CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 maggio 2022, n. 14840
Contratto a termine – Nullità delle clausole – Mancanza della specificità delle ragioni – Conversione del contratto vietata ex art. 18, D.L. n. 112/2008 – Natura dell’ente – Valutazione
Fatti di causa
1. La Corte d’Appello di Trieste ha respinto l’appello proposto dalla Fondazione Teatro N.G. da Udine avverso la sentenza del Tribunale di Udine che aveva accolto il ricorso di A.R. e, dichiarata la nullità delle clausole di durata apposte ai contratti stipulati in date 10 aprile 2009, 9 ottobre 2009 e 27 febbraio 2010, aveva accertato l’instaurazione fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e condannato la Fondazione al pagamento dell’indennità risarcitoria prevista dall’art. 32 della legge n. 183/2010, quantificata in cinque mensilità. Il Tribunale aveva, inoltre, ritenuto illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo del 30 luglio 2010 ed aveva disposto la reintegrazione della R., in favore della quale aveva anche riconosciuto il risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate dalla data della formale offerta della prestazione lavorativa.
2. La Corte territoriale, riassunti i fatti di causa ed i motivi di impugnazione, ha rilevato che la natura privata della Fondazione non poteva essere negata, come preteso dall’appellante, facendo leva sulla circostanza che la stessa fosse stata costituita dal Comune di Udine, perché la Fondazione non era mai stata inserita nell’organizzazione della P.A.; non aveva indetto concorsi pubblici per l’assunzione del personale; aveva sempre pacificamente applicato la contrattazione collettiva di diritto privato ed inoltre gli amministratori, ancorché nominati da enti pubblici, avevano esercitato la loro funzione senza vincoli di rappresentanza rispetto al soggetto designante.
3. Esclusa, quindi, l’invocata applicazione del d.lgs. n. 165/2001, il giudice d’appello ha ritenuto che le clausole appositive del termine fossero prive della necessaria specifica indicazione della causale, in quanto erano state utilizzate espressioni generiche, che facevano riferimento a non meglio precisate esigenze straordinarie connesse alle stagioni teatrali e non consentivano, quindi, di verificare l’effettiva sussistenza di ragioni temporanee idonee a giustificare il ricorso al contratto a tempo determinato.
4. Quanto al licenziamento, intimato «in via cautelativa … pur confermando la legittimità dei contratti a termine a suo tempo stipulati e l’insussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato», la Corte ha escluso che la Fondazione avesse provato la dichiarata riorganizzazione aziendale e la soppressione del posto ed ha rilevato anche che non era dato «comprendere come mai un lavoratore a termine, e quindi per definizione precario e transeunte nell’organizzazione aziendale, sia titolare di un posto ben individuato e passibile di soppressione …». Ha aggiunto che il licenziamento appariva chiaramente finalizzato ad impedire la piena operatività della pronuncia di conversione del rapporto a tempo determinato e, quindi, ha ritenuto pretestuosa la condotta datoriale.
5. Infine il giudice d’appello ha escluso che nella fattispecie la tutela spettante alla lavoratrice potesse essere limitata a quella prevista dall’art. 32 della legge n. 183/2010, giacché era stato anche intimato un licenziamento rivelatosi illegittimo.
6. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la Fondazione Teatro N.G. da Udine sulla base di sei motivi ai quali A.R. ha opposto difese con controricorso.
La Procura Generale ha concluso ex art. 23, comma 8 bis del d.l. n. 137/2020, convertito in legge n. 176/2020, per l’infondatezza del ricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo la Fondazione ricorrente denuncia, ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e addebita, in sintesi, alla Corte territoriale di non avere valutato la natura di organismo di diritto pubblico, delineata anche dal regolamento CE 2223/96 del 25 giugno 1996, che discende dall’essere l’ente un’emanazione dei soci pubblici fondatori (Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Comune e Provincia di Udine), i quali hanno costituito il patrimonio della Fondazione e provvedono alla nomina dei componenti dell’assemblea, che a loro volta eleggono il vicepresidente ed il collegio dei revisori, mentre è riservata al Sindaco del Comune di Udine la designazione del Presidente. Aggiunge che il giudice d’appello avrebbe dovuto esaminare gli indici dell’impronta pubblicistica della Fondazione, dalla quale discende, a detta della ricorrente, l’impossibilità di dare vita a rapporti di lavoro a tempo indeterminato in violazione delle procedure di evidenza pubblica stabilite dall’art. 35 del d.lgs. n. 165/2001 e dall’art. 18 del d.l. n. 112/2008, convertito dalla legge n. 133/2008.
2. La seconda censura, ricondotta al vizio cui al n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ., denuncia la violazione e falsa applicazione del Regolamento CE 25.6.1996 n. 2223/96, dell’art. 7, comma 2, del d.lgs. n. 104/2010, dell’art. 3, comma 26, del d.lgs. n. 163/2006, degli artt. 35 e 36 del d.lgs. n. 165/2001, degli artt. 18 e 23 bis del d.l. n. 133/2008, dell’art. 2126 cod. civ. e, riprendendo argomenti già sviluppati nel primo motivo, insiste sulla necessità di applicare alla Fondazione la disciplina dettata dalle norme richiamate in rubrica e, quindi, l’obbligo del reclutamento a mezzo di procedure di evidenza pubblica, dal quale discende la giuridica impossibilità di instaurare rapporti a tempo indeterminato che non rispettino le disposizioni limitative in tema di assunzione del personale dettate per gli enti locali.
3. Con il terzo motivo è denunciata, sempre ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la violazione del’art. 1 del d.lgs. n. 368/2001.
Premesso che la causale del contratto a termine può anche risultare indirettamente, attraverso un rinvio per relationem ad altri atti, la Fondazione rileva che le ragioni per le quali era giustificato il ricorso al contratto a tempo determinato risultavano specificate nelle delibere del Consiglio di Amministrazione, richiamate nei contratti del 2009. Sostiene che il giudice d’appello ha confuso la specificazione formale con quella sostanziale ed inoltre ha richiesto un requisito non previsto dal legislatore, ossia la straordinarietà della ragione giustificativa.
4. La quarta critica addebita alla sentenza gravata l’omesso esame di fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti. La ricorrente richiama la motivazione della pronuncia e sostiene che la stessa è affetta da «contraddizione logica» e «incongruenza giuridica» perché, da un lato nega la sussistenza del giustificato motivo oggettivo ed in particolare della soppressione del posto, dall’altro dà atto della riorganizzazione aziendale, del contenimento dei costi, dell’affidamento di più mansioni al personale in servizio a tempo indeterminato. Aggiunge che la prova testimoniale aveva confermato le circostanze allegate nella memoria difensiva dalla resistente, ed in particolare il fatto che, anche a causa della riduzione dei contributi pubblici, tutti i compiti del personale amministrativo erano stati svolti dagli assunti a tempo indeterminato, che avevano maggiore anzianità e carichi di famiglia rispetto all’originaria ricorrente, della quale avevano rilevato le mansioni.
5. Con il quinto motivo la Fondazione denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 604/1966 e dell’art. 18 della legge n. 300/1970 e, ripresi gli argomenti sviluppati nella quarta censura, sostiene che non poteva essere escluso il giustificato motivo oggettivo in quanto il licenziamento in tal caso richiede solo l’effettività della riorganizzazione aziendale e non anche che la stessa sia motivata dalla necessità di fronteggiare situazioni sfavorevoli o difficoltà economiche.
6. Infine la sesta critica addebita alla sentenza gravata la violazione o falsa applicazione dell’art. 32 della legge n. 183/2010 e dell’art. 18 della legge n. 300/1970 perché l’indennità onnicomprensiva ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore e, pertanto, non poteva la Corte territoriale liquidare a titolo di risarcimento del danno anche le retribuzioni che sarebbero maturate dal 30 maggio 2010, data del licenziamento, al 9 marzo 2014. Aggiunge che il licenziamento intimato prima della sentenza che dichiara la nullità del termine e ricostituisce il rapporto è privo di causa e, di conseguenza, andava liquidata la sola indennità onnicomprensiva.
7. Il primo ed il quarto motivo, entrambi formulati ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., sono inammissibili.
Il giudizio d’appello definito dalla sentenza impugnata, che ha confermato la pronuncia del Tribunale, è stato iscritto al n. 137/2014 R.G. e, pertanto, opera il principio secondo cui «nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter, comma 5, cod. proc. civ. (applicabile, ai sensi dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. (nel testo riformulato dall’art. 54, comma 3, del d.l. n. 83 cit. ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012) – deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse.» (Cass. n.22774/2016; negli stessi termini, fra le tante, Cass. n. 20994/2019).
Si aggiunga che il primo motivo non riguarda un fatto storico, bensì l’omessa valutazione dei cosiddetti indici pubblicistici della natura dell’ente, che il giudice d’appello non ha trascurato (pag. 5 della motivazione), ma ha ritenuto non decisivi ai fini dell’applicazione della normativa invocata.
Analogamente il quarto motivo, pur richiamando nella rubrica il vizio di cui al riformulato art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nella parte argomentativa si sofferma sulla carenza, sull’insufficienza e sulla contraddittorietà della motivazione, e ciò fa, da un lato, senza menzionare né l’art. 360 n. 4 cod. proc. civ. né l’art. 132 cod. proc. civ., dall’altro, senza denunciare la nullità della sentenza impugnata per difetto di un requisito essenziale.
Sussistono, pertanto, plurime ragioni di inammissibilità delle censure.
8. Il secondo motivo è infondato.
La Fondazione Teatro Nuovo non è ricompresa fra gli enti lirici di interesse nazionale di cui al d.lgs. n. 367/1996 ed è stata costituita ai sensi della L.R. n. 18/2000, art. 5, comma 15, secondo cui «l’Amministrazione regionale promuove la trasformazione dell’Associazione per il Teatro Giovanni da Udine, come costituita ai sensi dell’articolo 5, comma 29, della legge regionale 22 febbraio 2000, n. 2, in Fondazione, a decorrere dall’anno 2001. A tale scopo la Regione è autorizzata a partecipare alla costituzione della Fondazione e a concorrere, nell’esercizio finanziario 2001, alla sua dotazione patrimoniale, mediante appositi conferimenti finanziari, entro i limiti dell’importo previsto dallo stanziamento autorizzato ai sensi del comma 31 del medesimo articolo 5 della legge regionale 2/2000.»
L’art. 5, comma 29, della legge n. 2/2000 prevedeva che «Nell’ambito della funzione di promozione delle istituzioni pubbliche operanti nel settore dello spettacolo nel Friuli-Venezia Giulia, come disciplinata dalle disposizioni del titolo II della legge regionale 68/1981, l’Amministrazione regionale è autorizzata a partecipare, in qualità di socio fondatore, alla costituzione, di concerto con il Comune e con la Provincia di Udine, di un organismo associativo avente ad oggetto la gestione del “Teatro Giovanni da Udine”, aperto alla partecipazione di altri soggetti pubblici e privati. Ai fini della formalizzazione della partecipazione della Regione, lo schema dell’atto costitutivo e dello statuto dell’organismo associativo sono approvati dalla Giunta regionale.»
Si tratta, quindi, di un’associazione promossa dall’ente locale, poi trasformata in fondazione, che prevede la partecipazione di soggetti pubblici e privati e che non è riconducibile né alle pubbliche amministrazioni indicate dall’art. 1 del d.lgs. n. 165/2001 né alle società a controllo pubblico disciplinate dall’art. 18 del d.l. n. 112/2008.
Al riguardo vanno richiamati i principi recentemente espressi dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 10244 del 19 aprile 2021, con la quale è stato ribadito l’orientamento secondo cui la natura pubblica degli enti che concorrono a formare un nuovo soggetto giuridico non è sufficiente ad attribuire a quest’ultimo la medesima natura dei partecipanti, occorrendo, invece, ai sensi dell’art. 4 della legge 20 marzo 1975 n. 70, che l’istituzione dell’ente pubblico avvenga ad opera del legislatore, statale o regionale. E’ stato, altresì, affermato che la riconducibilità dell’ente alla nozione di “organismo di diritto pubblico”, di matrice europea ed elaborata per individuare le cosiddette “amministrazioni aggiudicatrici”, ossia i soggetti tenuti al rispetto delle regole dell’evidenza pubblica, non riguarda l’intera vita dell’ente, ma solo alcuni segmenti della sua attività, ossia quelli strettamente legati all’affidamento degli appalti, e lascia impregiudicata la possibilità dell’ente medesimo di ricorrere a strumenti di diritto privato per il raggiungimento delle finalità istituzionali cui è preposto.
Le Sezioni Unite, dunque, hanno ribadito l’orientamento, già espresso in tema di società controllate, secondo cui la partecipazione del soggetto pubblico non incide sulla natura della società, che resta assoggettata al regime giuridico proprio dello strumento privatistico adoperato, salve specifiche disposizioni di segno contrario o ragioni ostative di sistema che portino ad attribuire rilievo alla natura pubblica del capitale impiegato e del soggetto che possiede le azioni della persona giuridica (cfr. Cass. S.U. n. 24591/2016 e con riferimento ai rapporti di lavoro Cass. S.U. n. 7759/2017).
Si tratta di un principio con il quale la Sezione lavoro si è posta in continuità allorquando ha affrontato la questione dell’incidenza sulla disciplina dei rapporti a termine dell’art. 18 del d.l. n. 112/2008 (cfr. Cass. n. 3621/2018 e successive conformi), perché in quest’ultima disposizione è stata individuata una specifica norma derogatoria del regime generale e l’impossibilità giuridica della conversione del rapporto a termine affetto da nullità in contratto a tempo indeterminato è stata fondata, non sull’art. 36 del d.lgs. n 165/2001, applicabile alle sole Pubbliche Amministrazioni di cui all’art. 1 dello stesso decreto, né sulla natura pubblica del socio controllante, bensì sul carattere imperativo del richiamato art. 18, tale da incidere sulla validità dei contratti stipulati in violazione dello stesso.
Dalle considerazioni sopra esposte discende l’infondatezza del secondo motivo, perché nessuna delle norme richiamate nella rubrica, che prescrivono ai fini dell’assunzione il previo espletamento di procedure concorsuali o selettive, è applicabile alla Fondazione ricorrente, che ha natura privatistica, non ha assunto la forma societaria, non è assimilabile alle associazioni fra enti locali richiamate nell’art. 1 del d.lgs. n. 165/2001.
9. Infondato è anche il terzo motivo, perché la Corte territoriale ha deciso la controversia non discostandosi dall’orientamento consolidato secondo cui l’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 impone al datore di lavoro l’onere di indicare nel contratto in modo circostanziato e puntuale le ragioni che giustificano il ricorso al rapporto a tempo determinato, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonché l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto. Occorre, quindi, l’indicazione delle circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da fare emergere la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare, anche al fine di consentire la verifica sull’utilizzazione del lavoratore esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa (cfr. fra le tante Cass. n. 840/2019 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione).
E’ poi da escludere l’eccepita violazione del principio secondo cui la specificazione può risultare anche da altri atti, purché richiamati nel contratto per relationem, perché la sentenza impugnata, dopo avere evidenziato la genericità della causale «esigenze straordinarie emerse nella conduzione della stagione …», ha aggiunto che neppure le delibere del consiglio di amministrazione «attribuivano certamente concretezza alla previsione» (pag. 10 della motivazione). Gli atti esterni al contratto non sono stati, quindi, trascurati dal giudice d’appello.
Questa Corte ha già affermato, ed il principio deve essere qui ribadito, che l’interpretazione del contratto e dei testi esterni dallo stesso richiamati, condotta al fine di verificare il rispetto dell’obbligo di specificità della causale, è attività riservata al giudice del merito (cfr. fra le tante Cass. n. 24962/2021), sicché la censura, nella parte in cui fa leva su detti atti per sostenere che l’assunzione era giustificata da esigenze temporanee, sufficientemente specificate nel contratto, è inammissibile in quanto sollecita un giudizio di fatto non consentito in sede di legittimità.
10. La quinta censura, con la quale è denunciata la violazione dell’art. 3 della legge n. 604/1966, non può trovare accoglimento, perché il dispositivo della sentenza è conforme a diritto e questa Corte può limitarsi a correggere parzialmente, ex art. 384, comma 4, cod. proc. civ., la motivazione della decisione gravata. Ha indubbiamente errato il giudice d’appello nel richiamare l’orientamento, risalente nel tempo, secondo cui il giustificato motivo oggettivo è determinato, non da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il lavoratore motivata dall’esigenza di fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti.
Quell’orientamento, infatti, è stato superato a partire da Cass. n. 25201/2016 ed è ormai consolidato il principio alla stregua del quale è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, causalmente determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa (cfr. fra le tante Cass. n. 10699/2017).
E’ stato, però, precisato che il riscontro di effettività deve concernere la scelta aziendale di sopprimere il posto di lavoro occupato dal lavoratore e la verifica del nesso causale tra soppressione del posto e le ragioni dell’organizzazione aziendale addotte a sostegno del recesso, sicché può assumere rilevanza anche l’obiettivo perseguito dall’imprenditore ove lo stesso si riveli pretestuoso e carente di veridicità (Cass. n. 3819/2020).
Emerge dalla lettura complessiva della motivazione della sentenza impugnata che il giudice d’appello, nel ritenere illegittimo il licenziamento intimato alla lavoratrice, non si è limitato a fare leva sulla mancata allegazione di difficoltà finanziarie, ma ha anche escluso che fosse stata data la prova della “dichiarata riorganizzazione aziendale” ed ha ritenuto la “pretestuosità della condotta datoriale”, sottolineando che il licenziamento, intimato solo “in via cautelativa”, era stato strumentalizzato al raggiungimento dell’obiettivo di impedire la riammissione in servizio della R. in caso di accertamento dell’illegittimità dei termini apposti ai contratti a tempo determinato (pag. 13 e 14 della motivazione).
Si tratta, quindi, di un giudizio di merito inerente l’insussistenza della causale che non contrasta con l’interpretazione dell’art. 3 della legge n. 604/1966 di cui sopra si è dato conto e che non può essere sindacato in questa sede attraverso censure che finiscono per sollecitare una diversa valutazione delle risultanze probatorie, non consentita in sede di legittimità.
11. È, invece, fondato nei limiti di seguito precisati il sesto motivo di ricorso, perché ha errato la Corte territoriale nel ritenere corretta la condanna della Fondazione al pagamento dell’indennità risarcitoria onnicomprensiva prevista dall’art. 32 della legge n. 183/2010 in aggiunta al risarcimento del danno ex art. 18 della legge n. 300/1970, nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla legge n. 93/2012, quantificato in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento sino a quella dell’effettiva riammissione in servizio. Va premesso che dalla natura meramente reintegratoria della responsabilità civile discende il principio secondo cui il risarcimento non può creare in favore del danneggiato una situazione migliore di quella in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non fosse avvenuto, immettendo nel suo patrimonio un valore economico maggiore della differenza patrimoniale negativa indotta dall’illecito (cfr. in motivazione Cass. S.U. n. 12567/2018). Il principio si desume dall’art. 1223 cod. civ. e sta alla base, oltre che della regola del diffalco, espressa dal brocardo compensatio lucri cum damno, della disciplina dettata dall’art. 2055 cod. civ., che anche nell’ipotesi di condotte antigiuridiche tenute da più soggetti esclude la duplicazione risarcitoria ed afferma, invece, la responsabilità solidale degli autori del danno rispetto al pregiudizio unitariamente inteso.
Quel principio a maggior ragione deve trovare applicazione allorquando più inadempimenti o condotte illecite poste in essere dal medesimo soggetto convergano nella produzione di un unico pregiudizio, perché in tal caso la duplicazione del risarcimento finirebbe per attribuire allo stesso una funzione punitiva, che, seppure non ontologicamente incompatibile con il nostro ordinamento, richiede un’espressa previsione normativa (Cass. S.U. n. 16601/2017).
11.1. Esclusa, quindi, la possibilità di una duplicazione risarcitoria in relazione alla perdita della retribuzione verificatasi a partire dall’estromissione dall’azienda, va detto che l’indennità onnicomprensiva prevista dall’art. 32 della legge n. 183/2010, come autenticamente interpretato dall’art. 1, comma 13, della legge n. 92/2012, «ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro».
La Corte territoriale ha accertato che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, intimato alla R. «in via cautelativa» dopo lo spirare del termine finale apposto all’ultimo contratto, era finalizzato ad impedire la piena operatività degli effetti derivanti dall’eventuale accertamento dell’illegittimità del termine apposto al contratto, ossia la riammissione in servizio e la pretesa risarcitoria per il periodo successivo alla sentenza dichiarativa. Così ragionando la Corte ha nella sostanza ritenuto che il recesso fosse stato sospensivamente condizionato all’accertamento dell’illegittimità del termine e, pertanto, è dalla data della pronuncia del Tribunale che opera, ai fini risarcitori, la disciplina dettata dall’art. 18 della legge n. 300/1970.
In altri termini la perdita della retribuzione verificatasi dalla scadenza del termine alla pubblicazione della sentenza del Tribunale non può essere ricollegata al recesso ed è interamente ristorata dall’indennità prevista dall’art. 32.
12. In via conclusiva merita accoglimento il solo sesto motivo di ricorso e la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo che procederà ad un nuovo esame, attenendosi ai principi enunciati nel punto che precede e provvedendo anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
13. Non sussistono le condizioni processuali richieste dall’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, per il raddoppio del contributo unificato
P.Q.M.
Accoglie il sesto motivo di ricorso nei sensi di cui in motivazione e rigetta gli altri motivi. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Venezia alla quale demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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