CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 settembre 2020, n. 18776
Tributi – IRAP – Professionista – Presentazione dichiarazione Irap con imponibile a zero – Legittimità – Onere di prova a carico dell’Ufficio
I fatti di causa
N.D., dottore commercialista, ha impugnato davanti alla Commissione tributaria provinciale di Varese tre accertamenti riguardanti l’I.R.A.P. relativa agli anni 2003, 2004 e 2005, che l’Agenzia delle Entrate di Varese aveva contestato per l’omessa o la parziale compilazione, nelle dichiarazioni dei redditi, del quadro IQ, dove era stato indicato un valore della produzione imponibile pari a zero. L’Ufficio, considerato che detto risultato non era coerente con quanto risultante dei dati dichiarati dallo stesso contribuente nel quadro RE e considerato altresì che a norma dell’art. 19 comma 1 d.lgs. 446/’97 ogni soggetto passivo deve dichiarare per ogni periodo d’imposta i componenti del valore, ancorché non ne consegue un debito di imposta, determinò il valore della produzione netta, con conseguente imponibile I.R.A.P.
II contribuente domandò l’annullamento dei tre accertamenti deducendo la carenza di motivazione degli atti impositivi e la violazione dell’art. 2 del d.lgs. 446/1997 per mancanza del presupposto d’imposta.
L’ufficio si costituì in giudizio sostenendo che il contribuente avrebbe dovuto necessariamente calcolare l’i.r.a.p. sulla base dei dati contenuti nel quadro RE e poi eventualmente chiedere il rimborso dell’imposta versata. Rilevò nel merito che il ricorrente prestava la sua attività presso uno studio associato.
La commissione tributaria provinciale di Varese accolse il ricorso affermando che l’onere della prova sull’esistenza o meno dell’autonoma organizzazione incombeva sull’ufficio e che dei documenti prodotti non era emerso che il contribuente avesse dipendenti o utilizzasse abitualmente prestazioni di terzi.
Appellata dall’ufficio, la sentenza è stata riformata dalla commissione tributaria regionale della Lombardia che, con la sentenza qui impugnata, ha validato gli accertamenti ritenendo, principalmente, che la prova dell’insussistenza dell’autonoma organizzazione incombesse sul contribuente e che questi non avesse fornito in proposito alcun elemento utile.
Per la cassazione di questa sentenza ricorre N.D. per quattro motivi, ulteriormente illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c. del 4 febbraio 2020.
L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.
Le ragioni della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denuncia <<art. 360, Io comma, n. 3, c.p.c.: violazione dell’art. 42, 2° comma, del d.P.R. 600/’73>> in quanto la sentenza, validando l’accertamento, aveva ritenuto motivati gli accertamenti fondati sulla violazione degli articoli 8, 11 e 19, primo comma, del d. Igs. 446/1997, laddove, in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale n. 156/2001, ai fini i.r.a.p. l’imponibilità del valore della produzione dei liberi professionisti è necessariamente collegata all’accertamento dell’esistenza di un’autonoma organizzazione.
Con il secondo motivo denuncia <<art. 360, Io comma, n. 3 c.p.c.: violazione dell’art. 2 del d.lgs. 446/1997>> in quanto la sentenza avrebbe compreso nei presupposto dell’imposta, costituito dall’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni o di servizi, l’attività libero professionale, dove il requisito dell’autonoma organizzazione non è connaturato.
Con il terzo motivo denuncia <<art. 360, I° comma, n. 3, c.p.c.: violazione dell’art. 2697 c.c.>> perché la sentenza avrebbe erroneamente attribuito al contribuente l’onere di dimostrare l’inesistenza del requisito dell’autonoma organizzazione, laddove detto onere avrebbe dovuto essere attribuito all’Amministrazione, attore sostanziale nel processo tributario.
Con il quarto motivo denuncia <<art. 360, I° comma, n. 4, cod. proc. civ.>> perché il giudice d’appello si sarebbe “totalmente astenuto da fornire un giudizio in merito all’esistenza o meno dell’autonoma organizzazione sulla base dei dati e dei documenti comunque gli atti”, dai quali risultava l’inesistenza di lavoratori subordinati o di collaboratori anche solo occasionali e di beni strumentali.
Questi motivi, tra loro strettamente connessi in quanto tutti afferenti al presupposto della pretesa impositiva e alla distribuzione dell’onere della prova relativa, vanno trattati congiuntamente.
Essi sono infondati.
Gli atti impositivi impugnati si sono basati sui dati esposti dal contribuente nelle dichiarazioni dei redditi, dove erano stati compilati i quadri RE ma non anche i quadri IQ (dove il valore della produzione era stato indicato con “zero”), pur essendo i redditi dichiarati imputati a redditi di partecipazione a studio associato.
Essendo l’attività libero professionale svolta in forma associata assoggetta e pertanto ex lege soggetta ad i.r.a.p. (Cass., 30873/2019; Cass., sez. U, 7371/2016), l’Ufficio avrebbe potuto rettificare la dichiarazione dei redditi del contribuente anche con il procedimento previsto dall’art. 36 bis d.P.R. 600/1973, come usualmente accade, e dove la motivazione dell’atto è in re ipsa.
Del fatto che l’Ufficio abbia proceduto a rettifica ex art. 39 d.P.R. 600/1973 il contribuente non può dolersi, trattandosi di procedimento che comunque assicura maggiori garanzie di difesa (cfr., Cass., 7291/2017).
Né rileva il fatto che gli accertamenti non abbiano esplicitamente menzionato l’esercizio in forza associata della dichiarazione, apparendo sufficiente a motivare l’atto impositivo il riferimento alla violazione dell’art. 19, comma 1, d.lgs. 446/1997 (“Ogni soggetto passivo deve dichiarare per ogni periodo di imposta i componenti del valore, ancorché non ne consegua un debito di imposta”) che, all’interno delle dichiarazioni concretamente effettuate dal contribuente nel quadro RE, configura una fattispecie omissiva alla quale l’Ufficio non poteva non ovviare ex actis.
Alla luce di queste osservazioni il problema della distribuzione dell’onere della prova, nei termini nei quali è stato dibattuto nel giudizio di merito, come pure quello del presupposto dell’imposta, non si sarebbero dovuti neppure porre, non essendo in discussione compensi che siano derivati da attività non associativamente esercitate (cfr., Cass., 12495/2019; Cass., 17987/2019; Cass., 766/2019).
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida in € 4.100,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, se dovuto.
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