CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 febbraio 2019, n. 3899
Licenziamento – Reintegra – Indennità risarcitoria – Codatorialità – Responsabilità solidale
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Roma, in accoglimento del reclamo proposto da F. di C., ha dichiarato nullo il licenziamento intimatole in data 4 dicembre 2014 ed ha ordinato alle società reclamate – CG C. s.a.s. di G. D. & C. in liquidazione, C. s.n.c. di C. T. & C., D. S. s.r.l. e P.T.R. Costruzioni s.r.l. – di reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro in precedenza occupato condannandole, in solido tra loro, al pagamento di un’indennità risarcitoria parametrata alle retribuzioni globali di fatto tra la data del licenziamento e l’effettiva reintegra con gli interessi legali e la rivalutazione monetaria oltre che al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali ed alle spese di tutte le fasi del processo.
2. Il giudice di appello ha accertato che, sin dall’atto introduttivo, era stato allegato che la Di C. aveva prestato la sua attività in favore delle società convenute; che aveva osservato direttive provenienti da soggetti delle diverse società; che era stato prospettato che con le indicate società, pur non essendo ravvisabile un vero e proprio gruppo aziendale, esisteva una situazione di c.d. codatorialità; che la lavoratrice non era tenuta a dimostrare l’esistenza di una struttura organizzativa e produttiva unica ma, piuttosto, era suo onere provare che aveva prestato la sua attività alle dipendenze di più datori di lavoro con un unico rapporto. In conclusione il giudice di appello ha ritenuto che, sebbene il rapporto fosse stato formalmente instaurato con la CG C. s.a.s. di G. D. & C., tuttavia in concreto era risultato provato che l’attività lavorativa era stata prestata anche in favore delle altre società le quali erano tutte solidalmente responsabili delle conseguenze delle iniziative assunte dalla datrice di lavoro formale.
2.1. Con riguardo al licenziamento la Corte di merito ha accertato che era stato intimato in data 4 dicembre 2015 in relazione alla cessazione dell’attività della formale datrice di lavoro e che la sua efficacia era stata differita al 15 febbraio 2015. Ha del pari accertato che lo stato di gravidanza era stato comunicato alla datrice di lavoro il 22.12.2014. Ha escluso che in concreto, stante l’accertato regime di codatorialità nel cui contesto l’attività lavorativa era prestata, si potesse ritenere realizzata l’unica condizione che avrebbe autorizzato un recesso legittimo dal rapporto in quanto non si poteva ritenere complessivamente cessata l’attività aziendale stante l’esistenza di altre società, responsabili in solido, con la datrice di lavoro formale, delle obbligazioni nascenti dal rapporto di lavoro. Accertata la nullità del licenziamento, il giudice di secondo grado, ha quindi ordinato alle società reclamate di reintegrare la Di C. nel posto di lavoro, in applicazione dell’art. 18 primo comma della legge n. 300 del 20 maggio 1970, nel testo modificato dalla legge n. 92 del 28 giugno 2012.
3. Per la cassazione della sentenza propongono ricorso le società CG C. s.a.s. di G. D. & C. in liquidazione, C. s.n.c. di C. T. & C., D. S. s.r.l. e P.T.R. Costruzioni s.r.l. affidato a tre motivi. F. di C. resiste con controricorso.
Ragioni della decisione
4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 18 comma 1 della legge n. 300 del 1970 nel testo modificato dalla legge n. 92 del 2012 quale conseguenza della declaratoria di nullità del licenziamento per violazione dell’art. 54 della legge n. 151 del 2001 in tema di tutela della maternità.
4.1. Ad avviso delle ricorrenti la Corte di merito avrebbe erroneamente interpretato il concetto di unicità del centro di imputazione del rapporto di lavoro e, del pari erroneamente, avrebbe ritenuto applicabile la tutela prevista dal primo comma dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 nel testo modificato dalla legge n. 92 del 2012 non ravvisando nel caso concreto la deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre prevista dall’art. 54 c. 3 lett. b) del d.lgs. n. 151 del 2001 per il caso di cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta. Sostengono le ricorrenti che occorre distinguere il concetto di codatorialità da quello di “unicità del centro di imputazione del rapporto di lavoro”. Solo ove si accerti l’esistenza di un’unica struttura organizzativa e produttiva, l’integrazione tra le attività esercitate dalle imprese del gruppo, l’esistenza di un interesse comune, il coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario, un unico soggetto direttivo che faccia confluire le attività delle singole imprese verso uno scopo comune e dunque la contemporanea ed indifferenziata utilizzazione della prestazione lavorativa da parte di più società sarebbe applicabile la tutela reale richiesta mentre, nel caso come quello in esame in cui l’esistenza di un gruppo societario ma non è stata neppure allegata, l’unica tutela conseguibile dal lavoratore che prestato la sua attività in favore di soggetti diversi dal formale datore di lavoro – in mancanza di un provvedimento di distacco, comando o di un rapporto di somministrazione – sarebbe solo quella di diritto comune, nella specie mai chiesta, di accertamento ab origine dell’esistenza di un rapporto di lavoro con il soggetto che ha materialmente beneficiato della prestazione.
5. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 54 della legge n. 151 del 2001 nella misura in cui non è stata ritenuta applicabile la deroga di cui all’art. 54 comma 1 n. 3 lett. b) relativa al caso di cessazione dell’attività.
5.1. Osservano le ricorrenti che la sentenza impugnata aveva accertato che effettivamente la società CG C. s.a.s. di G. D. aveva cessato la sua attività. Inoltre aveva escluso che le diverse società convenute integrassero un unico centro di imputazione di interessi. Ciononostante la Corte non aveva applicato la citata disposizione al licenziamento intimato dalla società datrice di lavoro sul rilievo, errato, che le altre società in favore delle quali la Di C. aveva prestato la sua attività non erano invece cessate.
6. Con il terzo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ.. Sostengono le ricorrenti che era onere della lavoratrice, che non vi aveva adempiuto, provare l’esistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. In esito ad una errata valutazione delle prove testimoniali assunte nella fase sommaria la Corte di merito sarebbe pervenuta all’ ingiusta condanna in via solidale delle società che non erano le formali datrici di lavoro della Di C., in assenza di prova relativa alla sussistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Nel valutare le emergenze istruttorie il giudice di appello avrebbe trascurato di considerare che i testi che non erano in grado di riferire su fatti di cui avevano una limitata e non diretta conoscenza. Così facendo la Corte di merito avrebbe ritenuto accertato un fatto storico sulla base di circostanze mai riferite dai testi escussi.
7. Le censure, che possono essere esaminate congiuntamente, investono sotto vari profili la decisione che, a prescindere dalla prova dell’esistenza di un vero e proprio gruppo societario, la cui esistenza non era stata mai neppure allegata, ha tuttavia accertato che la prestazione lavorativa era stata resa per oltre dieci anni, contestualmente, oltre che in favore della società datrice di lavoro formale, anche in favore delle altre società convenute.
7.1. La Corte di merito, con accertamento di fatto che in questa sede non solo non è censurabile ma neppure è censurato, ha verificato che le mansioni amministrative, contabili e di segreteria erano svolte dalla Di C. sulla base di direttive impartite da D. G. e T. C. i quali erano soci oltre che della formale datrice di lavoro anche delle altre società. Nello specifico il G. era titolare e liquidatore della CG C. s.a.s. in liquidazione, e della P.T.R. Costruzioni s.r.l.. La C. era socia accomandataria della C. s.a.s. in liquidazione, amministratore unico della D. S. s.r.l., rappresentante legale della C. s.n.c. di C. T. & C. e socia della P.T.R. Costruzioni s.r.l..
7.2. Osserva allora il Collegio che nella specie, al di là della prova dell’esistenza di un vero e proprio gruppo societario, che come è noto si caratterizza per l’esistenza di un’unica struttura organizzativa e produttiva, dell’integrazione delle attività esercitate dalle diverse imprese, del coordinamento tecnico, amministrativo e finanziario e dello svolgimento della prestazione di lavoro in modo indifferenziato, in favore delle diverse imprese del gruppo (cfr. tra le altre Cass. 20/12/2016 n. 26346 e più recentemente Cass. 31/05/2017 n. 13809), si è verificata una situazione di c.d. codatorialità. Come chiarito anche di recente da questa Corte “si ha unicità del rapporto di lavoro qualora uno stesso lavoratore presti contemporaneamente servizio per due datori di lavoro e la sua opera sia tale che in essa non possa distinguersi quale parte sia svolta nell’interesse di un datore di lavoro e quale nell’interesse dell’altro, con la conseguenza che entrambi i fruitori di siffatta attività devono essere considerati solidalmente responsabili delle obbligazioni che scaturiscono da quel rapporto, ai sensi dell’art. 1294 cod. civ. che stabilisce una presunzione di solidarietà in caso di obbligazione con pluralità di debitori, ove dalla legge o dal titolo non risulti diversamente” (Cass. 28/03/2018 n. 7704 ed ivi le richiamate Cass. 02/07/2015 n. 13646, 05/03/2003 n. 3249, 20/10/ 2000 n. 13904, 10/06/1986 n. 3844). In disparte l’esistenza di una sinergia tra le varie imprese perciò ove, come nel caso in esame, si accertati che l’attività amministrativo contabile era resa dalla lavoratrice, contemporaneamente ed indifferentemente, in favore di tutte le diverse società convenute e che la prestazione, nell’orario di lavoro definito contrattualmente dalla società che formalmente aveva in carico la dipendente, andava a vantaggio anche delle altre società, si deve ritenere che sussista un unico rapporto alle dipendenze di più datori di lavoro. In sostanza, qualora uno stesso dipendente presti servizio contemporaneamente a favore di diversi datori di lavoro, titolari di distinte imprese, e l’attività sia svolta in modo indifferenziato, così che in essa non possa distinguersi quale parte sia stata svolta nell’interesse di un datore e quale nell’interesse degli altri è configurabile l’unicità del rapporto di lavoro e tutti i fruitori dell’attività del lavoratore devono essere considerati solidalmente responsabili nei suoi confronti per le obbligazioni relative, ai sensi dell’art. 1294 cod. civ. (cfr. Cass. n. 13904 del 2000 cit.).
In ambito lavoristico, il concetto di impresa e di datore di lavoro è infatti individuabile, sulla base di una “concezione realistica”, nel soggetto che effettivamente utilizza la prestazione di lavoro ed è titolare dell’organizzazione produttiva in cui la prestazione stessa è destinata ad inserirsi (cfr. in motivazione Cass. 29/11/2011 n. 25270).
7.3. Correttamente perciò la Corte di merito ha ritenuto che le diverse società convenute, tutte destinatarie della prestazione lavorativa della Di C. rispondessero solidalmente delle obbligazioni relative al rapporto di lavoro “ben potendo esistere un rapporto di lavoro che vede nella posizione del lavoratore un’unica persona e nella posizione di datore di lavoro più persone rendendo così solidale l’obbligazione del datore di lavoro” (cfr. al riguardo Cass. n. 25270/2011 cit. e già Cass. 14/11/2005 n. 22927 e 10/04/2009 n. 8809; più di recente v. anche Cass. 08/09/2016 n. 17775 in motivazione).
7.5. Una volta accertata la riferibilità del rapporto a tutte le imprese convenute, ed incontestata l’avvenuta cessazione dello stesso durante la maternità della lavoratrice, correttamente la Corte di appello ha ritenuto che le convenute fossero solidalmente responsabili delle obbligazioni connesse e conseguenti al rapporto di lavoro ed ha escluso che trovasse applicazione la deroga alla nullità del licenziamento prevista dall’art. 54 comma 1 n. 3 lett. b) della legge n. 151 del 2001 essendo pacifico tra le parti che la cessazione dell’attività dell’impresa era riferibile solo e soltanto alla formale datrice di lavoro e non anche alle altre società che, per quanto sopra detto, erano risultate parimenti datrici di lavoro della Di C..
8. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e, poste solidalmente a carico delle ricorrenti, sono liquidate nella misura indicata in dispositivo. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 qua ter del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R..
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna le ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 5000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R.
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