione di dividendi e degli interessi).
La prassi statale si è, quindi, conformata a tale orientamento, adottando la clausola del “beneficiario effettivo” (“beneficial owner”) nei diversi trattati sottoscritti (Cass., sez. 5, 19 dicembre 2018, n. 32840; Cass., sez. 5, 16 dicembre 2015, n. 25281; Cass., sez. 5, 28 dicembre 2016, n. 27116).
Tale clausola generale dell’ordinamento fiscale internazionale è volta ad impedire che i soggetti possano abusare dei trattati fiscali attraverso pratiche di treaty shopping, con lo scopo di riconoscere la protezione convenzionale a contribuenti che, altrimenti non ne avrebbero avuto diritto o che avrebbero subito un trattamento fiscale, comunque, meno favorevole. Il treaty shopping implica lo sfruttamento delle differenze nei trattati stipulati fra le varie nazioni, mediante la frapposizione di un soggetto residente in uno Stato terzo (conduit) nel flusso reddituale tra lo Stato della fonte e quello del beneficiario effettivo.
Pertanto, può fruire dei vantaggi garantiti dai trattati il “beneficiario effettivo”, ossia solo il soggetto sottoposto alla giurisdizione dell’altro stato contraente, che abbia l’effettiva disponibilità giuridica ed economica del provento percepito, realizzandosi altrimenti una traslazione impropria dei benefici convenzionali o addirittura un fenomeno di non imposizione (Cass., sez. 5, 30 settembre 2019, n. 24287).
Infatti, nel caso degli agenti, dei nominees e delle conduit companies, che operano quali fiduciari, il precettore degli interessi non ne è il beneficiario effettivo, in quanto il medesimo non ha il diritto di disporre degli interessi percepiti, ma ha l’obbligo di trasferirli ad altro soggetto. La società conduit è un soggetto che si frappone nei rapporti tra erogante e beneficiario finale, come soggetto percipiente solo formalmente, la cui costituzione non è supportata da motivazioni economiche apprezzabili diverse dal risparmio fiscale.
La società “condotto” funge da mero “canale di transito” dei redditi, quindi dalla fonte al beneficiario finale, sicché la scelta di “canalizzazione” si giustifica unicamente nelle più vantaggiose implicazioni fiscali del “transito”.
Il “beneficiario effettivo”, invece, ha sia la titolarità che la disponibilità del reddito percepito e non è tenuto ad alcun trasferimento dello stesso a terzi (in tal senso anche circolare della Agenzia delle entrate 2 novembre 2005 n. 47/E). Non possono, quindi, essere ricomprese tra i “beneficiari effettivi” le “società relais” (società interposte), ossia società che, sebbene formalmente titolari di redditi, dispongono nella pratica soltanto di poteri molto limitati, risultando essere semplici fiduciarie o semplici amministratori agenti per conto delle parti interessate (in tal senso Corte Giustizia ue, 26 febbraio 2019, Causa C 115/16 N. Luxemburg; C 118/16, X Denmark; 119/16, C Danmark; C 299/16, z. Denmark, paragrafo 6). Devono, quindi, essere utilizzate le norme anti-abuso volte a far prevalere la sostanza sulla forma nonché le regole di “sostanza economica” (cfr. paragrafo 7 della decisione citata).
Si è precisato nella versione 2014 del Commentario al modello OCSE che rileva ai fini della individuazione del beneficiario effettivo, non già il diritto esclusivo ad usare e godere dei flussi reddituali (“the full right to use and enjoy”), come previsto nel draft (bozza) del 2011, ma la circostanza che il diritto del beneficiario dei flussi non sia vincolato da specifici obblighi legali o contrattuali di ritrasferimento (“recipient’s right to use and enjoy …is constrained by a contractual or legai obligation to pass on the payment received to another person”; è esclusa, quindi, la qualifica di beneficiario effettivo qualora “il diritto di disporre e godere…è limitato da obbligazioni contrattuali o legali a trasferire il pagamento ricevuto ad altro soggetto”). Pertanto, nella prassi OCSE nei casi di agente, nominee, conduit company, fiduciario o amministratore, il percettore non è qualificabile come beneficiario effettivo perché il suo diritto di godere e disporre dei flussi è limitato da un’obbligazione legale o contrattuale di trasferire i pagamenti ricevuti a terzi (in tal senso anche nota n. 17/2016 di Assonime, analizzando la beneficiai ownership clause nel contesto specifico dei “dividendi” in uscita). Tale obbligo che, di norma, deriva da documenti legali, ma può anche discendere da circostanze di fatto, deve però riguardare lo specifico pagamento ricevuto.
Questa Corte ha, poi, affermato che il Commentario Ocse, pur non avendo valore normativo, costituisce, comunque, una raccomandazione diretta ai paesi aderenti all’OCSE (Cass., sez. 5, 28 luglio 2006, n. 17206).
Inoltre, il valore interpretativo del modello Ocse si rinviene in numerosi precedenti di legittimità (Cass., 32842/2018, in tema di royalties per il concetto di “beneficiario effettivo”; Cass., 7 settembre 2018, n. 21865, in materia di redditi percepiti all’estero dagli artisti; Cass., 10 novembre 2017, n. 26638, in relazione alla Convenzione Italia-Federazione Russa per l’individuazione della residenza della persona fisica; Cass., 33218/2018 con riferimento alla stabile organizzazione).
1.11. Questa Corte ha anche affermato, seppure in materia di dividendi, che anche una subholding “pura” può essere considerata “beneficiario effettivo”, ove gli stessi siano regolarmente appostati in bilancio e siano quindi aggredibili dai creditori e liberamente utilizzabili (Cass., sez. 5, 28 dicembre 2016, n. 27112). In particolare, si è ritenuto che la circostanza che la società percipiente detenga, tra le proprie attività, unicamente delle partecipazioni di controllo, così come l’eventualità che essa stessa sia a sua volta controllata interamente da altra società non residente in uno Stato stipulante (c.d. controllo “a cascata”), non comprovano, di per sé, l’artificiosità ovvero la strumentalità della medesima. In tal caso, è necessario valutare alcuni parametri-spia per valutare in concreto la sussistenza dell’unico elemento normativamente rilevante ai fini della nozione di “beneficiario effettivo”, costituito dalla padronanza ed autonomia della società-madre percipiente, sia nell’adozione delle decisioni di governo ed indirizzo delle partecipazioni detenute, sia nel trattenimento ed impiego dei “dividendi” percepiti (tale era il caso in cui si è pronunciata questa Corte), in alternativa alla loro tassazione alla capogruppo sita in un Paese terzo. In caso di holding o subholding “pura”, quindi, non può farsi riferimento agli elementi caratteristici della società operativa, dando rilievo ai modesti crediti operativi, alla mancanza di dipendenti e di una struttura organizzativa adeguata, dovendosi, invece, apprezzare l’autonomia organizzativa e gestionale della società. Inoltre, la relazione di controllo tra capogruppo ed holding, o sub-holding, avente ad oggetto la pura detenzione di partecipazioni geografiche non esclude di per sé che quest’ultima sia dotata di autonomia organizzativa e gestionale.
1.12.In recenti pronunce della Corte di Giustizia Ue, proprio in tema di individuazione del beneficiario effettivo per i pagamenti di “interessi” e di “canoni” fra società consociate di Stati membri diversi, si è affermato che la prova di una pratica abusiva richiede, da una parte, un insieme di circostanze oggettive dalle quali risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa dell’Unione, l’obiettivo perseguito da tale normativa non sia stato conseguito e, dall’altra, un elemento soggettivo consistente nella volontà di ottenere un vantaggio derivante dalla normativa dell’Unione per mezzo della creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento (Corte Giustizia Ue, 26 febbraio 2019, Cause nn. 115/16, N. Luxemburg; 118/16, X Denmark; 119/16, C. Danmark; 299/16, Z Denmark; paragrafo 124).
Inoltre, nella decisione sopra indicata, si rileva che la natura artificiosa di una costruzione può risultare avvalorata dalla circostanza che il gruppo di società sia strutturato in modo tale che la società percettrice degli interessi versati dalla società debitrice debba essere stessa ritrasferire gli interessi medesimi ad un terza società, non rispondente ai requisiti d’applicazione della direttiva 2003/49 (regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni), con la conseguenza che essa realizza unicamente un utile imponibile insignificante, agendo da società interposta al fine di consentire il flusso finanziario dalla società debitrice verso l’entità effettiva beneficiaria delle somme versare (paragrafo 130). La circostanza che una società agisca come società interposta può essere accertata quando l’unica attività della medesima sia costituita dal percepimento degli interessi e dal loro successivo trasferimento al beneficiario effettivo (paragrafo 131; anche Corte Giustizia Ue, 26 febbraio 2019, Causa C 116/16, T Danmark; n. 117/16, y Denmark, in tema di “dividendi”, al paragrafo 101).
Tre sono, poi, le condizioni, per l’individuazione del “beneficiario effettivo”. In primo luogo la società deve rivestire una delle forme elencate nell’allegato della direttiva 2004/49 (ndr direttiva 2003/49); in secondo luogo esse deve essere considerata, in base alla normativa fiscale di uno Stato membro, come se fosse ivi fiscalmente residente e non essere considerata, in base ad una convezione contro le doppie imposizioni, come fiscalmente residente al di fuori dell’Unione europea; in terzo luogo, esse deve essere soggetta ad una delle imposte elencate all’articolo 3, lettera a), iii), della direttiva 2003/49, senza beneficiare di un’esenzione (cfr. paragrafo 147 della decisione suindicata; anche paragrafo 120 di Corte Giustizia, 26 febbraio 2019, Causa C 116/16, T Danmark; n. 117/18, Y Denmark).
L’autorità nazionale, poi, non è tenuta ad individuare la o le entità che essa consideri beneficiari effettivi degli “interessi”, al fine di negare ad una società il riconoscimento dello status di beneficiario effettivo degli stessi (paragrafo 145).
1.13.Nella specie, il giudice di appello si è attenuto ai principi giurisprudenziali sopra citati, fornendo una precisa e congrua motivazione, nella quale ha indicato con precisione le ragioni per cui la GGP C Sarl era l’effettivo beneficiario e non la capogruppo, o comunque, le società poste al vertice della catena di controllo (come la Monurnental oppure la Lender o altre ancora).
In particolare, si è osservato in motivazione che la GGP C Sarl, che percepisce proventi dalle controllate, svolge il ruolo di una vera e propria holding di partecipazione, come centrale finanziaria internazionale dell’intero gruppo, per gestire tutte le esigenze di tesoreria e finanziamento. Il giudice di appello ha chiarito che la nozione di beneficiario effettivo va verificata alla luce della “disponibilità” e della “titolarità” del reddito percepito.
Il reddito della GGP C Sarl, poi, è fiscalmente imputabile e viene tassato nel Paese di residenza. La holding GGP C Sarl, dunque, ha incarico di armonizzazione degli investimenti e di gestione dei flussi finanziari, ad essa confluendo i proventi finanziari delle società del gruppo e non soltanto quelli della contribuente Global Garden. Sui proventi che affluiscono presso la GGP C Sarl, poi, non vi è alcun obbligo giuridico a retrocederli a soggetti terzi, godendo di piena titolarità e disponibilità. Dal conto economico della GGP C Sarl, infatti, emergono utili di esercizio, non insignificanti, che provengono proprio dallo svolgimento di tale attività e non è in alcun modo ravvisabile il “ribaltamento” dei proventi allegato dall’Agenzia delle entrate.
Tale motivazione, analitica e pienamente convincente, non è affatto scalfita dalle deduzioni della ricorrente Agenzia delle entrate che si limita a contestare la decisione solo perché ha esaminato la fattispecie nella sua interezza, mentre avrebbe dovuto soffermarsi unicamente sul singolo contratto di finanziamento, con il debito accollato dalla G.P. s.p.a., poi fusa con la contribuente G.G.I. s.p.a., e con lo strettissimo legame esistente tra questo finanziamento (intercorso tra la GGP C Sarl e la GGP Secco AB), e quelli anteriori posti nella parte alta della catena societaria, tra la GGP C Sarl (mutuataria) e la GGP B Sarl (mutuante) e tra la GGP B Sarl (mutuataria) e la M.S. (mutuante), sino alla Lender. Per l’Agenzia, si tratterebbe dello stesso finanziamento, costituito in realtà da due finanziamenti (Mezzanine e Pik), con le medesime condizioni contrattuali, sicché l’effettivo beneficiario finale degli interessi da finanziamento non era la GGP C Sarl, ma la Monument Sarl, o altro soggetto del gruppo.
Al contrario, il giudice di appello ha esaminato la fattispecie in tutte le sue articolazioni e, soprattutto, ha valutato il ruolo svolto dalla sub-holding pura GGP C Sarl all’interno del gruppo ABN Ambro, che, attraverso le due società veicolo (G.P. s.p.a. e GGP Secco AB), con una operazione di leveraged buyout (acquisto di società con il ricorso all’indebitamento), ha inteso acquisire nel dicembre 2003 tutte le partecipazioni del gruppo GGP Sweden Forvaltning (del valore complessivo di circa C 594 milioni), affidando alla GGP Secco, di diritto svedese, l’incarico di acquisire tutte le partecipazioni estere del gruppo ed alla G.P. Italia s.p.a. di acquisire unicamente le partecipazioni italiane (GGP Italy s.p.a. e la Alpina P & G s.p.a.), con ricorso al capitale di debito per C 407 milioni.
Con il conseguimento di prestiti, quindi, si acquisivano partecipazioni societarie, che poi avrebbero consentito, con i loro futuri flussi di cassa, di estinguere i debiti da restituzione. La società veicolo assumeva il controllo della società target, che generava flussi futuri e consentiva di ripianare i debiti contratti per l’acquisizione. Poi si verificava la fusione della società target nella società veicolo o viceversa.
Il finanziamento da GGP C Sarl a GGP Secco Ab, che si collocava all’interno di un più ampio contratto di finanziamento dell’importo complessivo di C 204,9 milioni, che veniva poi accollato dalla contribuente (in realtà prima da G.P. poi fusa nella contribuente GGP Italy s.p.a.), era solo uno dei tanti finanziamenti erogati a varie società per poter portare a termine l’unica e complessa operazione, sì da non potersi isolare e cristallizzare in un monolitico negozio giuridico, insensibile al quadro contrattuale generale in cui si inseriva, caratteristico della dinamica dei gruppi societari.
2.Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 109 comma 5 del Tuir e dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. Contraddittorietà ed insufficienza della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.”, in quanto il giudice di appello è incorso in errore quando ha ritenuto inerenti le spese sostenute dalla contribuente per pagare il compenso al dott. B., che aveva espletato una perizia in favore della società al fine di valutare il valore di quanto conferito nella stessa da parte della Stiga Forvalting AB.
L’art. 2343 c.c., infatti, prevede, in tale ipotesi, che chi conferisce beni in natura o crediti deve presentare la relazione giurata di un esperto designato dal tribunale, sicché le spese dovevano essere sostenute non dalla contribuente conferitaria, ma dalle società conferente.
2.1. Il motivo è infondato.
Invero, l’art. 2343 c.c. (stima dei conferimenti di beni in natura e di crediti) prevede al primo comma che “Chi conferisce beni in natura o crediti deve presentare la relazione giurata di un esperto designato dal tribunale nel cui circondario ha sede la società, contenente la descrizione dei beni e dei crediti conferiti, l’attestazione che il loro valore è almeno pari a quello ad essi attribuito ai fini della determinazione del capitale sociale e dell’eventuale sovrapprezzo e i criteri di valutazione seguiti“. Al secondo comma dell’art. 2343 c.c. si prevede, poi, che “si applicano le disposizioni dell’articolo 64 del codice di procedura civile”.
In realtà, tale disposizione è volta a tutelate un duplice ordine di interessi: da un lato, l’interesse dei creditori e dei terzi alla corrispondenza tra capitale dichiarato e capotale apportato; dall’altro, l’interesse degli azionisti a evitare sopravvalutazione dei beni conferiti da uno o più di essi.
Pertanto, se l’esperto nominato ai sensi dell’art. 64 c.p.c. da parte del tribunale mira soprattutto alla salvaguardia degli interessi dei creditori e dei terzi (ma anche dei soci), al fine di garantire l’effettività del capitale sociale, sicché le spese per l’espletamento dell’incarico sono poste a carico del conferente, le spese della perizia redatta dal tecnico incaricato dalla società conferitaria, per la tutela degli interessi specifici degli azionisti, sono per tale ragione a carico della stessa e, quindi, inerenti alla sua attività.
Infatti, l’art. 2343, terzo comma, c.c., prevede che “gli amministratori devono, nel termine di centottanta giorni dalla iscrizione della società, controllare le valutazioni contenute nella relazione indicata nel primo comma e, se sussistano fondati motivi, devono procedere alla revisione della stima”. Il quarto comma stabilisce che “se risulta che il valore dei beni o dei crediti conferiti è inferiore di oltre un quinto a quello per cui avvenne il conferimento, la società deve proporzionalmente ridurre il capitale sociale, annullando le azioni che risultano scoperte”.
Trattasi di una verifica di congruità della stima da parte degli amministratori, non essendo più previsto che i sindaci partecipino alla fase di controllo della relazione della stima, pur potendo gli stessi intervenire ai sensi dell’art. 2403 c.c. Pertanto, tale controllo da parte degli organi societari assolve ad una funzione, non soltanto a tutela del capitale sociale, ma pure di verifica degli assetti tra i soci, anche quindi per la loro tutela. Infatti, mentre l’allegazione della perizia è ritenuto solo un onere per il socio conferente, ciò che rileva è proprio la successiva attività svolta dagli organi sociali, perché attraverso la stessa diviene definitivo il valore assegnato al conferimento e la posizione relativa del socio.
Il conferimento dell’incarico peritale ad un professionista da parte della società conferitaria per controllare i risultati della stima dell’esperto nominato dal tribunale, allora, è sicuramente inerente all’attività della società.
Il giudice di appello ha, quindi, correttamente e compiutamente, deciso sul punto affermando con nettezza che, in relazione alla consulenza professionale fatturata per C 166.400,00 del dott. B. “è provata l’inerenza’ ; vistiak eln la declaratoria delle operazioni effettuate rinvenibili in fattura ed ascrivibili all’attività della società”.
3.Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “omessa pronuncia (violazione degli artt. 112 c.p.c.e 36 d.lgs. 31.12.1992 n. 546);
omissione totale d motivazione (violazione degli artt. 111 Cost. e ancora 36 d.lgs. 546/92), in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.”, in quanto il giudice di appello ha omesso di motivazione in ordine alla ripresa a tassazione riguardante il “mancato riaddebito” degli interessi passivi alla GGP Sweden Forvalting da parte della contribuente. In particolare, con l’avviso di accertamento si è evidenziato che il prestito di C 94.000.000,00 erogato dalla GGP Italy s.p.a. (contribuente) in favore della GGP Sweden Forvalting il 12-7- 2007, proveniva da un prestito di C 75.000.000,00 erogato dalla Banca, sempre il 12-7-2007, alla contribuente. Con tale prestito la GGP Sweden aveva estinto il 12-7-2007 il proprio debito nei confronti della GGP C San, la quale aveva apportato la stessa somma al capitale della GGP Sweden, sempre in data 12-7-2007, che aveva restituito la somma di C 94.000.000,00 alla contribuente, che poi aveva estinto il debito con la Banca il 19-7-2007. Il prestito alla società svedese, dunque, era durato un giorno, mentre il finanziamento alla contribuente aveva avuto la durata di una settimana. Tali interessi passivi per C 90.598,96, dunque, in favore della Banca, erano riconducibili alla società svedese, in quanto il finanziamento era stato contratto esclusivamente a tale fine. L’importo degli interessi pagato alla banca dalla contribuente doveva, in realtà, essere riaddebitato alla GGP Sweden e venivano recuperati a tassazione ai sensi dell’art. 85 e 109, terzo comma, d.P.R., 917/1986, quali ricavi occulti.
3.1.Tale motivo è fondato, con riferimento al vizio dedotto di omessa motivazione.
Invero, nella motivazione della sentenza del giudice di appello non si fa alcuna menzione del “mancato riaddebito” degli interessi passivi, salvo sparute considerazioni nella parte della motivazione dedicata allo “svolgimento del processo”, nel quale si riportano le rispettive posizioni delle parti sulla questione specifica.
4.Con il primo motivo del ricorso incidentale la società deduce “sugli oneri correlati alle consulenze professionali relative alla redazione del bilancio consolidato: omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.)”, in quanto il giudice di appello, si pronuncia in modo del tutto insufficiente sulla indeducibilità delle spese per consulenze professionali relative alla redazione del bilancio consolidato, nonostante tali consulenze siano servite per risolvere le problematiche connesse all’applicazione dei principi contabili internazionali Ias/Ifrs, sia al bilancio consolidato, sia al bilancio di esercizio della società.
4.1 Tale motivo è infondato.
È chiaro, infatti, che poiché il bilancio consolidato è redatto dalla consolidante ai sensi dell’art. 122 Tuir, le spese per le consulenze professionali necessarie per la redazione del bilancio consolidato non possono che gravare sulla consolidante e non sulla consolidata, la quale si limita, ai sensi dell’art. 121 Tuir, a compilare il modello della dichiarazione dei redditi al fine di comunicare alla controllante la determinazione del proprio reddito complessivo, delle ritenute subite, delle detrazioni e dei crediti di imposta.
Il giudice di appello ha reso, sul punto, idonea e congrua motivazione, affermando che i costi per consulenze professionali relative alla redazione del bilancio consolidato sono stati sostenuti per assistere la società nell’esame delle problematiche inerenti alla redazione del bilancio di gruppo e “nell’interesse esclusivo della società controllante chiamata a redigere il bilancio consolidato”.
5.Con il secondo motivo del ricorso incidentale la società deduce “sullo stanziamento a fatture da ricevere: violazione e falsa applicazione dell’art. 109 Tuir, nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 67 del d.p.r. 600/1973 (art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.)”, in quanto erroneamente il giudice di appello ha ritenuto che, in relazione allo “stanziamento fatture da ricevere” non esisteva alcun documento da ricevere o ricevuto successivamente, sicché il costo non era certo nell’esistenza né quantificabile nell’importo. Per la società, le fatture da ricevere, “pur non essendo state ancora materialmente ricevute dalla Società alla data di redazione del bilancio”, sono, nella sostanza, fatture “già emesse”, in quanto, da un lato, recano la data dell’esercizio, e dall’altro, si presentano determinate nell’ammontare. La circostanza che il documento di spesa definitivo relativo a tale stanziamento non sia successivamente pervenuto alla società non incide sui requisiti di certezza e obiettiva determinabilità. Inoltre, si sarebbe dovuto necessariamente rendere “neutrale” l’imputazione a sopravvenienze attive dell’importo corrispondente al precedente accantonamento, che successivamente era stato assoggettato a tassazione. Infatti, la fattura da ricevere era stata chiusa tramite lo storno del precedente stanziamento e l’imputazione dell’importo a sopravvenienza attiva.
Il giudice di appello avrebbe dovuto, quindi, “detassare” la sopravvenienza attiva che ha concorso alla formazione del reddito nel periodo di imposta in cui è stata imputata.
5.1.Tale motivo è infondato.
Invero, è la stessa società ad ammettere che la fattura “da ricevere”, allocata in bilancio come “stanziamento fatture da emettere” e quindi costituente una forma di “accantonamento” non è mai giunta alla società, né nel 2006, né successivamente, sicché è assente proprio il requisito della certezza del costo da sostenere ai sensi dell’art. 109 Tuir.
Quanto alla dedotta “doppia imposizione” il motivo è inammissibile, in quanto dalla lettura dello stesso non si comprende il tenore esatto della censura, e segnatamente come e quando sia avvenuto lo “storno” del precedente “stanziamento”, sì da rendere il motivo non autosufficiente, nonostante l’indicazione del documento in cui si troverebbe tale chiarificazione.
6.La questione in ordine alla illegittimità degli avvisi per “irregolarità di carattere processuale”, sollevata in primo grado e riproposta in appello, in assenza del previo contraddittorio preventivo, è infondata.
6.1.Invero, per questa Corte, a sezioni unite, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito (Cass., 29 ottobre 2018, n. 27421; Cass., sez.un., n. 24823/2015).
Nella specie, la società, in relazione alla ripresa Iva, non ha indicato né in primo grado né nel giudizio di legittimità, gli elementi che, in caso di contraddittorio endoprocedimentale, avrebbe fornito alla Agenzia delle entrate per determinare in diverso esito del procedimento di verifica.
7.La seconda questione riproposta in sede di appello condizionato e ribadita nel ricorso incidentale condizionato attiene alla illegittimità degli avvisi di accertamento in quanto non sussistevano i presupposti per l’accertamento parziale ai sensi dell’art. 54, quinto comma, d.P.R. 633/1972. Infatti, solo in caso di segnalazione da cui risulti ictu °cui/ l’esistenza di corrispettivi o di imposta in tutto o in parte non dichiarati o di detrazioni in tutto in parte non spettanti, può darsi luogo all’accertamento parziale.
7.1. Tale motivo è infondato.
Infatti, per questa Corte l’accertamento parziale dell’IVA e delle imposte dirette è uno strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile, ove le attività istruttorie diano contezza della sussistenza a qualsiasi titolo di attendibili posizioni debitorie e non richiedano, in ragione della loro oggettiva consistenza, l’esercizio di valutazioni ulteriori rispetto al mero recepimento del contenuto della segnalazione della Guardia di finanza, che fornisca elementi idonei a far ritenere la sussistenza di introiti non dichiarati, sicché, nel confronto con gli altri strumenti accertativi, risulta qualitativamente diverso poiché si vale di una sorta di “automatismo argomentativo”, per modo che il confezionamento dell’atto risulta possibile sulla base della sola segnalazione, senza necessità ulteriore approfondimento (Cass., sez. 5, 10 febbraio 2016).
Si è precisato che l’Ufficio ha facoltà di procedere all’accertamento parziale, previsto dall’art. 54, comma quinto, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, quando ad esso pervenga una segnalazione della Guardia di finanza che fornisca elementi idonei a far ritenere la sussistenza di introiti non dichiarati, non essendo l’utilizzazione di tale strumento subordinata ad una particolare semplicità delle indagini compiute (Cass., sez. 5, 13 febbraio 2009, n. 3566; Cass., sez. 5, 19 ottobre 2007, n. 21941; Cass., sez. 5, 12 maggio 2006, n. 11057).
Il presupposto dell’accertamento parziale non è, dunque, quello della evidenza “ictu ocull” dell’esistenza di corrispettivi o di imposta in tutto o in parte non dichiarati o di detrazioni in tutto o in parte non spettanti, come dedotto dalla società, ma esclusivamente il dato formale estrinseco che la comunicazione degli elementi a fondamento della pretesa provengano da organi od enti distinti ed esterni dall’Amministrazione finanziaria procedente, indipendentemente dalla maggiore o minore complessità delle indagini che hanno portato alla acquisizione di tali elementi (Cass., sez. 5, 10 febbraio 2016, n. 2633).
L’accertamento parziale, dunque, essendo uno strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile, non costituisce un metodo di accertamento autonomo rispetto alle previsioni di cui agli artt. 38 e 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 e 55 del d.P.R. n. 633 del 1972, bensì una modalità procedurale che ne segue le stesse regole, per cui può basarsi senza limiti anche sul metodo induttivo e il relativo avviso può essere emesso pur in presenza di una contabilità tenuta in modo regolare (Cass., sez. 5, 7 novembre 2019, n. 28681; Cass., sez. 5, 4 aprile 2018, n. 8406, ove si precisa che l’oggetto di tale accertamento non è circoscritto ad alcune categorie di reddito e la prova può essere raggiunta anche in via presuntiva; Cass., sez. 5, 28 ottobre 2015, n. 21984).
Inoltre, si rileva che l’accertamento parziale può essere fondato pure su una verifica generale, che abbia dato luogo ad un processo verbale di constatazione, in quanto la segnalazione degli organi indicati costituisce un semplice atto di comunicazione, distinto dall’attività istruttoria, da esso necessariamente presupposta (Cass.Civ., 28 ottobre 2015, n. 21992).
8.La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Veneto, sezione distaccata di Mestre, in diversa composizione, anche per provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il terzo motivo del ricorso principale; rigetta i restanti; rigetta il ricorso incidentale.
Cassa la sentenza impugnata, in ordine al motivo accolto, e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Veneto, sezione distaccata di Mestre, in diversa composizione, cui demanda anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.
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