CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 marzo 2020, n. 6752
Contratti di lavoro – Termini apposti – Nullità – Sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato
Rilevato che
V.P. convenne in giudizio la M. Air s.r.l. innanzi al Tribunale di Roma chiedendo l’accertamento della nullità dei termini apposti ai contratti di lavoro conclusi inter partes, rispettivamente per il periodo 15/11/2006-14/1/2007 (prorogato al 14/3/2007), 26/3/-30/6/2007; 16/1-15/4/2008 (prorogato al 15/5/2008); 26/5-31/7/2008 (prorogato al 15/8/2008); 1/9-31/10/2008; 12/1-11/4/2009; ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1. Il primo Giudice rigettò la domanda e la Corte d’Appello di Roma, con sentenza resa pubblica il 28/4/2017, in riforma di tale pronuncia, dichiarò la nullità del contratto di lavoro stipulato dal 10 settembre al 31 ottobre 2008 e la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con tale decorrenza, condannando la società al risarcimento del danno in misura corrispondente ad un’indennità omnicomprensiva pari a cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre ulteriori accessori di legge.
La Corte pervenne a tali conclusioni sull’essenziale rilievo che la somma dei rapporti intercorsi nell’anno 2008 ricomprendeva i contratti la cui durata aveva superato il periodo complessivo di sei mesi fra aprile ed ottobre di ogni anno previsto dal richiamato art. 2 comma 1 d. lgs. n. 368/2001.
Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, la M. Air s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione fondato su cinque motivi. L’intimato ha resistito con controricorso, spiegando ricorso incidentale affidato a due motivi, illustrati da memoria, ai quali ha opposto difese la ricorrente principale.
La causa, chiamata per la trattazione in adunanza camerale, è stata quindi rinviata a nuovo ruolo per la fissazione in pubblica udienza. P. Air Cargo s.r.l., già M. Air s.r.l. ha quindi depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Considerato che
1. Con il primo motivo la ricorrente principale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1372, 1175, 1375, 2697, 1427, 1431 c.c. e 100 c.p.c. in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c. Ci si duole che la Corte di merito abbia respinto l’eccezione di carenza di interesse ad agire del ricorrente per essere egli già apprezzabilmente collocato nel mondo del lavoro esercitando la professione di odontoiatra e ricoprendo un incarico di docente presso l’Università di Chieti. Si lamenta che sia stata omessa ogni valutazione della prolungata inerzia del P. che aveva impugnato i contratti inter partes dopo oltre tre anni dalla conclusione del rapporto.
2. Il motivo va disatteso per le ragioni di seguito esposte.
Deve innanzitutto osservarsi che i rilievi formulati dal ricorrente – riferibili a violazioni prospettate come error in judicando – sono volti, nella sostanza, a sindacare un accertamento di fatto condotto dal giudice del merito, che ha portato lo stesso a ritenere dimostrata, alla stregua dei dati acquisiti in giudizio, la sussistenza di un interesse ad agire del ricorrente, benché egli fosse già inserito in apprezzabile contesto lavorativo.
Facendo leva sulla nozione di interesse ad agire come condizione dell’azione che prescinde dai risultati mediati potenzialmente derivanti dall’accertamento del diritto invocato, senza trascurare nel contempo, le allegazioni di parte appellata e i dati istruttori acquisiti in giudizio, la Corte distrettuale è pervenuta al convincimento della permanenza di un interesse del ricorrente all’accertamento del diritto invocato alla intercorrenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato quale conseguenza della illegittima apposizione del termine, e ciò anche in presenza di condizioni di fatto che potessero in concreto rendere non più conveniente la sua prosecuzione ovvero di ragioni ostative al mantenimento delle mansioni per le quali era stato assunto.
Gli approdi ai quali è pervenuto il giudice del gravame, appaiono conformi a diritto ed insuscettibili di ulteriore scrutinio in questa sede di legittimità, perché la quaestio facti rilevante in causa è stata trattata in conformità ai criteri valutativi di riferimento, pur pervenendo il giudicante a conclusioni difformi rispetto a quelle indicate da parte ricorrente. In proposito è bene rammentare che, in tema di ricorso per cassazione, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti. Il discrimine tra le distinte ipotesi di violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è infatti segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (vedi ex multis, Cass. 13/10/2017 n. 24155, Cass. 11/1/2016 n. 195, Cass. 4/4/2013 n. 8315).
E l’ipotesi considerata rientra certamente nel paradigma da ultimo delineato, posta la necessaria valutazione da parte della Corte di merito, dei termini relativi alla sussistenza di un interesse ad agire del P., alla stregua delle acquisizioni probatorie, per valutarne la sussumibilità nella fattispecie normativa di riferimento.
Questo accertamento compiuto dal giudice del gravame, non congruamente impugnato – per quanto sinora detto – si sottrae comunque ad ogni ulteriore censura che possa attenere alla valutazione della questio facti, esulando dai rigorosi limiti del sindacato di legittimità tracciati dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. nn. 8053 e 8054 del 7/4/2014).
3. A medesime conclusioni è dato pervenire in ordine alla denunciata omessa valutazione da parte della Corte distrettuale, del comportamento di prolungata inerzia posto in essere dal lavoratore, ritenuto rilevante ai sensi dell’art. 1372 c.c., quale manifestazione per facta condudentia, “del suo disinteresse all’accertamento della nullità del contratto”.
Pur volendo aderire all’orientamento della giurisprudenza di questa Corte che afferma la rilevabilità d’ufficio della risoluzione consensuale del contratto, se rilevante ai fini della decisione, per essere lo scioglimento per mutuo consenso un fatto oggettivamente estintivo dei diritti nascenti dal negozio bilaterale (cfr. Cass. 28/9/2018 n. 23586, Cass. 20/6/2012 n. 10201), deve rilevarsi che la Corte di merito, nel ritenere persistente l’interesse del lavoratore a conseguire una pronuncia di accertamento della nullità del termine, ha mostrato comunque di avere implicitamente respinto la possibilità di configurare nella specie, una risoluzione consensuale del rapporto.
Ed il ricordato accertamento si sottrae al sindacato di legittimità, secondo le rigorose regole sui motivi che possono essere fatti valere al fine di incrinare la ricostruzione di ogni vicenda storica antecedente al contenzioso giudiziale, previste dall’art. 360, n. 5, c.p.c., tempo per tempo vigente.
2. Il secondo motivo denuncia nullità della sentenza ex art. 112 c.p.c. ex art. 360 c.1 n.4 c.p.c., omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 167, 416 c.p.c.in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c.
Si deduce che la società aveva tempestivamente prodotto una serie di documenti attestanti la fondatezza delle circostanze indicate nel motivo che precede, in relazione ai quali il lavoratore non aveva formulato alcuna contestazione, e che la disamina di detti elementi era stata del tutto pretermessa dalla Corte distrettuale.
4. Il terzo motivo prospetta, del pari, nullità della sentenza ex art. 112 c.p.c. ex art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c., omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 167, 416 c.p.c.in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c.
Si critica la sentenza impugnata per avere tralasciato di considerare altresì la documentazione ritualmente prodotta in prime cure, attestante l’inidoneità del P. allo svolgimento delle mansioni di pilota.
5. I motivi, che possono congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, presentano profili di inammissibilità.
Invero essi contengono promiscuamente la contemporanea deduzione di violazione di plurime disposizioni di legge, sostanziale e processuale, lamentando contemporaneamente errores in iudicando ed in procedendo, senza adeguatamente specificare quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi che devono invece essere riconducibili ad uno di quelli tipicamente indicati dal comma 1 dell’art. 360 c.p.c., in tal modo dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, “di censure caratterizzate da … irredimibile eterogeneità” (Cass. SS.UU. n. 26242 del 2014; cfr. anche Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013; conf. Cass. n. 14317 del 2016).
Inoltre le plurime censure di violazione e falsa applicazione di legge trascurano di considerare che il vizio ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla Suprema Corte di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012). In realtà il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione (che può concernere soltanto una questione di fatto e mai di diritto) posta dal giudice a fondamento della decisione (id est: del processo di sussunzione), per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma, della cui esatta interpretazione non si controverte (in caso positivo vertendosi in controversia sulla “lettura” della norma stessa), non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata “male” applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma (Cass. 15/12/2014 n. 26307; Cass. 24/10/2007 n. 22348). Sicché il processo di sussunzione, nell’ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato ai sensi dell’art. 360, co. 1 n. 5 c.p.c. che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti. Nella specie, nonostante l’invocazione solo formale di violazioni o false applicazioni di norme, nella sostanza tutte le censure investono l’accertamento in fatto compiuto dai giudici del merito in ordine alla sussistenza di un interesse ad agire del ricorrente, espressa all’esito di una precipua disamina della documentazione prodotta da parte della società appellata (pag.9 punto 10); onde la pronuncia resiste alle censure all’esame.
6. Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2 comma 1 d. lgs. n. 368/2001 in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c.
Si lamenta l’erroneità della statuizione con cui il giudice del gravame ha sostenuto che corretto era l’approccio di parte ricorrente secondo cui la somma dei rapporti intercorsi nell’anno 2008 aveva sicuramente superato il periodo complessivo di sei mesi fra aprile ed ottobre. Si deduce che se il legislatore avesse voluto porre un ulteriore limite all’utilizzo di questi particolari contratti a termine in senso opposto rispetto al riconoscimento di una eccezionale regolamentazione dovuta alla specificità del Settore, avrebbe dovuto richiamare il criterio della sommatoria previsto sin dall’origine dall’art. 5 della medesima legge e successive modifiche.
7. Il motivo non è fondato.
Ed invero, secondo l’art. 2 D.Lgs. n. 368 del 2001, è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato quando l’assunzione sia effettuata da aziende di trasporto aereo o da aziende esercenti i servizi aeroportuali ed abbia luogo per lo svolgimento dei servizi operativi di terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e merci, per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al quindici per cento dell’organico aziendale che, al 1 gennaio dell’anno a cui le assunzioni si riferiscono, risulti complessivamente adibito ai servizi sopra indicati.
Va inoltre rammentato che la L. n. 247 del 2007, art. 1, comma 40 ha introdotto limiti temporali legati alla reiterazione dei contratti a termine, prevedendo una durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato che non possono superare il periodo complessivo di 36 mesi, comprensivo di proroghe e rinnovi indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro.
E’ stata, dunque, dettata una disciplina speciale in relazione ai requisiti sostanziali di apposizione del termine nel settore del trasporto aereo e dei servizi aeroportuali – esteso anche alle assunzioni effettuate da imprese concessionarie di servizio nel settore delle poste (art.2 c. 1 bis aggiunto ex lege n. 266 del 23/12/2005, art. 1 c. 558) – con la quale il legislatore ha riconosciuto la facoltà di integrare il normale organico mediante una quota di lavoratori a tempo determinato, in deroga ai dettami di cui all’art. 1 c.1 d. lgs. n.368 del 2001; così perseguendo, in base ad una valutazione di tipicità sociale, una “ratio” di parziale liberalizzazione delle assunzioni a termine in detti settori, esposti a ricorrenti fluttuazioni della domanda, e consentendo alle imprese di stipulare contratti a tempo determinato, nei limiti e per i periodi ivi previsti, senza necessità di indicare le ragioni obiettive giustificatrici dell’apposizione del termine (vedi ex plurimis, con riferimento al settore poste, Cass. 11/7/2012 n.11659, Cass. 2/7/2015 n.13609, Cass. S.U. 31/5/2016 n.11374).
Ne consegue che al fine di valutare la legittimità del termine apposto alla prestazione di lavoro, si deve tenere conto unicamente dei profili temporali, percentuali (sull’organico aziendale) e di comunicazione, previsti dall’art. 2, comma 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, che demarcano il perimetro entro il quale può affermarsi la presunzione legale di intrinseca esigenza di flessibilità del contratto connaturata alla normale realtà operativa e funzionale del servizio, ed oggetto di positiva valutazione ex ante da parte del legislatore (cfr. Cass. cit. n. 13609/2015).
Dal quadro normativo descritto, nella interpretazione resa dalla giurisprudenza di questa Corte, è dato evincere che il legislatore, pur perseguendo l’intento di liberalizzare questa tipologia di rapporti quanto al fattore causale, abbia comunque imposto dei limiti intrinseci di durata dei singoli rapporti, oltre che dei limiti temporali “esterni” legati alla reiterazione dei contratti a termine, a presidio dei quali è stato predisposto il dettato di cui all’art. 1 comma 40 legge n. 247 del 2007.
Ed invero, nel definire i limiti entro i quali è consentita l’apposizione di un termine di durata del contratto di lavoro subordinato quando l’assunzione sia effettuata da aziende di trasporto aereo o esercenti i servizi aeroportuali, la locuzione normativa è riferita ad un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per i periodi diversamente distribuiti.
E’ bene al riguardo rammentare che l’attività ermeneutica, in consonanza con i criteri legislativi di interpretazione dettati dall’art. 12 delle preleggi, deve essere condotta innanzitutto e principalmente, mediante il ricorso al criterio letterale; il primato dell’interpretazione letterale è, infatti, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (vedi ex multis, Cass. 4/10/2018 n. 24165, Cass. 21/5/2004 n. 9700, Cass. 13/4/2001 n. 3495) secondo cui all’intenzione del legislatore, secondo un’interpretazione logica, può darsi rilievo nell’ipotesi che tale significato non sia già tanto chiaro ed univoco da rifiutare una diversa e contraria interpretazione.
Alla stregua del ricordato insegnamento, l’interpretazione da seguire deve essere, dunque, quella che risulti il più possibile aderente al senso letterale delle parole, nella loro formulazione tecnico giuridica.
Muovendo da tali premesse, deve ritenersi che la Corte territoriale sia pervenuta a corrette conclusioni giuridiche, laddove ha affermato che la lettera del testo normativo appare significativa di una specifica determinazione della durata massima dell’assunzione a termine nei due distinti periodi normativamente indicati, di guisa che la durata del contratto o dei contratti, anche in successione, non può eccedere complessivamente i sei mesi compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno. Il riferimento agli aggettivi “massimo” (inteso come limite) e “complessivo” (inteso come somma della durata dei singoli contratti) di sei mesi, non può che riferirsi alla sommatoria dei rapporti intercorsi nell’arco temporale aprile-ottobre di ogni anno; sicché, tenuto conto della durata dei contratti intercorsi fra le parti nell’anno 2008 fra di loro sommati, si perviene – come dedotto dal lavoratore ed accertato dalla Corte di merito – al superamento del periodo di durata semestrale massimo consentito dalla legge, per la stipula di contratti a tempo determinato nel periodo aprile-ottobre.
8. Il quinto motivo concerne la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 l. 183/2010 e dell’art. 429 c.p.c.
Viene censurata la misura del risarcimento del danno oggetto di liquidazione da parte del giudice del gravame, il quale avrebbe omesso di considerare a tal fine la condizione lavorativa in cui versava l’appellante – odontoiatra e docente universitario – come documentata in atti.
9. La doglianza non è fondata.
Non può infatti tralasciarsi di considerare che, secondo i principi affermati da questa Corte, da ribadirsi in questa sede, in tema di contratto a termine, la determinazione, tra il minimo e il massimo, della misura dell’indennità prevista dall’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 come interpretato autenticamente dall’art. 1 comma 13 l. 28/6/2012 n. 92 – che richiama i criteri indicati dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 – spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria (vedi ex aliis Cass. 17/3/2014 n. 6122, Cass. 31/3/2014 n. 7458); ipotesi questa, non verificatasi nella specie, avendo i giudici del gravame richiamato i criteri di legge, avuto particolare riguardo al numero ed alla durata dei contratti intercorsi fra le parti.
Conclusivamente, al lume delle sinora esposte considerazioni, il ricorso principale è respinto.
10. Con il primo motivo del ricorso incidentale il P. denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., dell’art. 1 d. lgs. n. 368/2001, dell’art. 414 e 416 c.p.c. in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3.
Critica la statuizione con cui la Corte di merito ha ritenuto tardiva l’eccezione di mancato rispetto della clausola di contingentamento ex art. 2 d. lgs. d. lgs. 368/2001 sollevata nel primo grado di giudizio. Si deduce infatti che nelle note difensive di primo grado si era semplicemente specificato quanto tempestivamente dedotto in ricorso introduttivo del giudizio laddove aveva contestato la legittimità dei contratti impugnati avuto riguardo ai presupposti di cui all’art. 2 d. lgs. 368/2001. Si deduce che ai sensi dell’art. 2697 c.c. trattandosi di fatto costitutivo del potere di assumere a termine col regime di favore adottato, e gravando l’onere della prova relativo al rispetto della clausola di contingentamento a carico del datore di lavoro sulla parte datoriale, è su quest’ultima che deve gravare anche l’onere di allegazione del rispetto di detta clausola giacché il lavoratore a termine, non onerato della prova per quanto detto, non può ritenersi gravato neanche dell’onere di allegazione.
11. Detto primo motivo è da ritenersi logicamente assorbito dalla reiezione del ricorso proposto in via principale dalla società, che rende ultroneo lo scrutinio della statuizione relativa alla novità della questione della violazione della clausola di contingentamento, sollevata dal lavoratore con il ricorso proposto ex art. 371 c.p.c.
12. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 32 l. 183/2010 e dell’art. 8 l. 604/66 in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c. reputando incongrua la liquidazione del risarcimento del danno, perché priva di riferimento ai requisiti dell’elevato numero dei dipendenti occupati e delle dimensioni dell’impresa.
13. La censura è infondata, alla stregua delle ragioni esposte in relazione all’ultimo motivo di doglianza formulato dalla ricorrente in via principale. In definitiva, le superiori argomentazioni inducono alla reiezione dei ricorsi proposti da entrambe le parti.
La regolazione delle spese del presente giudizio segue il regime della compensazione ex art. 92 c.p.c. in considerazione della situazione di reciproca soccombenza fra le parti.
Poiché entrambi i ricorsi sono stati proposti successivamente al 30 gennaio 2013 e vengono rigettati, deve darsi atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Compensa fra le parti le spese del presente giudizio.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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