CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 marzo 2021, n. 6722
Licenziamento – Illegittimità – Reintegrazione nel proprio posto di lavoro – Regolarizzazione della posizione contributiva dalla data del licenziamento a quella della reintegrazione
Fatti di causa
Con sentenza depositata il 4.6.2018, la Corte d’appello di Genova ha confermato, con diversa motivazione, la pronuncia di primo grado che aveva rigettato la domanda con cui D.G. aveva chiesto all’INPS di provvedere alla regolarizzazione della sua posizione contributiva a seguito del passaggio in giudicato di altra sentenza con la quale egli era stato reintegrato nel proprio posto di lavoro, in conseguenza dell’illegittimità del licenziamento intimatogli, e il datore di lavoro era stato condannato a pagare ex art. 18 St. lav. la contribuzione previdenziale dalla data del licenziamento a quella della reintegrazione.
La Corte, in particolare, ha ritenuto che il lavoratore non avesse azione nei confronti dell’INPS per ottenere la regolarizzazione della propria posizione contributiva e che, anche a seguito di una sentenza recante l’obbligo datoriale di provvedere al pagamento della contribuzione dovuta dalla data del licenziamento a quella della reintegra, l’unico rimedio disponibile per l’assicurato, in casi di inadempimento del datore di lavoro, fosse di tipo risarcitorio, ex art. 13, l. n. 1338/1962, dal momento che in nessun caso una sentenza resa in favore dell’INPS, rimasto terzo estraneo al processo conclusosi con la sentenza di reintegra, avrebbe potuto mettere capo ad un obbligo dell’INPS di provvedere all’integrazione di una provvista contributiva rimasta scoperta a causa dell’inadempimento dell’obbligato.
Avverso tali statuizioni ha proposto ricorso per cassazione D.G., deducendo due motivi di censura.
L’INPS ha resistito con controricorso, successivamente illustrato con memoria, con cui ha rimarcato sia la propria estraneità alla vicenda processuale passata in giudicato, sia la sopravvenuta prescrizione dei contributi.
La causa è stata rimessa alla pubblica udienza con ordinanza n. 15711 del 2020 della Sesta sezione civile di questa Corte. Il Pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di censura, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2114 e 2116 c.c., 27, r.d.l. n. 636/1939 (come modificato dall’art. 40, l. n. 153/1969), 13, l. n. 1338/1962, e 18 St. lav., per avere la Corte di merito ritenuto che egli non avesse azione diretta nei confronti dell’INPS per la regolarizzazione della sua posizione contributiva, nonostante che nel caso di specie non potesse trovare applicazione la disciplina risarcitoria di cui agli artt. 2116 c.c. e 13, l. n. 1338/1962, per essersi nelle more il soggetto obbligato estinto a seguito di cancellazione dal registro delle imprese e vi fosse in atti prova che egli aveva comunicato all’INPS la sentenza di reintegra recante condanna al pagamento della contribuzione previdenziale prima del decorso della prescrizione: a suo avviso, infatti, opererebbe nel caso di specie il principio affermato da Cass. n. 7459 del 2002, secondo cui, ove il lavoratore abbia dato comunicazione dell’omissione contributiva del datore di lavoro al competente ente previdenziale e quest’ultimo non abbia provveduto a conseguire i contributi omessi nel termine prescrizionale, lo stesso ente sarebbe tenuto a provvedere alla regolarizzazione della posizione assicurativa del lavoratore medesimo, nel caso in cui a quest’ultimo sia precluso di ricorrere alla costituzione della rendita ex art. 13, l. n. 1338/1962, o all’azione di risarcimento danni ex art. 2116 c.c.
Con il secondo motivo, le medesime doglianze sono ripetute sotto il profilo dell’omesso esame circa fatti decisivi, per non avere la Corte territoriale esaminato la documentazione da cui emergeva sia la prova dell’avvenuta comunicazione all’INPS della sentenza di reintegra che quella dell’avvenuta estinzione dei soggetti obbligati al pagamento della contribuzione.
I motivi possono essere esaminati congiuntamente, in considerazione dell’intima connessione delle censure rivolte all’impugnata sentenza, e sono infondati, sia pure con le precisazioni di cui appresso.
In punto di fatto, va premesso che l’odierno ricorrente, a seguito di giudizio intentato contro I. s.c.r.l. e L.T. 98 s.r.l., ha ottenuto, giusta sentenza n. 920/06 del Tribunale di La Spezia (passata in giudicato il 16.7.2009: cfr. controricorso INPS, pag. 4), la condanna in solido delle predette società a versare all’INPS, per quanto qui rileva, i contributi dovuti ex art. 18 St. lav. dal 28.2.2002, data dell’illegittimo licenziamento, al marzo 2004, e che, essendo rimaste le società inadempienti all’obbligo di pagare i contributi di legge (ed essendo state cancellate dal registro delle imprese rispettivamente in data 9.2.2005 e 16.2.2011), egli, dopo aver comunicato all’INPS (che era rimasto estraneo al processo) sia la sentenza che l’omissione contributiva in suo danno, ha nuovamente adito il Tribunale di La Spezia affinché venisse dichiarato il suo diritto ad aver accreditata dall’INPS la contribuzione relativa al periodo 1.3.2002-31.3.2004.
Ciò posto, va ricordato che questa Corte ha già avuto modo di chiarire che la previsione dell’art. 18, commi 2° e 4°, St. lav., e degli artt. 2, comma 2, e 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015, secondo i quali, a seguito della declaratoria d’illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore, il datore di lavoro è condannato al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, costituisce fattispecie eccezionale di condanna a favore del terzo, la quale, oltre a non abbisognare della partecipazione al giudizio dell’ente previdenziale (così Cass. nn. 19398 del 2014 e 8956 del 2020), non richiede nemmeno alcuna specifica domanda del lavoratore (così già Cass. n. 1045 del 1997); qui va solamente aggiunto che, sebbene la novellazione dell’art. 18 St. lav. da parte dell’art. 1, comma 42, l. n. 92/2012, abbia lievemente mutato il tenore della disposizione originaria, sostituendo alle parole «il giudice […] condanna il datore di lavoro […] al versamento dei contributi» le parole «il datore di lavoro è condannato […] al versamento dei contributi», non si tratta di modifica idonea a mutare l’anzidetta conclusione, sol che si pensi che, come costantemente ritenuto da questa Corte di legittimità, i contributi previdenziali obbligatori partecipano della natura delle obbligazioni pubbliche, equiparabili a quelle tributarie a causa dell’origine legale e della loro destinazione a beneficio di enti pubblici per l’espletamento delle loro funzioni sociali (così Cass. S.U. n. 10232 del 2003), onde deve escludersi, coerentemente con l’autonomia del rapporto contributivo rispetto a quello previdenziale, che il lavoratore possa sostituirsi all’ente previdenziale per ottenere una condanna del datore di lavoro a pagare i contributi medesimi, discendendo piuttosto l’obbligo del loro pagamento dall’acclarata persistenza del rapporto di lavoro, vuoi in conseguenza della declaratoria di nullità del recesso, vuoi in dipendenza della sua ricostituzione con efficacia ex tunc, a seguito di declaratoria d’illegittimità del licenziamento per difetto di giusta causa o di giustificato motivo (così già Cass. nn. 1927 del 1976, 4307 del 1985, 2789 del 1987, nonché Cass. S.U. n. 11327 del 1991 e innumerevoli successive conformi).
Vale piuttosto la pena di precisare, sulla scorta del chiarimento di Cass. S.U. n. 19665 del 2014, che la diversità della fattispecie della nullità rispetto a quella dell’illegittimità del recesso datoriale, che pure si riverbera sul regime delle sanzioni civili accessorie ai contributi, non è invece suscettibile di refluire sul termine di prescrizione dei contributi dovuti tra la data del licenziamento e quella di reintegrazione: quest’ultimo, infatti, può iniziare a decorrere solo successivamente all’ordine di reintegrazione, non essendo possibile per gli enti previdenziali rivendicare il pagamento di contributi a seguito della comunicazione datoriale di cessazione del rapporto di lavoro e di cancellazione del lavoratore dal libro paga e matricola, ancorché la legittimità del recesso sia stata contestata dal lavoratore licenziato (così Cass. S.U. n. 19665 del 2014, cit., in motivazione). Fermo restando che il passaggio in giudicato della sentenza di reintegra estenderà ai contributi il più ampio termine prescrizionale di cui all’art. 2953 c.c., essendo consolidato il principio di diritto secondo cui la conversione del termine di prescrizione da breve a decennale, prevista dalla disposizione ult. cit. per effetto del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, è invocabile anche da parte e nei confronti di chi sia rimasto estraneo al processo nel quale è stata pronunciata la sentenza passata in giudicato, salvo che non si tratti di diritti che non furono oggetto di valutazione o di decisione (così già Cass. n. 3928 del 1968 e, con specifico riferimento ai contributi previdenziali, Cass. n. 2085 del 1979; più recentemente, nello stesso senso, Cass. nn. 12553 del 1993 e 16289 del 2019).
Chiarito, pertanto, che – diversamente da quanto sostenuto dall’INPS nelle proprie difese – la prescrizione della contribuzione dovuta tra il momento dell’illegittimo licenziamento e quello della pronuncia di reintegra segue regole sue proprie e affatto diverse da quelle consolidate dalla giurisprudenza di questa Corte nell’ipotesi in cui l’omissione contributiva sia maturata nel regolare corso del rapporto di lavoro (ivi compreso il caso in cui il rapporto stesso non sia stato regolarmente denunciato agli enti previdenziali), resta da dire che affatto correttamente la Corte territoriale ha ritenuto infondata la domanda dell’odierno ricorrente: come esattamente ricordato dalla sentenza impugnata, è parimenti consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui, in caso di omesso versamento dei contributi da parte del datore di lavoro, il nostro ordinamento non prevede un’azione dell’assicurato volta a condannare l’ente previdenziale alla “regolarizzazione” della sua posizione contributiva, nemmeno nell’ipotesi in cui l’ente previdenziale, che sia stato messo a conoscenza dell’inadempimento contributivo prima della decorrenza del termine di prescrizione, non si sia tempestivamente attivato per l’adempimento nei confronti del datore di lavoro obbligato, residuando unicamente in suo favore il rimedio risarcitorio di cui all’art. 2116 c.c. e la facoltà di chiedere all’INPS la costituzione della rendita vitalizia ex art. 13, l. n. 1338/1962 (così espressamente Cass. n. 6569 del 2010; più recentemente, nello stesso senso, Cass. nn. 3491 del 2014 e 2164 del 2021).
Si deve piuttosto aggiungere che affatto impropriamente il ricorrente argomenta dall’avvenuta cancellazione delle società obbligate al pagamento della contribuzione omessa per dedurne che si verterebbe in un’ipotesi di impossibilità di far valere gli anzidetti rimedi risarcitori: come chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte, qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale l’obbligazione della società non si estingue, ma – unitamente ai diritti e beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta – si trasferisce ai soci, che ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali (Cass. S.U. n. 6070 del 2013). Di talché, dovendo ammettersi che le azioni risarcitone ex artt. 2116 c.c. e 13, l. n. 1338/1962, ben potrebbero in specie essere esperite contro i soci delle società estinte, resta prima facie inconferente il richiamo di parte ricorrente al principio di diritto affermato da Cass. n. 7459 del 2002, atteso che – indipendentemente dalla sua tenuta su un piano sistematico, ciò di cui non mette conto occuparsi in questa sede – esso è stato enunciato, come dianzi ricordato, in fattispecie in cui il lavoratore non aveva potuto, né avrebbe potuto in futuro, sopperire all’omissione contributiva ricorrendo ai rimedi risarcitori apprestati dal legislatore (così già Cass. n. 6569 del 2010, cit., in motivazione).
Parimenti estraneo alla presente fattispecie deve considerarsi, infine, il dictum di Cass. n. 10477 del 2019, richiamata dall’INPS nella propria memoria ex art. 378 c.p.c. al fine di sostenere che l’azione dell’odierno ricorrente difetterebbe radicalmente d’interesse ex art. 100 c.p.c.: senza qui entrare nel merito della vexata quaestio dell’ammissibilità di un’azione volta all’accertamento della regolarità della posizione contributiva (invero ammessa da non recente giurisprudenza di questa Corte sul rilievo che tratterebbesi di situazione giuridica che, sebbene normalmente strumentale all’accesso alle prestazioni previdenziali, sarebbe suscettibile di autonoma lesione a prescindere dalla maturazione di un diritto a specifiche prestazioni previdenziali allorché vi sia una pregiudizievole situazione di incertezza in ordine al rapporto assicurativo: così Cass. n. 17223 del 2002, 13648 del 2003), è sufficiente sul punto rilevare che, sebbene l’odierno ricorrente non abbia documentato di aver chiesto la ricongiunzione di periodi assicurativi o il proseguimento volontario della contribuzione o una prestazione rispetto alla quale l’accredito del periodo controverso funga da presupposto, è nondimeno indiscutibile che la sua domanda di accredito dei contributi mancanti sia stata nella specie oggetto di un provvedimento di diniego da parte dell’ente assicuratore, con conseguente inapplicabilità del principio di diritto invocato dall’INPS, che era stato viceversa affermato in una fattispecie in cui, come si legge nella motivazione di Cass. n. 10477 del 2019, cit., era stato accertato «che i contributi non erano prescritti, che l’INPS si era attivato per far valere il diritto nei confronti del datore di lavoro, che l’aspettativa pensionistica era integra, che gli appellanti erano in costanza di attività lavorativa», e in cui, di conseguenza, «il diritto all’integrità della posizione contributiva» non era stato «posto in dubbio né pregiudicato dall’Istituto».
Il ricorso, pertanto, va rigettato, l’intima complessità delle questioni trattate suggerendo nondimeno la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.
Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Compensa le spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13.
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