CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 maggio 2022, n. 14961
Rapporto di lavoro – Emolumenti retributivi aggiuntivi – Accordo collettivo aziendale – Recesso unilaterale del datore – Legittimità
Ritenuto in fatto
1. La Corte d’appello di Ancona, previa riunione di plurimi processi d’appello, confermò alcune sentenze di primo grado che avevano accolto le opposizioni proposte da S. s.p.a. avverso i decreti ingiuntivi ottenuti da B. P. e altri lavoratori nei confronti della società per il pagamento di emolumenti retributivi aggiuntivi, relativi al primo trimestre 2013, previsti da un accordo collettivo aziendale dal quale la società datrice aveva dichiarato di voler recedere a far data dal gennaio dello stesso anno.
2. La Corte territoriale evidenziò che, contrariamente a quanto accade per i contratti collettivi, in cui parti contraenti sono le organizzazioni sindacali dei lavoratori e le associazioni dei datori di lavoro, nei contratti aziendali sono parti le organizzazioni sindacali e il singolo datore di lavoro, con la conseguenza che costui può recedere unilateralmente da detto contratto.
Rilevò che il recesso unilaterale rappresenta causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, come nella fattispecie, in cui il contratto aziendale aveva un termine di durata ma era stato applicato spontaneamente dalle parti contraenti dopo lo spirare del termine, sicché, non sussistendo la rinnovazione tacita, era da considerare a tempo indeterminato.
Osservò che la mancata corresponsione degli emolumenti aggiuntivi previsti dal contratto collettivo aziendale non dava luogo alla violazione del principio costituzionale della giusta retribuzione, poiché la tutela di cui all’art. 36 Cost. comprende solo la retribuzione base/ integrata dalla indennità di contingenza / e non anche gli emolumenti aggiuntivi. Evidenziò che doveva escludersi anche la violazione del principio della irriducibilità della retribuzione, ravvisabile solo per le indennità compensative di una modalità di lavoro gravosa, nella specie richiesta in relazione alla cessata corresponsione di indennità per lavoro notturno e per turno notturno, poiché la pausa la cui soppressione aveva dato luogo all’indennità in questione era stata ripristinata con riferimento al periodo del rapporto in contestazione. Né era ravvisabile un comportamento discriminatorio del datore di lavoro per avere erogato emolumenti aggiuntivi solo ad alcuni lavoratori, poiché tali emolumenti erano applicati in virtù di disposizioni contenute in contratti individuali successivi all’accordo.
3. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione i lavoratori sulla base di tre motivi.
4. La società ha resistito con controricorso, illustrato mediante memorie.
5. P.C., P.T., E.R., B.C., F.C. e A.C. hanno fatto pervenire atto di rinuncia al ricorso, chiedendo l’estinzione del giudizio nei loro confronti.
6. Entrambe le parti hanno prodotto memorie.
7. Il Procuratore Generale, con propria memoria scritta, ha concluso per il rigetto del ricorso.
Ragioni della decisione
1. Si deve preliminarmente dichiarare l’estinzione del giudizio nei confronti di P.C., P.T., E.R., B.C., F.C. e A.C., i quali hanno correttamente presentato istanza di rinuncia al ricorso per cassazione, ritualmente notificata alle controparti.
2. I motivi di ricorso devono essere scrutinati, invece, in relazione ai ricorrenti non rinuncianti.
3. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1373 e dell’art. 2077 c.c. in ordine agli effetti sulle clausole del rapporto individuale del recesso datoriale dal contratto collettivo (nazionale o aziendale).
4. Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1371 c.c. e dei principi generali in tema di corrispettività nelle prestazioni sinallagmatiche, ed esclusione di modifiche unilaterali.
5. Entrambi i motivi, unitariamente considerati, propongono un ripensamento della teoria tradizionale, alla quale ha fatto riferimento la sentenza impugnata, in tema di cessazione e recesso dal contratto collettivo aziendale, in funzione della illustrata complessa ricostruzione teorica e classificatoria della natura del contratto collettivo e del suo rapporto con quello individuale, così da pervenire (primo motivo) alla affermazione di illegittimità o (secondo motivo) della inefficacia del recesso datoriale rispetto a diritti accessori e prestazioni integrative che rivestirebbero il carattere di diritti quesiti non suscettibili di modifica nel tempo.
6. Questa Corte, disattendendo il proposto ripensamento, intende ribadire l’indirizzo già espresso in punto di recesso dal contratto aziendale (Cass. n. 23105 del 17/09/2019), secondo cui “Qualora il contratto collettivo non abbia un predeterminato termine di efficacia, non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, perché finirebbe in tal caso per vanificarsi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve parametrarsi su una realtà socio economica in continua evoluzione, sicché a tale contrattazione vi. estesa la regola, di generale applicazione nei negozi privati, secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, che risponde all’esigenza di evitare – nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto – la perpetuità del vincolo obbligatorio. Ne consegue che, in caso di disdetta del contratto, i diritti dei lavoratori, derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole, sono intangibili solo in quanto siano già entrati nel patrimonio del lavoratore quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita, e non anche quando vengano in rilievo delle mere aspettative sorte alla stregua della precedente più favorevole regolamentazione.” Si tratta di orientamento consolidato e ineccepibile rispetto al quale non vale la critica che si fonda sulla presunta natura normativa del contratto, la quale, ove ad essa si accedesse nonostante l’inestensibilità al contratto degli schemi e principi propri delle fonti legislative, non varrebbe a giustificare il congelamento del trattamento pregresso per il futuro, come si pretenderebbe, perché anche la cessazione degli effetti di una norma nei contratti di durata impedisce che essa possa continuare a trovare applicazione alla parte di rapporto che ricade nel vigore della regolazione successiva, dovendosi altrimenti ammettere una sorta di ultrattività in relazione a fatti ed evenienze connesse a un rapporto in corso e non esaurito.
7. Con il terzo motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 36 Cost e 2013 c.c. in ordine alla irriducibilità della retribuzione, con riguardo a elementi retributivi già introdotti dalla contrattazione aziendale a compenso di specifici aggravamenti della prestazione lavorativa.
8. Anche tale censura è priva di fondamento poiché, come chiaramente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (n. 27138 del 04/12/2013, n. 944 del 20/01/2021)) il criterio della corrispettività, che tenga in conto il parametro di cui all’art. 36 della Costituzione, non può mai avere riguardo a componenti aggiuntive della retribuzione erogate per compensare modalità specifiche della prestazione, ma può fare limitato riferimento ai soli titoli previsti dal CCNL che integrano il concetto di giusta retribuzione, costituita dai minimi retributivi stabiliti per ciascuna qualifica dalla contrattazione collettiva.
9. In base alle svolte argomentazioni il ricorso va rigettato nei confronti dei ricorrenti non rinuncianti, con regolamentazione delle spese secondo soccombenza.
10. Le spese di giudizio sono compensate tra i ricorrenti rinuncianti e la società, stanti le ragioni di definizione della lite.
11. Dai predetti rinuncianti non è dovuto, ex art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai quali sono tenuti i ricorrente non rinuncianti, giacché tale norma non trova applicazione in caso di rinuncia al ricorso per cassazione, in quanto misura che si applica ai soli casi – tipici – del rigetto dell’impugnazione o della sua declaratoria d’inammissibilità o improcedibilità e, trattandosi di misura eccezionale, “lato sensu” sanzionatoria, è di stretta interpretazione e non suscettibile, pertanto, di interpretazione estensiva o analogica.
P.Q.M.
dichiara estinto il giudizio di cassazione per P.C., P.T., E.R., B.C., F.C. e A.C. P.C., P.T., E.R., B.C., F.C. e A.C..
Rigetta il ricorso nei confronti degli altri ricorrenti, che condanna al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 1.200,00 per compensi, € 200 per esborsi, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti non rinuncianti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.