CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 ottobre 2022, n. 29406
Attività professionali – Carica di sindaco di società – Socio di studio professionale – Incompatibilità con la carica – Responsabilità professionale – Risarcimento danni da parte dello studio professionale. – Giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo – Intervento volontario del terzo – Legittimità
Fatti di causa
1. Il Tribunale di A. ingiungeva alla società R.A. s.r.l. il pagamento di euro 80.286,04 in favore di F.C. a titolo di pagamento di compensi professionali per attività di consulenza fiscale.
L’ingiunta promuoveva opposizione, chiedendo di revocare il decreto ingiuntivo, e, in via riconvenzionale, di accertare la responsabilità professionale di C. e conseguentemente di condannarlo al risarcimento dei danni e di accertare l’incompatibilità del medesimo con la carica di sindaco della società, con sua condanna alla restituzione di quanto indebitamente percepito. Si costituivano con unico atto il convenuto C. e la società semplice Studio C.F. Dottori Commercialisti, precisando che il decreto opposto era stato richiesto da C. nella sua qualità di socio della società semplice; sostenendo che nessuna responsabilità era addebitabile allo Studio in quanto non era stato posto in essere alcun comportamento illecito e l’attività era stata svolta da un socio dello Studio; quanto alla ineleggibilità di C. alla carica di sindaco della società, l’attività di consulenza era stata svolta dall’altro socio dello Studio. Nel corso del giudizio interveniva E.B., in proprio e in qualità di socio dello Studio.
Con la memoria di cui all’art. 183, comma 6 c.p.c., l’opponente eccepiva il difetto della titolarità in capo a C. della situazione giuridica sostanziale dedotta in giudizio e modificava la propria domanda chiedendo, oltre alla revoca del decreto opposto, di accertare l’inammissibilità delle domande di parte convenuta e l’inammissibilità dell’intervento adesivo di B.. Il Tribunale di A., rigettata l’eccezione di carenza di titolarità del diritto fatto valere in capo a C. e ritenuto ammissibile l’intervento volontario di B., ha parzialmente accolto l’opposizione, ritenendo sussistente la responsabilità professionale dello Studio C.; ha così compensato quanto dovuto all’opponente a titolo di risarcimento del danno con quanto dovuto dalla medesima a titolo di pagamento delle prestazioni svolte; circa i compensi relativi alla carica di sindaco, ha ritenuto non provata l’ineleggibilità di C.. Il Tribunale ha quindi revocato il decreto ingiuntivo, ha condannato l’opponente al pagamento in favore dello Studio C. della somma di euro 942,96 e ha rigettato la domanda riconvenzionale dell’opponente relativa alla restituzione dei compensi percepiti da C. nella sua qualità di sindaco.
2. La sentenza è stata impugnata in via principale da C., in proprio e nella sua qualità di socio e rappresentante legale dello Studio C.. Il Fallimento R.A. ha proposto appello incidentale. E.B. si è costituito aderendo all’appello principale.
La Corte d’appello di Torino – con sentenza 9 novembre 2016 n. 1910 – ha parzialmente riformato la sentenza impugnata. Il giudice d’appello ha anzitutto accolto la doglianza di R.A., nel frattempo fallita, concernente il rigetto dell’eccezione preliminare di mancanza di titolarità in capo a F.C., osservando che nel ricorso monitorio non vi era alcun riferimento alla società (soggetto giuridico ben distinto) e alla circostanza che egli agisse in qualità di suo rappresentante legale o socio abilitato a richiedere i crediti societari; ha poi qualificato la costituzione in giudizio dello Studio C. quale intervento volontario, che avrebbe “di fatto eluso le limitazioni alla partecipazione ai procedimenti di opposizione a decreto ingiuntivo da tempo affermati in modo consolidato dalla Suprema Corte in tema di chiamata del terzo” e ha così dichiarato inammissibili gli interventi dello Studio C. e di E.B. e per l’effetto ha dichiarato inammissibili le domande da loro e contro di loro proposte. Quanto all’appello incidentale di R.A., che contestava il rigetto della domanda di restituzione delle somme corrisposte a F.C. quale componente del collegio sindacale, la Corte d’appello ha ravvisato l’ineleggibilità di C. nella circostanza che il credito professionale sarebbe stato maturato da una società della quale il medesimo detiene il 70%, così ricorrendo l’ipotesi di cui alla lettera c) dell’art. 2399 c.c. Il giudice d’appello ha quindi condannato F.C. a restituire la somma di euro 83.766,79 e di euro 6.683,99 e al pagamento in favore del Fallimento della somma di euro 91.609,59.
3. Avverso la sentenza ricorrono per cassazione F.C. e la società semplice Studio C. F. Dottori Commercialisti.
Resiste con controricorso il Fallimento R.A., che ha fatto valere ricorso incidentale.
C. e la società Studio C. resistono con controricorso al ricorso incidentale.
L’intimato E.B., in proprio, non ha proposto difese.
I ricorrenti principali hanno depositato memoria in prossimità dell’udienza.
Considerato che
I. Il ricorso principale è articolato in cinque motivi.
1) Con il primo motivo si lamenta la violazione degli artt. 105 e 112 c.p.c.; la Corte d’appello ha qualificato la costituzione nel giudizio di primo grado dello Studio C. quale intervento volontario e lo ha erroneamente ritenuto inammissibile: non si rinviene nel nostro ordinamento alcuna norma che limiti l’intervento volontario nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, una volta superata la fase monitoria e introdotta l’opposizione da parte dell’ingiunto, il giudizio riveste i caratteri del processo ordinario, con applicazione di tutte le norme che lo regolano, ivi compreso l’articolo 105 c.p.c.
Il motivo è fondato. La Corte d’appello ha correttamente osservato che la società semplice Studio C. è soggetto giuridico distinto da F.C., così che la costituzione della società nel giudizio di opposizione va qualificata come intervento volontario. Ad avviso della Corte d’appello, questa Corte avrebbe da tempo affermato, in relazione alla partecipazione ai procedimenti di opposizione a decreto ingiuntivo, che non è possibile, per iniziativa delle parti, modificare i soggetti che possono partecipare al giudizio, con la conseguenza della inammissibilità dell’intervento dello Studio e di quello proposto da E.B., da qualificarsi come adesivo dipendente. La Corte torinese richiama al riguardo la pronuncia n. 22113/2015, che non si riferisce all’intervento volontario, ma all’intervento su istanza dell’opponente e non ne esclude l’ammissibilità, imponendo unicamente all’opponente di richiedere l’autorizzazione alla chiamata al giudice (al riguardo, da ultimo, v. Cass. n. 16336/2020).
A differenza di quanto ha affermato il giudice d’appello, questa Corte non esclude l’intervento volontario del terzo nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. Si considerino le pronunzie n. 1806/1973 (ove si afferma la legittimazione dell’intervento adesivo autonomo dei liquidatori dei beni ceduti nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo promosso dal debitore), n. 5311/1978 (che si è espressa in relazione alle forme dell’intervento volontario in una ipotesi di opposizione a decreto ingiuntivo), n. 22696/2015 (che ha escluso la legittimazione dell’intervento ad adiuvandum nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ove l’interveniente sia privo di interesse a riguardo), dalle quali si desume l’ammissibilità dell’intervento volontario nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. È vero che la contraria opinione è presente nella giurisprudenza di merito, secondo la quale l’inammissibilità dell’intervento volontario di terzi discenderebbe da un orientamento di questa Corte secondo il quale le parti del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo “possono essere soltanto colui il quale ha proposto la domanda di ingiunzione e colui contro cui tale domanda è diretta” (così, ad esempio, Tribunale Torino 21 giugno 2021). Tale orientamento di legittimità (cfr. Cass. n. 15567/2018) si riferisce però alla legittimazione a proporre l’opposizione a decreto ingiuntivo, potendo l’opposizione essere proposta unicamente dall’ingiunto nei confronti della parte che ha richiesto il decreto di ingiunzione, mentre nulla tale orientamento dice circa l’ammissibilità dell’intervento del terzo.
D’altro canto, come osservano i ricorrenti, nessuna norma limita l’intervento del terzo nel giudizio di opposizione e tale divieto potrebbe quindi trovare la sua fonte solo in sede di ricostruzione sistematica dell’istituto dell’opposizione a decreto ingiuntivo. In particolare, potrebbe trovare una sua giustificazione ove si riconoscesse carattere impugnatorio alla opposizione. Ai sensi dell’art. 344 c.p.c., nel giudizio d’appello l’intervento non è, in via generale, ammissibile essendo ammesso soltanto l’intervento dei terzi che potrebbero proporre opposizione a norma dell’art. 404 c.p.c.
È vero che la natura impugnatoria del giudizio di opposizione al decreto di ingiunzione è stata riconosciuta da parte della più risalente dottrina (che di recente talvolta parla di natura mista), ma le sezioni unite di questa Corte, che hanno più volte avuto occasione di soffermarsi sulla natura di tale giudizio, hanno costantemente negato che esso dia vita a un procedimento di impugnazione (da ultimo v. Cass., sez. un., n. 927/2022). L’opposizione deve infatti “considerarsi un ordinario processo di cognizione” (Cass., sez. un. n. 20604/2008), avendo il procedimento “natura di giudizio di cognizione piena che devolve al giudice il completo esame del rapporto giuridico controverso e non il semplice controllo della legittimità del decreto di ingiunzione” (Cass., sez. un., n. 19246/2010); si tratta di un giudizio di primo grado bifasico e le due fasi “fanno parte di un medesimo giudizio che si svolge nel medesimo ufficio” (Cass., sez. un., n. 14475/2015).
Data la natura di giudizio di primo grado del giudizio di opposizione, non vi è ragione di negare l’ammissibilità dell’intervento volontario del terzo, così che la Corte d’appello ha errato nel dichiarare inammissibili l’intervento dello Studio C. e quello di E.B..
2) Con il secondo motivo si lamenta la violazione degli artt. 167, 183 e 122 c.p.c.: la Corte d’appello, nell’accogliere l’eccezione di R.A. circa la mancanza di titolarità del rapporto sostanziale fatto valere da parte di F.C., non ha considerato la tardività dell’eccezione medesima, sollevata solo con la memoria ex art. 183, comma 6, n. 1 c.p.c., non trattandosi di difetto di legittimazione passiva, rilevabile in ogni grado e stato del giudizio, ma di questione di merito che doveva essere dedotta nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni di parte. Il motivo è infondato. Come ha affermato questa Corte nella pronuncia a sezioni unite n. 2951/2016, la titolarità del rapporto controverso, essendo “un elemento costitutivo del diritto fatto valere in giudizio”, può essere negata dal convenuto con una mera difesa e cioè con una presa di posizione negativa, che, contrariamente alle eccezioni in senso stretto, non è soggetta a decadenza ex art. 167, comma 2, c.p.c. (v. al riguardo anche le conclusioni scritte del pubblico ministero).
3) Il terzo motivo lamenta la violazione dell’art. 2399 c.c.: la Corte d’appello ha erroneamente ritenuto sussistente l’ineleggibilità di C. alla carica di sindaco sulla base della mera misura della sua partecipazione nella società Studio C., circostanza che non sarebbe di per sé sufficiente a considerare integrata la causa di ineleggibilità, occorrendo analizzare la fattispecie concreta, onde verificare la sussistenza di interessi patrimoniali che compromettano l’indipendenza del sindaco, dovendo tale verifica considerare non solo il rapporto fra il compenso percepito dal sindaco e quello percepito dallo studio per l’attività di consulenza in favore della società, ma dai ricavi che il professionista complessivamente ottiene dallo svolgimento della sua attività ordinaria.
Il motivo è infondato. La Corte d’appello ha rilevato che il credito per la prestazione, sì svolta dall’altro socio della società B., sarebbe stato maturato, per gli accordi statutari intercorsi fra B. e C., dallo Studio C., società di cui C. detiene la quota del 70%, così correttamente ravvisando l’ipotesi disciplinata dalla lettera c) dell’art. 2399 c.c. La disposizione prevede che non possono essere eletti alla carica di sindaco non solo coloro che sono legati alla società da un rapporto di lavoro o da un rapporto continuativo di consulenza o di prestazione d’opera retribuita, ma anche “da altri rapporti patrimoniali che ne compromettano l’indipendenza”.
Questa Corte ha sottolineato che chi svolge in modo continuativo prestazioni di consulenza sull’oggetto che deve essere controllato da parte del collegio sindacale e sia comunque titolare di un rapporto di natura patrimoniale, si trova in una situazione che compromette in radice la sua imparzialità e indipendenza; la ratio sottesa alla causa di ineleggibilità risiede infatti nell’esigenza di garantire l’indipendenza di colui che è incaricato delle funzioni di controllo in presenza di situazioni idonee a compromettere tale indipendenza, così che – come sottolinea il pubblico ministero nelle conclusioni scritte – la compromissione dell’indipendenza del sindaco sussiste non solo quando il controllore sia direttamente implicato nell’attività sulla quale dovrebbe esercitare il controllo, ma anche quando l’attività di consulenza sia prestata, come nel caso in esame, da un socio o collaboratore dello studio di cui faccia parte il sindaco (v. al riguardo Cass. n. 9392/2015).
Tale conclusione non è smentita dal precedente richiamato dai ricorrenti (Cass. n. 7902/2013), che ha affermato la necessità di verificare non soltanto l’incidenza delle prestazioni sull’interesse della società, ma anche l’incidenza dell’attività sulla complessiva attività del sindaco in un caso in cui era controversa l’ipotesi dello svolgimento da parte del sindaco di “un rapporto continuativo di consulenza” in favore della società, continuità che invece non è in discussione nel caso in esame.
Va poi sottolineato che “l’espressione <altri rapporti patrimoniali che ne compromettano l’indipendenza>, nella sua indeterminatezza, affida al prudente apprezzamento del giudice di merito l’individuazione del criterio da seguire nella concreta fattispecie sottoposta al suo esame (oltre che la verifica della sussistenza in fatto dell’incompatibilità in base allo stesso criterio)” (così Cass. n. 9392/2015, sopra richiamata), criterio che la Corte d’appello ha appunto individuato – con scelta condivisibile – nella percentuale spettante al sindaco F.C. (il 70%) dei crediti ricavabili dall’attività di consulenza svolta in favore della società.
4) Il quarto e il quinto motivo sono fra loro strettamente connessi e ne è pertanto opportuna la trattazione congiunta.
a) Il quarto motivo lamenta la violazione dell’art. 2033 c.c.: la Corte d’appello ha qualificato come indebiti i compensi corrisposti da R.A. per la carica di sindaco e condannato C. a pagare euro 91.609, 59, mentre i compensi sono stati corrisposti da R.A. alla società Studio C., soggetto giuridico che la stessa Corte d’appello ha qualificato come ben distinto da F.C..
b) Il quinto motivo lamenta la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in quanto i compensi per la carica di sindaco sono stati corrisposti direttamente allo Studio C., sulla base di fatture da quest’ultimo emesse, così che l’accipiens è solo ed esclusivamente lo stesso Studio C., né risulta che lo Studio ricevesse i pagamenti da R.A. in nome e per conto di C..
I motivi sono infondati. La Corte d’appello ha legittimamente ordinato a F.C. la restituzione della somma in quanto, trattandosi di società di persone, il socio è illimitatamente e solidalmente responsabile delle obbligazioni sociali (v. l’art. 2267 c.c.).
II. Il ricorso incidentale è articolato in tre motivi.
1) I primi due motivi sono tra loro strettamente connessi. a. Il primo motivo lamenta la nullità della sentenza per ultrapetizione, nonché violazione degli artt. 324 e 329, comma 2 c.p.c., e violazione falsa applicazione dell’art. 336 c.p.c.: la Corte d’appello, nel dichiarare inammissibile la domanda risarcitoria proposta da R.A. nei confronti dello Studio C., è incorsa in vizio di ultrapetizione; la sentenza di primo grado aveva infatti accolto la domanda risarcitoria nei confronti dello Studio C. e tale capo della sentenza non è stato oggetto di impugnazione, né può ritenersi che il sindacato della Corte d’appello su tale capo fosse giustificato dall’art. 336 c.p.c., dato che l’accertamento circa l’inammissibilità della domanda di pagamento dei compensi non è antecedente logico rispetto all’accertamento del diritto del Fallimento al ristoro del danno.
b. Il secondo motivo, proposto subordinatamente al rigetto di quello precedente, contesta infrapetizione e violazione degli artt. 105 e 81 c.p.c.: la Corte d’appello ha errato “nel legare inscindibilmente sul piano processuale l’inammissibilità della domanda di pagamento del corrispettivo svolto dalla società semplice all’inammissibilità della riconvenzionale per risarcimento del danno svolta dall’odierno ricorrente in via incidentale”; anche se la sua domanda è inammissibile, l’interveniente resta una parte del processo sul piano formale e può quindi essere valido destinatario delle domande contro di lui proposte.
Il primo motivo (come il secondo, proposto subordinatamente al primo ed assorbito quindi dall’accoglimento del primo) censura la decisione della Corte d’appello laddove ha dichiarato inammissibile la domanda proposta da R.A. nei confronti dello Studio C., inammissibilità che la Corte ha fatto derivare – come si è visto supra – dalla ritenuta inammissibilità dell’intervento nel giudizio di opposizione dello Studio C.. L’accoglimento del primo motivo del ricorso principale – appunto volto a contestare la declaratoria di inammissibilità dell’intervento – comporta, al di là degli argomenti avanzati, la fondatezza della censura nei confronti della declaratoria di inammissibilità della domanda fatta valere nei confronti dell’interveniente.
2) Il terzo motivo è da ritenersi assorbito. Il motivo, proposto condizionatamente all’accoglimento dei primi due motivi del ricorso principale, contesta infatti violazione dell’art. 2697 c.c. e nullità della sentenza per violazione dell’art. 116 c.p.c. e infrapetizione, in quanto la Corte d’appello avrebbe errato nel non rilevare l’insussistenza del credito dello Studio C. per le prestazioni professionali rese a favore di R.A..
III. La sentenza impugnata va pertanto cassata in relazione ai motivi accolti e la causa deve essere rinviata alla Corte d’appello di Torino che si atterrà al seguente principio di diritto: “nel giudizio di opposizione a decreto di ingiunzione, che va considerato un ordinario processo di primo grado che devolve al giudice il completo esame del rapporto giuridico controverso e non il semplice controllo della legittimità del decreto, è ammissibile l’intervento volontario del terzo, nelle sue tre forme di intervento principale, litisconsortile e adesivo”. Il giudice di rinvio provvederà anche in relazione alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo del ricorso principale, rigettati i restanti motivi del ricorso, e nei limiti di cui in motivazione il primo motivo del ricorso incidentale, assorbiti i restanti motivi del ricorso; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Torino in diversa composizione.
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