CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 dicembre 2018, n. 31983
Cessione di contratto – Mero svolgimento di prestazioni lavorative per il cessionario – Formazione di tacito consenso – Nullità – Ripristino del rapporto di lavoro
Fatti di causa
Con sentenza 2 settembre 2015, la Corte d’appello di Firenze dichiarava la nullità della cessione del contratto di lavoro di F.A., L.P. e A.A. da T.I. s.p.a. a M.F. s.p.a. e condannava la prima società al ripristino del rapporto di lavoro con i predetti con l’inquadramento attribuito al tempo della cessione: così riformando la sentenza di primo grado, che aveva invece rigettato la domanda dei lavoratori illegittimamente trasferiti.
A motivo della decisione, la Corte territoriale escludeva la formazione di un tacito consenso dei lavoratori alla cessione dei loro contratti e riteneva illegittimo il trasferimento del ramo d’azienda dalla predetta società a M.F. s.p.a., in difetto del requisito di preesistenza, a norma dell’art. 2112 c.c. nel testo applicabile ratione temporis, di un’articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata: avendo al contrario accertato, sulla base delle scrutinante risultanze istruttorie, il trasferimento di una sola parte del Servizio Manutenzioni, priva di autosufficienza produttiva, oltre che di ogni funzione decisoria e diversa da quella meramente operativa.
Con atto notificato il 1° marzo 2016, T.I. s.p.a. ricorreva per cassazione con due motivi, cui resistevano i lavoratori con unico controricorso e memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1325, 1372, 1406 c.c., per erronea esclusione del consenso tacito dei lavoratori alla cessione del loro contratto di lavoro da T.I. s.p.a. a M.F. s.p.a., avendo consapevolmente tenuto un comportamento (non già di inerzia, ma) attivo, quale la quotidiana prestazione lavorativa per oltre sette anni prima della proposizione del ricorso giudiziale.
2. Con il secondo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c., per l’autonomia funzionale del ramo ceduto a M.F., siccome idoneo alla produzione di un servizio o di un bene, quale un’attività di natura amministrativa e contabile nei confronti di imprese esterne clienti di T. s.p.a., essendo irrilevante che esso sia stato costituito (fin dall’inizio) come una parte del più ampio Servizio Manutenzioni.
3. Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 1325, 1372, 1406 c.c., per erronea esclusione del consenso tacito dei lavoratori alla cessione del loro contratto di lavoro, è infondato.
3.1. Bene la Corte territoriale ha applicato i principi di diritto in materia, secondo cui lo svolgimento, in via di mero fatto, di prestazioni lavorative per il cessionario non integra accettazione della cessione del contratto di lavoro (Cass. 16 giugno 2014, n. 13617; Cass. 24 ottobre 2017, n. 25144).
3.2. E comunque si tratta di valutazione del significato e della portata del complesso di elementi di fatto di competenza del giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistano vizi logici o errori di diritto (Cass. 4 agosto 2011, n. 16932 con principio affermato ai sensi dell’art. 360bis n. 1 c.p.c.; Cass. 11 marzo 2011, n. 5887; Cass. 13 febbraio 2015, n. 2906; Cass. 12 dicembre 2017, n. 29871): inesistenti nel caso di specie, nell’argomentato accertamento in fatto della Corte territoriale (per le ragioni esposte in particolare al p.to 4.3. di pg. 3 della sentenza).
4. Anche il secondo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c. per l’autonomia funzionale del ramo ceduto a M.F., è infondato.
4.1. Ed infatti, parimenti la Corte territoriale ha esattamente applicato i consolidati principi di diritto in materia di trasferimento di ramo d’azienda, a norma dell’art. 2112 c.c., anche nel testo modificato dall’art. 32 del d.lgs. n. 276 del 2003 applicabile ratione temporis, secondo cui ne costituisce elemento costitutivo l’autonomia funzionale, ovvero la sua capacità, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi: e quindi di svolgere, senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario, il servizio o la funzione finalizzati nell’ambito dell’impresa cedente. E ciò, anche secondo la sentenza della Corte di Giustizia del 6 marzo 2014, in C-458/12 (richiamata in particolare da: Cass. 28 settembre 2015, n. 19141 per avere, a fini di applicazione della direttiva 2001/23/CE del 12 marzo 2001, ribadito la necessità di una sufficiente autonomia funzionale, anteriormente al trasferimento, della quota d’impresa ceduta; ferma restando la possibilità, in forza dell’art. 1, par. 1, lett. a, b della citata direttiva, per la normativa nazionale di estensione dell’obbligo di mantenimento dei diritti dei lavoratori trasferiti pure nell’ipotesi di non preesistenza del ramo d’azienda), presuppone una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma (Cass. 15 aprile 2014, n. 8757; Cass. 27 maggio 2016, n. 11069; Cass. 31 maggio 2016, n. 11247; Cass. 31 luglio 2017, n. 19034; Cass. 29 novembre 2017, n. 28508).
4.2. Ed è peraltro noto come un ramo d’azienda ben possa essere individuato, quando non occorrano particolari mezzi patrimoniali per l’esercizio dell’attività economica, anche da un complesso stabile organizzato di persone, addirittura in via esclusiva allorquando siano dotate di particolari competenze e stabilmente coordinate ed organizzate tra loro, così da rendere le loro attività interagenti e idonee a tradursi in beni e servizi ben individuabili (Cass. 6 aprile 2016, n. 6693, con richiamo di precedenti di legittimità e della Corte di Giustizia UE in motivazione).
4.3. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha accertato in fatto la carenza di prova dell’esistenza di un ramo d’azienda, in esito a puntuale scrutinio degli elementi allegati e acquisiti dalle risultanze istruttorie. E ciò ha congruamente argomentato con piena adeguatezza sotto il profilo logico – giuridico (per le ragioni esposte dal penultimo capoverso di pg. 4 all’ultimo di pg. 6 della sentenza), sicché è insindacabile nel giudizio di legittimità, preclusivo di una revisione del giudizio di merito e di una nuova pronuncia sul fatto, siccome estranee alla sua natura e finalità (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394); tanto meno in una prospettiva di ricostruzione dei fatti operata dalla parte in contrapposizione a quella dèi giudice di merito, incensurabile dal giudice di legittimità, al quale solo pertiene la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni del giudice di merito, non equivalendo il sindacato di logicità del giudizio di fatto a revisione del ragionamento decisorio (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694; Cass. 5 ottobre 2006, n. 21412).
4.4. Un tale sindacato è tanto più precluso dal novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., applicabile ratione temporis, in difetto di deduzione di omesso esame di un fatto, invero scrutinato, ma della sua valutazione, non censurabile (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439).
5. Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese secondo il regime di soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna T.I. s.p.a. alla rifusione, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
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