CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 luglio 2019, n. 18700
Avvocato – Incompatibilità dell’impiego pubblico, anche part time, con la professione – Opzione per il mantenimento o la cessazione del rapporto di impiego – Comunicazione al consiglio dell’ordine
Fatti di causa
1. G. R. V. è stato licenziato per giusta causa dall’Agenzia delle Entrate, nel luglio 2008, per violazione del dovere di esclusività e delle disposizioni in materia di incompatibilità e conflitto di interessi.
Era infatti accaduto che egli, già in regime di part time, avesse svolto, come dapprima consentito dalla normativa vigente, attività di avvocato; era poi sopravvenuta la L. 369/2003, la quale, nel sancire l’incompatibilità assoluta dell’impiego pubblico, anche part time, con la professione di avvocato, aveva stabilito che, nel termine di 36 mesi dalla entrata in vigore della nuova disciplina, il dipendente dovesse manifestare l’opzione per il mantenimento o la cessazione del rapporto di impiego, dandone comunicazione al consiglio dell’ordine presso il quale risultava iscritto.
Il Consiglio dell’Ordine di Nola, pur allo scadere del biennio, aveva tuttavia deliberato di rinviare l’esame della pratica relativa al V., sul presupposto che egli si trovava al momento in regime di aspettativa senza retribuzione presso l’Agenzia delle Entrate e quindi ricorreva una situazione di temporanea rimozione della causa di incompatibilità.
Atteso il perdurare del rapporto di lavoro, nonostante la scadenza dei termini per l’esercizio dell’opzione, l’Agenzia delle Entrate, sulla base di questionario in cui il V. dichiarava di avere esercitato nell’ultimo biennio attività di avvocato, riteneva la violazione dei doveri gravanti sul pubblico impiegato e disponeva il suo licenziamento.
2. La Corte d’Appello di Napoli, confermando la pronuncia di primo grado, ha ritenuto l’illegittimità della sanzione applicata. Essa affermava che, in esito al mancato esercizio dell’opzione, l’Agenzia delle Entrate avrebbe dovuto dare previamente corso alle procedure per il formale reinserimento del lavoratore a tempo pieno e, una volta ripristinato tale regime giuridico, avrebbe potuto svolgere ogni verifica in ordine ai perdurante esercizio da parte del Viola dell’attività forense, con accertamento che non avrebbe potuto prescindere da una minuziosa indagine istruttoria, in realtà mancata del tutto, atteso che la contestazione disciplinare si era fondata esclusivamente sul tenore delle dichiarazioni – ritenute dall’amministrazione non mendaci – inserite dal dipendente nel questionario e si sostanziava unicamente nell’avere il Viola mancato di esercitare l’opzione entro i 36 mesi previsti dalla normativa.
3. L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi, poi illustrati da memoria e resistiti da controricorso del V..
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo l’Agenzia delle Entrate denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 132, co. 2, n. 4 c.p.c. e nullità della sentenza (art. 306 co. 2 n. 4 c.p.c.) per essere la stessa munita di motivazione soltanto apparente, oltre che illogica e contraddittoria.
In particolare la ricorrente sottolinea come la Corte partenopea avesse erroneamente ritenuto che oggetto del giudizio fosse il recesso datoriale per omesso esercizio del diritto di opzione, mentre in realtà esso andava individuato, come denunciato già con l’atto di appello, nella prosecuzione dell’attività forense in costanza del rapporto di lavoro pubblico e pur dopo la scadenza del termine per l’esercizio dell’opzione. Pertanto, rispetto alle censure mosse con l’appello, la sentenza era solo apparentemente motivata, mentre essa era in realtà illogica e contraddittoria, avendo il giudice di merito ritenuto che vi fosse stato esercizio di attività forense in regime di incompatibilità, senza però poi argomentare al fine di giustificare la fondatezza della sanzione.
Il secondo motivo è destinato dalla ricorrente alla denuncia di violazione e falsa applicazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) dell’art. 1, co. 56-61 della L. 662/1996, dell’art. 60 d. p.r. 18/2002 e della L. 339/2003, sul presupposto che la violazione del divieto di svolgimento di attività forense fosse sanzionata dall’art. 1, co. 61 L. 662/1996 quale giusta causa di recesso datoriale, a diretta tutela di interessi di rango costituzionale, afferenti, da un lato, all’imparzialità e buon andamento della P.A. (art. 97 Cost.) e, dall’altro, posti a garanzia dell’indipendenza della professione forense, in quanto strumentale all’esercizio del diritto di difesa ex art. 24 Cost.
Con il terzo motivo viene affermata, ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 115 c.p.c., per avere la Corte territoriale posto a fondamento della decisione annullatola fatti incontrovertibilmente smentiti dagli atti di causa, addirittura ammessi del Viola e quindi non contestati. In particolare era stato lo stesso Viola a dichiarare l’avvenuto svolgimento di lavoro autonomo di avvocato, nell’ultimo biennio, in occasione della sottoscrizione di questionario a lui sottoposto.
Un ultimo motivo di ricorso riguarda invece l’asserita violazione dell’art. 112 c.p.c., anche in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., per avere individuato quale fondamento del recesso datoriale un fatto (omesso esercizio dell’opzione) diverso da quello effettivamente posto a fondamento dell’atto di recesso (prosecuzione dell’attività forense in costanza di lavoro pubblico), sicché la pronuncia aveva finito per superare il perimetro della domanda quale risultante dagli atti, così pronunciando su una questione, quella in ordine all’idoneità del mancato esercizio dell’opzione a giustificare il recesso, che non era stata posta dalle parti.
2. Il ricorso è fondato, nei termini che si esplicitano di seguito.
2.1 II quadro normativo e fattuale entro cui si inscrive la vicenda è pacifico.
Secondo il disposto dell’art. 1, co. 56 L. 662/1996, in combinato disposto con l’art. 53, co. 6, d. Igs. 165/2001, l’esercizio della libera professione, senza distinzione e quindi anche in ambito forense, poteva essere consentito dalla P.A., come era avvenuto nel caso di specie, allorquando il dipendente operasse presso di essa in regime di part ti me.
La L. 339/2003, (art. 1), nell’affermare che restavano fermi i limiti di cui al R.D. 1578/1933, aveva però successivamente sancito l’incompatibilità assoluta tr:, professione di avvocato e lo status di pubblico dipendente (art. 3, co. 2, R.D. cit.), stabilendo (art. 2, co. 1, L. 339 cit.) che, nel termine di trentasei mesi, il dipendente potesse optare per il mantenimento o la cessazione del rapporto di impiego dandone comunicazione al Consiglio dell’Ordine di riferimento e che «in mancanza di comunicazione entro il termine previsto, i consigli degli ordini degli avvocati provvedono alla cancellazione di ufficio dell’iscritto al proprio albo», fermo restando (art. 2, co. 2, L. 339 cit.) che il pubblico dipendente, nell’ipotesi di opzione per la prosecuzione del rapporto, aveva diritto ad essere reintegrato in esso a tempo pieno.
Il Consiglio dell’Ordine di Nola, nel novembre 2007 e quindi a termine di trentasei mesi ampiamente scaduto, prendendo atto che il Viola aveva avuto accesso ad aspettativa senza retribuzione presso l’Agenzia delle Entrate, riteneva che si fosse determinata una causa di rimozione temporanea della causa di incompatibilità, deliberando pertanto di rinviare l’esame della pratica alla prima seduta utile dell’ottobre 2008.
L’Agenzia delle Entrate aveva viceversa instaurato procedimento disciplinare, sul presupposto che il V. avesse proseguito il rapporto di pubblico impiego in condizione di incompatibilità, definendo infine lo stesso con il licenziamento del medesimo.
2.2 Non può dirsi che la Corte territoriale, come sostenuto con il primo ed ultimo motivo di ricorso, abbia limitato l’oggetto della propria decisione al fatto che il V. non avesse esercitato l’opzione prevista dalla L. 339/2003.
Infatti, dopo avere affermato che occorreva «stabilire se l’omesso esercizio dell’opzione» legittimasse «ex se il recesso per giusta causa», la sentenza ha analizzato quello che avrebbe dovuto essere, in mancanza dell’opzione, il comportamento della P.A., per concludere che essa avrebbe dovuto dapprima reinserire formalmente a tempo pieno il dipendente e quindi, accertando minuziosamente i fatti verificatisi, verificare il «perdurante esercizio … della libera professione forense» ed apprezzare, anche «nell’ottica della doverosa valutazione del rapporto di proporzionalità tra la gravità della mancanza contestata e l’entità della misura espulsiva».
La critica così impostata al diverso comportamento tenuto dalla P.A., che ha proceduto in via disciplinare senza previamente riammettere in servizio a tempo pieno il V., esprime una valutazione di erronea conduzione del procedimento disciplinare e quindi fornisce una risposta all’assunto dell’Agenzia secondo cui oggetto del contendere era la legittimità della sanzione per la prosecuzione dell’attività forense in costanza di lavoro pubblico: nel senso, implicito nella riportata motivazione della sentenza, che quella violazione non avrebbe potuto essere contestata se non dopo la riammissione in servizio a tempo pieno del lavoratore.
2.3 Coglie però nel segno l’ulteriore censura, mossa dalla Agenzia delle Entrate attraverso il secondo motivo, secondo la quale, una volta esclusa con la L. 339/2003, la compatibilità in ogni caso dell’attività libero professionale forense con l’impiego pubblico, trovava nuovamente applicazione il regime di cui all’art. 1, co. 60 L. 662/1996, con divieto di svolgimento dell’attività professionale esterna e la sanzione, in caso di violazione, prevista nel successivo comma 61, nei termini della giusta causa di recesso.
Ciò evidenzia l’infondatezza della ricostruzione operata dalla Corte distrettuale, secondo cui la P.A. avrebbe dovuto, prima di procedere in via disciplinare, disporre la ripresa del rapporto a tempo pieno.
Il riespandersi del rapporto dal part time al tempo pieno è conseguenza, stabilita dall’art. 2, co. 2, L. 339/2003, dell’esercizio dell’opzione, anche in forma tacita, ma ha per presupposto, qualora il competente Ordine per qualsiasi ragione non provveda allo scadere del termine alla cancellazione dell’iscritto, la cessazione da parte dell’interessato dell’attività forense.
Non è infatti sostenibile che la P.A., a fronte della mancata cessazione dell’attività forense, sia tenuta previamente a riammettere il dipendente al tempo pieno, così finendo per addirittura aggravare il contrasto con la norma di legge che sancisce l’incompatibilità assoluta tra quella professione e il pubblico impiego.
Le ragioni di illegittimità del comportamento della P.A. poste a fondamento della decisione sono dunque erronee.
Fondati sono peraltro anche i rilievi mossi con il terzo motivo di ricorso.
2.4 La sentenza di secondo grado ha ritenuto che, nel procedere in via disciplinare, l’Agenzia non potesse fondare il proprio accertamento «esclusivamente – si cita testualmente dalla motivazione di secondo grado, n.d.r. – sul tenore delle dichiarazioni – ritenute dalla stessa amministrazione non mendaci – inserite dal dipendente nel questionario compilato ai sensi dell’art. 1 comma 62 L. 662/1996»
La ricorrente, nel corpo del motivo, riporta la copia del questionario da cui emerge l’inserimento da parte del Viola, in ordine alla richiesta sul “lavoro autonomo svolto nell’ultimo biennio”, della dizione “avvocato”; il questionario risale poi al novembre 2007 e quindi ad epoca significativamente posteriore al 2.12.2006, data (trentase1 mesi successivi all’entrata in vigore della L. 339/2003, avvenuta il 2.12.2003) di scadenza del termine per l’esercizio dell’opzione.
Sempre la medesima ricorrente, al fine di avallare l’assunto secondo cui il predetto dato sarebbe stato incontestato, riporta lo stralcio delle memorie avversarie di primo grado, nell’ambito delle quali, nello sviluppare difese finalizzate a far constare che l’attività era sempre stata svolta sulla base dell’originaria autorizzazione ottenuta all’epoca in cui vi era compatibilità con il part time, effettivamente emerge una posizione che si pone in contrasto con la contestazione dell’effettiva prosecuzione dell’attività professionale, che del resto neppure il V., nel rispondere con il controricorso a tale motivo avversario, afferma vi fosse stata, reiterando invece difese, analoghe nel merito a quanto risultante dalla citata memoria di primo grado.
Quanto sopra fa dunque emergere la violazione dell’art. 115 c.p.c., nella parte in cui la norma afferma che il giudice deve porre a fondamento della decisione i «fatti non contestati», come anche, lo si dice in virtù del principio iura novit curia, dell’art. 2735, co. 1, prima parte c.c., in relazione all’art. 2733, co. 2, c.c., allorquando nel valutare la dichiarazione confessoria resa in un questionario del datore di lavoro, la Corte territoriale non ne ha apprezzato l’efficacia di piena prova, allorquando ha ritenuto insufficiente che, nell’accertamento dell’esercizio dell’attività incompatibile con il pubblico impiego, la P.A. si potesse basare – così si legge nella sentenza impugnata – «esclusivamente sul tenore delle dichiarazioni».
3. L’accoglimento del secondo e terzo motivo comporta la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio ad altra Corte territoriale, affinché proceda al riesame del merito, emendato dagli errori di diritto sopra evidenziati ai punti 2.3 e 2.4.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Salerno, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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