CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 maggio 2018, n. 11436

Tributi – Accertamento -Indebita deduzione di perdite su crediti ceduti

Fatti di causa

Nella controversia originata dall’impugnazione da parte della A. s.p.a. (oggi W.G.I. s.p.a.) di avvisi di accertamento, relativi ad irpeg ed ilor degli anni 1987 e 1988, la Commissione tributaria regionale del Veneto, innanzi alla quale il processo era stato riassunto a seguito del rinvio disposto da questa Corte con sentenza n. 17192 del 23 luglio 2009, confermava, con la sentenza indicata in epigrafe, la sentenza n.419/02/1995 della Commissione tributaria di secondo grado di Verona (di cessazione della materia del contendere relativamente all’anno 1988 e di accoglimento dell’appello della contribuente, con integrale annullamento dell’avviso impugnato relativamente all’anno 1987).

Il Giudice di appello riteneva adeguatamente motivato l’avviso di accertamento ma lo annullava, nel merito, ritenendo che l’operato della Società fosse stato legittimo.

Con particolare riferimento ai rilievi che ancora qui interessano, siccome oggetto dei motivi di ricorso, la Commissione tributaria regionale riteneva:

– in ordine alla contestata indebita deduzione di perdite su crediti ceduti, che la cessione pro soluto avesse costituito una perdita effettiva e determinata; -in ordine all’indebito riporto di perdite di esercizi precedenti, accumulate dalla S.p.A. T.A., società incorporata dalla A. s.p.a. per fusione, che l’Amministrazione non avesse provato la natura indebita del risparmio fiscale conseguito dalla Società nella ricorrenza di tutti i presupposti di legge.

Avverso la sentenza l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso su quattro motivi.

La Società resiste con controricorso e propone ricorso incidentale su quattro motivi, successivamente illustrati con deposito di memoria ex art. 378 cod.proc.civ.

Ragioni della decisione

1. Esaminata preliminarmente l’eccezione di inammissibilità del ricorso per tardività sollevata dalla controricorrente, la stessa va disattesa. La sentenza impugnata, non notificata, è stata depositata il 9 giugno 2011, e l’atto di appello, tempestivamente, avviato per la notificazione il 23 luglio 2012, nel termine cd. “lungo” ex art. 327 cod.proc.civ. nel testo previgente, essendo ovvio che il rinvio operato dal d.lgs. n. 546/1992 alla norma del codice di procedura civile includa anche la sua vigenza temporale.

1.1 Il principio, condiviso dal Collegio, è già stato affermato da questa Corte (sentenza n. 12642 del 19/05/2017) la quale ha statuito che «l’art. 38 del d.lgs. n. 546 del 1992 non ha istituito un regime speciale per il processo tributario in ordine all’applicazione del termine lungo di impugnazione, impermeabile alle disposizioni transitorie di cui all’art. 58 della l. n. 69 del 2009: tale principio si desume dall’art. 62 del medesimo decreto, che fa espresso riferimento, per la disciplina del giudizio di cassazione in materia tributaria, alle norme del codice di procedura civile, così attribuendo prevalenza alle norme processuali ordinarie ed escludendo l’esistenza di un giudizio “tributario di legittimità».

2. Egualmente va disattesa l’ulteriore eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di autosufficienza laddove lo stesso appare rispondente ai dettami di cui agli artt. 360 e 366 cod.proc.civ. Nell’illustrazione del “fatto e svolgimento del processo” vengono, infatti, riprodotti, per sintesi sufficiente, i motivi di impugnazione, le sentenze impugnate ed il decisum reso da questa Corte con la sentenza n. 17192/2009. Tali indicazioni sono sufficienti ad escludere la formazione del giudicato interno, sul rilievo per indebito riporto di perdite di esercizi precedenti, eccepito dalla controricorrente. Appare, infatti, evidente, dalla lettura della relativa pronuncia, che questa Corte, nell’accogliere il secondo motivo di ricorso (con il quale si era dedotta la violazione di legge perpetrata dalla C.T.R. nell’avere reso una motivazione meramente apparente) abbia ritenuto la sentenza cassata del tutto priva di motivazione in relazione all’integrale fattispecie sottoposta al suo esame e non solo, come prospettato in controricorso, al solo rilievo relativo alla pretesa indeducibilità delle perdite su crediti ceduti a terzi.

3. Può, quindi, procedersi all’esame del ricorso principale.

3.1 Con il primo motivo del ricorso principale si deduce violazione e falsa applicazione di legge (artt. 66 c. 3 d.p.r. 917/1986; 55 lett. b. e 75 d.p.r. n. 597/73) laddove la Commissione Tributaria Regionale (d’ora in poi C.T.R.) aveva annullato la ripresa (concernente il disconoscimento della deduzione delle perdite su crediti), ritenendo che i crediti ceduti fossero in parte inesigibili, in misura tale da giustificare una cessione pro soluto per il prezzo di un milione di euro a fronte di un valore complessivo superiore ai 9 miliardi di lire, solo perché la Società aveva dedotto che 92 debitori fossero assoggettati a procedure concorsuali mentre gli altri debiti erano frazionati ed oggetto di contestazioni.

4. Con il secondo motivo si deduce omessa o insufficiente motivazione sul medesimo capo di sentenza, laddove la Commissione tributaria regionale non aveva illustrato i contenuti della documentazione allegata dalla Società a dimostrazione delle circostanze indicate circa l’inesigibilità delle 500 posizioni creditorie.

5. I motivi possono trattarsi congiuntamente siccome vertenti sulla stessa questione.

Costituisce orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità, cui il Collegio intende dare continuità, quello per cui «in tema di imposte sui redditi, l’art. 66, terzo comma, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, prevedendo che, al di fuori dell’ipotesi in cui il debitore sia assoggettato a procedure concorsuali, le perdite su crediti sono deducibili dal reddito imponibile soltanto se risultino da elementi certi e precisi, pone a carico del contribuente l’onere di allegare e documentare gli elementi di riferimento che hanno dato luogo alla perdita: pertanto, nell’ipotesi in cui l’Amministrazione abbia negato la deducibilità delle perdite su crediti acquistati a seguito di cessione, la mera allegazione che quest’ultima ha avuto luogo “pro soluto” anziché “pro solvendo”, secondo gli schemi predisposti dalla normativa civilistica, non esonera il contribuente dal documentare, mediante elementi certi e precisi che la perdita risultante dalla cessione era da intendersi come oggettivamente definitiva, né preclude al giudice di merito l’esercizio del suo potere di apprezzare liberamente la sufficienza di quelle risultanze probatorie» (Cass. n. 5357 del 10/03/2006, n. 20450/2011; ed in termini Cass. n. 16823 del 24/07/2014 la quale ha ribadito l’onere, del contribuente di allegare e documentare gli elementi de quibus, che non possono tautologicamente esaurirsi nella pattuizione di un corrispettivo inferiore al valore nominale del credito ceduto, ma devono riguardare le ragioni che hanno consigliato l’operazione ed il conseguente recupero solo parziale, dovendosi escludere, al di fuori dell’ipotesi del debitore assoggettato a procedure concorsuali, l’esistenza di qualsiasi automatismo di deducibilità delle perdite).

5.1. Alla luce di tali condivisi principi, le censure vanno disattese.

Il Giudice di appello ha fatto corretta applicazione di detti principi, non incorrendo, pertanto, nella dedotta violazione di legge, avendo espressamente ritenuto, anche per i crediti relativi a debitori sottoposti a procedura concorsuale, che la contribuente avesse fornito prova certa che i crediti ceduti costituivano una perdita effettiva e determinata con un accertamento in fatto non idoneamente contrastato con il ricorso. Il mezzo di impugnazione, nei termini in cui è formulato, infatti, tende inammissibilmente, sotto l’egida del vizio di violazione di legge, ad una nuova rivalutazione dell’accertamento in fatto compiuto dal giudice di merito.

5.2. Il secondo motivo di ricorso, con cui si deduce omessa o insufficiente motivazione della sentenza per non avere il Giudice di appello specificato il contenuto della documentazione prodotta è inammissibile.

Secondo l’insegnamento costante di questa Corte (v, tra le altre, di recente Cass. 18665 del 27/07/2017) in tema di accertamento dei fatti storici allegati dalle parti, i vizi motivazionali deducibili con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nel testo previgente rispetto alla novella di cui all’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. in 1. n. 134 del 2012, non possono riguardare apprezzamenti di fatto difformi da quelli propugnati da una delle parti, poiché, a norma dell’art. 116 c.p.c., rientra nel potere discrezionale – come tale insindacabile – del giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, apprezzare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione. Si è, altresì, condivisibilmente, statuito (cfr.Cass. n. 9356 del 12/04/2017) che, in materia di ricorso per cassazione, mentre l’errore di valutazione in cui sia incorso il giudice di merito – e che investe l’apprezzamento della fonte di prova come dimostrativa, o meno, del fatto che si intende provare – non è mai sindacabile in sede di legittimità, l’errore di percezione, cadendo sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, qualora investa una circostanza che ha formato oggetto di discussione tra le parti, è sindacabile ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4), c.p.c., per violazione dell’art. 115 del medesimo codice, norma che vieta di fondare la decisione su prove reputate dal giudice esistenti, ma in realtà mai offerte.

Nella specie, il Giudice di appello ha fondato il suo giudizio di definitività e certezza della perdita sulla base di elementi oggettivi, ritenuti idonei allo scopo, quali l’inesigibilità di una parte dei crediti (posizioni debitorie, pari a quasi la metà del credito totale, soggette a procedure fallimentari o concorsuali) e la difficoltà o improbabilità di recupero dell’altra parte, stante il frazionamento dei crediti e la preannunciata intenzione di molti di agire in rivalsa nei confronti e per presunte inadempienze della T.A. s.p.a..

A fronte di tale accertamento in fatto, il motivo di ricorso (con il quale, in sintesi, si contesta alla C.T.R. di non avere illustrato i contenuti della documentazione offerta dalla Società) incorre nella sanzione dell’inammissibilità per più ragioni.

Innanzitutto il mezzo, nei termini in cui è formulato, appare tendere a censurare inammissibilmente, prospettando un vizio di insufficiente o omessa motivazione, la valutazione compiuta dal Giudice di merito delle prove documentali offerte in giudizio, e, peraltro, difetta anche in autosufficienza, laddove non specifica il “fatto” rilevante e decisivo nell’accezione di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., rinveniente da tale documentazione, rispetto al quale la motivazione si appalesava omessa o insufficiente.

6. Con il terzo motivo – rubricato: violazione e falsa applicazione degli artt. 17 d.p.r. n. 598/1973 e 53 Cost. – si deduce l’errore in diritto commesso dalla C.T.R. nell’avere ritenuta illegittima la ripresa a tassazione, per indebita duplicazione, del riporto al 1987, con conseguente deduzione dall’imponibile, delle perdite pregresse della incorporata T.A..

7. Con il quarto motivo, articolato in subordine, si deduce l’omessa o insufficiente motivazione sullo stesso recupero, laddove la C.T.R. aveva apoditticamente affermato che l’Ufficio non aveva addotto prove o documentazioni attestanti la natura indebita del risparmio fiscale conseguito.

8. Ribadita, per le ragioni già svolte sub 2, l’infondatezza dell’eccezione di inammissibilità di tali motivi sollevata dalla controricorrente (che, sul punto, articola il secondo ed il terzo motivo di ricorso incidentale) sul presupposto dell’esistenza sul punto di giudicato interno, le censure, esaminate congiuntamente siccome connesse, non sono meritevoli di accoglimento.

7. Appare opportuno premettere che il recupero in esame trova origine in dati di fatto, pacifici tra le parti e consacrati nelle sentenze di merito, che così possono sintetizzarsi: l’A. s.p.a. (società incorporante per fusione la T.A. e poi divenuta W.G.I. s.p.a.,) aveva provveduto a svalutare (con imputazione al conto economico del 1986) il valore della partecipazione dalla stessa detenuta nella Società incorporanda (T.A. controllata al 100%) in ragione delle perdite effettive di quest’ultima, per poi riportare a nuovo nell’esercizio 1987,a seguito della fusione avvenuta il 18 dicembre 1986, le perdite maturate dall’ incorporata.

7.2. La sentenza impugnata sul punto ha, da una parte, affermato, che la Società avesse agito in perfetta ottemperanza al disposto normativo (art. 17 d.p.r. 598/1973) applicabile ratione temporis, dall’altra, ha rilevato che, nella fattispecie, non ci fossero elementi tali da prefigurare l’esistenza di un intento elusivo. Premessa la regola in diritto secondo cui, a fronte di operazioni societarie e finanziarie mirate a conseguire obiettivi economici ispirati a considerazioni diverse, fosse onere dell’Amministrazione finanziaria non solo prospettare il disegno elusivo a sostegno delle operate rettifiche ma anche le supposte modalità di manipolazione o di alterazione di schemi classici rinvenute come irragionevoli in una normale logica di mercato, il Giudice di appello ha ritenuto tale onere non adempiuto dall’Amministrazione, la quale non aveva addotto prove o documentazioni attestanti la natura indebita del risparmio conseguito.

7.3. Così ricostruiti i termini fattuali della vicenda processuale, può da subito rilevarsi l’inammissibilità del quarto motivo prospettante un’omessa o insufficiente motivazione su punti di fatto decisivi, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c. In particolare, secondo la prospettazione difensiva, la C.T.R., nel confermare l’annullamento del rilievo in questione si sarebbe limitata ad affermare apoditticamente il mancato assolvimento dell’onere probatorio in capo all’Ufficio mentre avrebbe dovuto motivare le ragioni per le quali le circostanze riferite (deduzione nel 1986 della minusvalenza su partecipazioni ed il riporto delle perdite dell’incorporata, nell’esercizio successivo, a seguito della fusione) costituivano un esercizio normale, cioè economicamente giustificato del diritto a riporto garantito da tale disposizioni e, non si traducevano invece, per il concreto contesto in cui erano avvenute nell’indebita duplicazione di un beneficio tributario di cui la società incorporante aveva già integralmente beneficiato.

Appare evidente, dalla sua stessa formulazione, l’inammissibilità del mezzo giacché con lo stesso non si deduce un “fatto” nell’accezione rilevante di cui all’art. 360 n.5 c.p.c. (nella formulazione applicabile ratione temporis) quanto piuttosto si riproduce, sotto l’egida del vizio di motivazione, la questione in diritto sollevata con il motivo precedente. E, in tale ipotesi, le Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 24148 del 25/10/2013) hanno statuito che: «la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione»

7.4. Con riguardo alla dedotta violazione di legge va rilevato che, secondo il condiviso e consolidato orientamento di questa Corte (cfr., tra le altre, Cass. n. 3938 del 19/02/2014), in materia tributaria, esiste un generale principio antielusivo – la cui fonte, in tema di tributi non armonizzati (quali le imposte dirette), va rinvenuta negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano – secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. Tale principio non contrasta con il canone di riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali; e comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione».

Si è, altresì, condivisibilmente, ritenuto che in materia tributaria, l’opzione del soggetto passivo per l’operazione negoziale fiscalmente meno gravosa non è sufficiente ad integrare una condotta elusiva, essendo necessario che il conseguimento di un “indebito” vantaggio fiscale, contrario allo scopo delle norme tributarie, costituisca la causa concreta della fattispecie negoziale (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 405 del 14/01/2015) e, ancora, che la scelta di un’operazione fiscalmente più vantaggiosa non è sufficiente ad integrare una condotta elusiva, laddove sia lo stesso ordinamento tributario a prevedere tale facoltà, a condizione che non si traduca in uso distorto dello strumento negoziale o in un comportamento anomalo rispetto alle ordinarie logiche d’impresa, posto in essere per realizzare non la causa concreta del negozio, ma esclusivamente o essenzialmente il beneficio fiscale (Cass. Sentenza n. 17175 del 26/08/2015). Infine, con specifico riguardo all’onere probatorio, si è sempre ribadito che incombe, sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale. (Cass n. 4603 del 26/02/2014; Cass. n. 1465/2009 specificamente richiamata dal Giudice di appello a fondamento della sua decisione).

7.5. Nel caso in esame (in cui la Società, poi incorporante, aveva già proceduto ad operare, a causa delle perdite subite dalla controllata e incorporanda T., la svalutazione della sua partecipazione nell’esercizio precedente) secondo la prospettazione della parte pubblica, l’abuso sarebbe consistito nell’utilizzo della possibilità prevista dall’art. 17 d.p.r. n. 598/1973 il quale, secondo la ricorrente, sarebbe stato applicato non per realizzare, attraverso la deduzione fiscale delle perdite riportate, la sua finalità economica ma, in modo fine a se stesso cioè solo per riconoscere la deduzione fiscale che esso consente, del tutto prescindendo dalla sussistenza o persistenza dei presupposti economici giustificanti tale beneficio.

7.6. Tale tesi, anche alla luce dei principi sopra esposti, non appare condivisibile.

A norma dell’art. 17 d.p.r. n. 598/1973, applicabile ratione temporis e disciplinante il riporto delle perdite: «in caso di fusione le perdite delle società che partecipano alla fusione, compresa la società incorporante, non possono essere portate in diminuzione del reddito della società risultante dalla fusione o incorporate per la parte del loro ammontare che eccede quello del rispettivo patrimonio netto quale risulta dalla situazione patrimoniale di cui all’articolo 2502 del codice civile, senza tenere conto dei conferimenti e versamenti fatti negli ultimi diciotto mesi».

La norma, avente un evidente carattere antielusivo, contiene, al comma successivo una espressa deroga, laddove, con regime transitorio, prevede che tale limitazione non si applica alle incorporazioni, con atto di fusione anteriore al 1° gennaio 1988, di società che alla data dell’atto medesimo risultino controllate dalla società incorporante da almeno due anni, o alla data della loro costituzione, ai sensi dell’ articolo 2359, numeri 1 e 3, del codice civile, nonché alle fusioni che abbiano luogo entro il termine indicato fra società che risultino controllate, ai sensi delle richiamate disposizioni del codice civile e per il periodo indicato da una medesima società o da un medesimo ente. Deroga che può trovare spiegazione nell’intento del legislatore di salvaguardare entro certi limiti le posizioni pregresse rispetto alla legge n. 487/1986.

Ciò posto, ed essendo pacifico che, nel caso in specie, ricorressero tutti i presupposti per l’applicabilità del secondo comma del citato art. 17, la stessa natura derogatoria della norma varrebbe ad escludere l’abuso prospettato, avendo la Società, come, peraltro, osservato anche dalla stessa ricorrente, agito in esatto adempimento agli obblighi derivantile dalle norme laddove, prima, ha provveduto, nell’esercizio 1986, alla svalutazione della partecipazione detenuta in T. (controllata al 100%), e poi a seguito della fusione, avvenuta nel dicembre 1986 provveduto, nel 1987, al riporto

delle perdite maturate nell’esercizio precedente, a ciò legittimamente abilitata da espressa norma di legge.

Peraltro, va rilevato che, nella specie, non si è di fronte ad una pluralità di negozi giuridici o di condotte ma l’unica operazione posta in essere è la fusione per incorporazione di T. nella società ricorrente la quale, per come è incontestato, la possedeva da molti anni e che, anche ove tale fusione non fosse stata realizzata, la svalutazione della partecipazione ad opera della controllante non avrebbe, comunque, impedito alla controllata di continuare ad utilizzare le perdite pregresse per abbattere i redditi futuri.

In tale contesto, ed atteso che l’accertamento in fatto operato dal Giudice di merito -in ordine all’inesistenza di un intento elusivo, alla esistenza di un’operazione societaria (quale l’operata fusione) mirata a conseguire obiettivi economici ispirati a considerazioni diverse rispetto al mero risparmio di imposta ed all’assenza di prove dell’indebito vantaggio fiscale ad opera dell’Agenzia – è rimasto, come già esposto, incontrastato, la sentenza impugnata è sul punto, anche per le ragioni sopra svolte, conforme a diritto.

8. Per tutte le considerazioni svolte il ricorso va, pertanto, rigettato.

9. Al rigetto del ricorso principale consegue l’assorbimento dell’esame del ricorso incidentale proposto dalla Società, parte integralmente vittoriosa nel precedente grado (cfr. Cass. S.U. Sentenza n. 7381 del 25/03/2013;id. n. 4619 del 06/03/2015).

10. Le spese seguono la soccombenza e, liquidate come in dispositivo, vanno poste a carico dell’Agenzia delle entrate.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale.

Condanna la ricorrente principale alla refusione in favore della controricorrente/ricorrente incidentale delle spese di questo giudizio liquidate in complessivi euro 20.000, oltre rimborso forfetario nella misura del 15% ed accessori di legge.