CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 marzo 2021, n. 6915
Contratto di agenzia – Risoluzione – Tutela degli interessi del preponente – Violazione del dovere di lealtà e buona fede – Comportamento in contrasto con i doveri essenziali dell’agente – Ipotesi di giusta causa di recesso ex art. 2119 cod. civ.
Fatti di causa
PROCEDIMENTO ISCRITTO A R.G. N. 17526/2015
1. La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 10562/2014, in parziale accoglimento dell’appello proposto da C. Italia s.p.a e respinto l’appello incidentale di F.V., per quanto ancora rileva nella presente sede, rigettava la domanda del V. diretta ad ottenere la declaratoria di illegittimità della risoluzione del contratto di agenzia e condannava la società al pagamento della somma di euro 21.371,20 a titolo di indennità per il patto di non concorrenza, oltre provvigioni non ancora liquidate e premi, per un totale complessivo di euro 26.575,60, oltre accessori. Rigettava tutte le restanti domande del V., che trovavano il loro presupposto nella insussistenza della giusta causa di recesso. Compensava per 1/3 le spese di lite del doppio grado, ponendo a carico della società il pagamento dei residui 2/3.
2. La Corte di appello premetteva che, sulla scorta delle deposizioni testimoniali, era stato confermato che il V. avesse contattato alcuni agenti con la finalità di inserirli in un’attività di impresa in concorrenza con la C. s.p.a.
Tale attività – osservava la Corte – integrava la violazione dell’art. 1746 cod. civ. che prescrive che, nell’esecuzione dell’incarico, l’agente deve tutelare gli interessi del preponente e agire con lealtà e buona fede, per cui la violazione di tale dovere, indipendentemente dall’esito positivo o meno dell’iniziativa, costituisce un comportamento in contrasto con i doveri essenziali dell’agente e integra un’ipotesi di giusta causa di recesso ex art. 2119 cod. civ.
3. La Corte di appello riteneva invece che la pretesa della società di negare l’indennità relativa al patto di non concorrenza fosse infondata, in quanto l’art. 14 del contratto di agenzia prevedeva che il patto di non concorrenza avesse ad oggetto soltanto la promozione e la conclusione nella regione Lazio della vendita di prodotti o servizi in concorrenza con quelli trattati dalla preponente. Osservava che, all’art. 15 del contratto, era previsto che per il patto di non concorrenza sarebbe stato versato all’agente un importo mensile pari a 1/4 delle provvigioni corrisposte.
Alla stregua di tale interpretazione del contratto, rigettava la domanda riconvenzionale della società intesa alla restituzione delle somme versate per il patto di non concorrenza.
4. Per la cassazione di tale sentenza F.V. ha proposto ricorso affidato ad un motivo.
5. Ha resistito con controricorso la soc. C., che ha proposto a sua volta ricorso incidentale affidato a due motivi, segnalando altresì la pendenza di un altro giudizio, promosso dalla stessa società, per la revocazione della medesima sentenza nella parte recante la condanna al pagamento della somma relativa all’indennità per il patto di non concorrenza.
PROCEDIMENTO ISCRITTO A R.G. N. 15587/2017
1. Con sentenza n. 5467/16 la Corte di appello di Roma, accogliendo il ricorso proposto dalla soc. C., revocava la sentenza della stessa Corte n. 10562/2014 limitatamente al capo recante la condanna della ricorrente al pagamento, in favore di F.V., della somma di euro 21.371,20 a titolo di indennità prevista per il patto di non concorrenza, oltre interessi e rivalutazione su tale somma, confermando nel resto la sentenza citata. Per l’effetto, condannava F.V. alla restituzione della somma di euro 22.427,21 versata a tale titolo in esecuzione della sentenza di primo grado, oltre interessi dal giorno del pagamento al saldo, oltre alle spese di lite.
2. La Corte di appello evidenziava che la sentenza oggetto della revocazione recava, nella motivazione, sia la statuizione di conferma del rigetto della domanda riconvenzionale della società per la restituzione delle somme versate a titolo di indennità patto di non concorrenza, sia il riconoscimento della fondatezza della pretesa del V. diretta ad ottenere la medesima somma per il medesimo titolo e che, del pari, la sentenza aveva statuito, in dispositivo, sia il rigetto della domanda restitutoria, sia la condanna della soc. C. al pagamento dell’indennità citata. Osservava che il secondo capo della pronuncia era errato, poiché emesso sul presupposto implicito che l’indennità non fosse stata pagata, mentre tale pagamento, ritualmente dedotto in primo grado, non era stato un punto controverso della lite (nulla aveva dedotto il V. sullo specifico punto nel corso del giudizio); che tale pagamento era poi stato comprovato (doc. n. 19 del fascicolo di primo grado di C.), poiché per ogni fattura emessa dal V. vi era l’esplicita indicazione degli importi dovuti per il “patto di non concorrenza”, debitamente quietanzati; che nulla era stato opposto dal V., che aveva anzi riconosciuto, sia pure implicitamente, il ricevimento della somma anche nella memoria difensiva in grado di appello. Concludeva che la sentenza era affetta da errore di fatto risultante dagli atti e documenti di causa ex art. 395 n. 4 cod. proc. civ. per avere ritenuto inesistente un fatto, costituito dal pagamento dell’indennità, invece incontrovertibilmente comprovato in atti.
3. Per la cassazione di tale sentenza F.V. ha proposto ricorso affidato a due motivi, cui ha resistito con controricorso la soc. C.
4. Il ricorrente V. ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ. per entrambi i ricorsi.
Ragioni della decisione
PROCEDIMENTO R.G. N. 17526/2015
5. Con unico motivo il ricorrente principale lamenta nullità della sentenza e violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 cod. civ. e 1746 cod. civ. in ordine alla ritenuta violazione, da parte dell’agente, dei doveri di agire con lealtà e buona fede e dell’art. 2697 cod. civ. in merito all’interpretazione e valutazione delle testimonianze rese in giudizio (art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.), nonché carenza di motivazione sulla risoluzione del rapporto per inadempimento dell’agente (art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.).
Deduce che la Corte di appello aveva travisato il contenuto della lettera di recesso (comunicazione del 22.7.2008), la quale non faceva il minimo riferimento alla violazione dei doveri di lealtà e buona fede, riferendosi unicamente ad attività propedeutiche alla violazione del patto di non concorrenza; che inoltre i testi avevano riferito di una mera intenzione del ricorrente di svolgere attività concorrenziale a quella dell’appellante, non seguita nei fatti da alcuna concreta iniziativa. Evidenzia che non vi e alcuna prova né della costituzione di una società in concorrenza con la preponente, né dello svolgimento di attività di commercializzazione di prodotti nello stesso settore merceologico.
6. Con il primo motivo del ricorso incidentale la società C. deduce omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.), in relazione alla condanna al pagamento della somma di euro 21.371,20 a titolo di indennità per il patto non concorrenza.
Rappresenta che, con la memoria di costituzione di primo grado con domanda riconvenzionale, aveva avanzato domanda di restituzione di tutte le somme già versate a tale titolo, il cui pagamento era documentato in atti per la somma complessiva di euro 22.395,80; che la domanda restitutoria era stata riproposta in appello; che la sentenza impugnata aveva non solo rigettato la domanda restitutoria, ma altresì pronunciato condanna al pagamento della somma rivendicata dal V. per il medesimo titolo.
7. Con il secondo motivo di ricorso incidentale la società denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 1751-bis cod. civ. (art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.). Sostiene che la sentenza impugnata, nel ritenere che non fosse stato violato il patto di non concorrenza previsto dall’art. 14 del contratto di agenzia, non aveva debitamente considerato che configura un’ipotesi di c.d. concorrenza potenziale anche il comportamento dell’agente che non svolga attualmente attività di impresa in concorrenza, ma si appresti a svolgerla in futuro. Deduce che la nozione di concorrenza è da ritenere comprensiva anche di una attività meramente organizzatoria preordinata alla produzione o progettazione di un determinato prodotto. Assume che la clausola negoziale di cui all’art. 14 comprendeva anche il divieto non solo di concludere, ma anche di promuovere nella regione Lazio direttamente o indirettamente la vendita di prodotti, servizi tecnici o similari o comunque in concorrenza con quelli trattati dalla C.
PROCEDIMENTO R.G. n. 15587/2017
8. Con il primo motivo di ricorso, F.V. denuncia nullità della sentenza per erronea o falsa applicazione degli artt. 1749, comma 3, cod. civ. in merito al versamento di somme a titolo di patto di non concorrenza. Censura la sentenza per non avere debitamente considerato che la preponente consegnava soltanto lo schema di fattura che l’agente firmava e riconsegnava, mentre l’unica documentazione ufficiale era costituita dai certificati di ritenuta d’acconto, dove erano evidenziate le “somme per provvigioni agenti”, ma non le somme versate a titolo di indennità per patto di non concorrenza. Sostiene che la sentenza aveva così invertito l’onere della prova, considerando provato un pagamento non avvenuto.
9. Il secondo motivo denuncia nullità della sentenza per omesso esame di fatto decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.), perché la Corte di appello, accogliendo la revocazione, non aveva dato rilevanza all’istanza di esibizione dei libri contabili della preponente, onde verificare il titolo della imputazione delle somme versate all’agente.
10. Preliminarmente i due giudizi vanno riuniti. Come è stato più volte affermato da questa Corte (Cass. 7568 del 2014, n. 14442 del 2008, n. 6328 del 2003, n. 10835 del 2001), i ricorsi per cassazione separatamente proposti contro la sentenza di merito resa in grado di appello e contro quella pronunciata nel successivo giudizio di revocazione possono essere riuniti, in quanto le due sentenze, integrandosi reciprocamente, definiscono inscindibilmente un unico giudizio e, quindi, in sede di legittimità, possono essere oggetto di esame contestuale e di un’unica decisione. Qualora si provveda a tale riunione, le questioni attinenti alla revocazione assumono carattere pregiudiziale, sicché il ricorso avverso la sentenza del relativo giudizio va esaminato per primo.
ESAME DEI MOTIVI DI RICORSO N. 15587/2017 AVVERSO LA SENTENZA N. 5467/2017 DELLA CORTE DI APPELLO DI ROMA
11. Il ricorso è infondato.
12. La Corte di appello ha innanzitutto evidenziato che la sentenza oggetto di revocazione recava due proposizioni vertenti sulla medesima indennità, una che presupponeva l’avvenuto pagamento e l’altra basata sul presupposto implicito che l’indennità non fosse stata pagata. Ha quindi affermato la sussistenza di un errore di fatto ai sensi dell’art. 395, n. 4, cod. proc. civ. relativamente alla seconda proposizione per avere la sentenza ritenuto inesistente un fatto, costituito dal pagamento dell’indennità relativa al patto di non concorrenza, ritualmente dedotto in primo grado e che non era stato un punto controverso di lite, evidenziando che lo stesso V. aveva riconosciuto, sia pure implicitamente, il ricevimento della somma anche nella memoria difensiva in grado di appello. Ha poi aggiunto che tale pagamento risultava comunque comprovato, in quanto dalle fatture emergeva l’esplicita indicazione degli importi dovuti per il “patto di non concorrenza”, debitamente quietanzati.
13. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 1749, terzo comma, cod. civ. per avere la Corte di appello ritenuto che fosse stata fornita la prova del pagamento dell’indennità del patto di non concorrenza esaminando le fatture quietanzate e non invece i certificati di ritenuta d’acconto, da cui sarebbe stato possibile evincere che erano state corrisposte unicamente somme a titolo provvigionale. Con il secondo motivo si duole dell’omesso esame dell’istanza di esibizione dei libri contabili della preponente, onde verificare il titolo dell’imputazione delle somme versate all’agente.
14. Il ricorso innanzitutto non investe l’affermazione secondo cui l’avvenuto pagamento dell’indennità costituiva un fatto pacifico e non controverso in giudizio in giudizio, affermazione di per sé idonea a sorreggere la decisione.
15. Quanto al secondo passaggio argomentativo, secondo cui dall’esame degli atti risultava provata la corresponsione dell’indennità attraverso un pagamento frazionato anziché in un’unica soluzione, deve rilevarsi che, sotto l’apparente veste dell’error in iudicando, il ricorrente tende a contestare la ricostruzione della vicenda accreditata dalla sentenza impugnata.
In proposito, va ribadito in questa sede che il vizio di falsa applicazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. n.7394 del 2010, n. 8315 del 2013, n. 26110 del 2015, n. 195 del 2016). E’ dunque inammissibile una doglianza che fondi il presunto errore di sussunzione – e dunque un errore interpretativo di diritto – su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa.
16. Il primo motivo denuncia violazione di legge, ma in realtà tende ad un riesame delle prove documentali, onde contrastare la ricostruzione e soluzione giuridica accolta dal giudice di merito.
17. Quanto al secondo motivo, risulta omessa la trascrizione dell’istanza, al fine di consentire il controllo della decisività dei fatti da provare, che, per il principio di cui all’art. 366 cod. proc. civ., il giudice di legittimità deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto (ex plurimis, Cass. n. 19985 del 2017).
18. Inoltre, la questione di cui al secondo motivo verte pur sempre sulla seconda ratio decidendi contenuta nella sentenza impugnata, laddove con la prima la Corte di appello ha riferito che la sentenza andava revocata per essere il fatto del pagamento pacifico e non contestato.
ESAME DEL RICORSO PRINCIPALE E DEL RICORSO INCIDENTALE ISCRITTI AL R.G. N. 17526/2015 AVVERSO LA SENTENZA N. 10562/2014 DELLA CORTE DI APPELLO DI ROMA
19. Il ricorso principale proposto da F.V. è infondato.
20. Va premesso che l’istituto del recesso per giusta causa, previsto dall’art. 2119, comma 1, cod. civ. in relazione al contratto di lavoro subordinato, è applicabile anche al contratto di agenzia, dovendosi tuttavia tener conto, per la valutazione della gravità della condotta, che in quest’ultimo ambito il rapporto di fiducia – in corrispondenza della maggiore autonomia di gestione dell’attività per luoghi, tempi, modalità e mezzi, in funzione del conseguimento delle finalità aziendali – assume maggiore intensità rispetto al rapporto di lavoro subordinato. Ne consegue che, ai fini della legittimità del recesso, è sufficiente un fatto di minore consistenza, secondo una valutazione rimessa al giudice di merito insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente e correttamente motivata (Cass. n. 29290 del 2019). Già in precedenza questa Corte aveva affermato che al rapporto di agenzia è applicabile, in analogia con le disposizioni previste per il rapporto di lavoro subordinato, l’istituto del recesso per giusta causa; tuttavia, al fine di valutare l’inadempimento del lavoratore, occorre anche aver riguardo agli elementi tipici dei due rapporti con le conseguenze che l’analogia tra le due fattispecie normative può operare solo in quanto non venga a configgere con tale elementi (cfr. tra le altre, Cass. n. 12873 del 2004).
21. Nel caso in esame, la Corte di appello ha interpretato la comunicazione di recesso, evidenziando che in essa era presente una specifica contestazione che, affiancandosi a quella più specificamente relativa alla violazione del patto di non concorrenza di cui all’art. 14 del contratto di agenzia, alludeva anche alla violazione dei canoni di correttezza e buona fede cui deve essere improntata l’attività di collaborazione dell’agente, quale espressione del dovere di fedeltà di cui all’art. 1746 cod. civ.
22. Il motivo di ricorso svolto dal V., pur vertendo sull’erronea interpretazione del contenuto della comunicazione di recesso, non denuncia alcuna specifica violazione dei canoni di ermeneutica negoziale. E’ principio consolidato che l’interpretazione dei contratti, e degli atti negoziali in genere, è riservata all’esclusiva competenza del giudice di merito, essendo il sindacato di legittimità limitato alla sola verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui agli artt. 1362 e segg. cod. civ., nonché alla coerenza e logicità della motivazione. Inoltre, qualora venga dedotta la violazione dei citati canoni interpretativi, deve essere precisato in qual modo il ragionamento del giudice se ne sia discostato, senza che sia sufficiente all’uopo il generico richiamo ai criteri astrattamente intesi e neppure una critica della ricostruzione della volontà dei contraenti non riferibile a tale violazione, ma consistente nella prospettazione di un risultato interpretativo diverso da quello accolto nella sentenza impugnata, (cfr. Cass. n. 1754 del 2006). La denuncia del vizio di motivazione dev’essere invece effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza (cfr. Cass. n. 4178 del 2007). Quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (cfr. ex plurimis, Cass. n. 4178 e n. 13777 del 2007; v. pure tra le più recenti, Cass. n. 19044 del 2010).
23. Il ricorso è del tutto generico in riferimento a ciascuno dei parametri sopra indicati, suscettibili di venire in rilievo nella presente sede di legittimità.
24. Del pari inammissibile è ogni censura che investe la valutazione compiuta dai giudici di merito in ordine al contenuto e all’apprezzamento delle risultanze istruttorie, sulla cui base è stato ritenuto comprovato il tentativo, non andato a buon fine, da parte del V., di stornare altri collaboratori della preponente nel tentativo di intraprendere insieme ad essi una nuova attività imprenditoriale nello stesso settore merceologico della preponente.
25. La previsione nel contratto di agenzia di uno specifico patto di non concorrenza non esclude che possa configurarsi la concorrente violazione – come ha ritenuto la Corte di appello – dell’obbligo di diligenza da parte dell’agente, ravvisabile in qualunque attività che possa nuocere al preponente. In particolare, nel caso di specie è stata addebitata l’iniziativa assunta dal V. di volere stornare i collaboratori della preponente per indirizzarli verso l’iniziativa imprenditoriale che intendeva avviare, da cui l’implicito accertamento dell’animus nocendi, appunto sotteso al tentativo di “storno” di agenti, suscettibile di recare danno (cfr. Cass. n. 31203 del 2017, n.13424 del 2008, n. 6079 del 1996).
26. Il motivo di ricorso si è limitato a rilevare che vi era stato solo un tentativo, privo di effetti e dunque privo di danno, senza prendere in considerazione il venir meno dell’elemento fiduciario per la violazione dell’obbligo di fedeltà.
27.Venendo al primo motivo di ricorso incidentale della società C., deve rilevarsene l’inammissibilità per difetto di interesse (art. 100 cod. proc. civ.), una volta rigettato il ricorso proposto dal V. in ordine alla sentenza emessa nel giudizio di revocazione.
28. Il secondo motivo è del pari inammissibile, in quanto involge il contenuto della clausola negoziale n. 14 del contratto di agenzia. La clausola è stata interpretata dalla Corte di appello come diretta a vietare attività di concorrenza relativa alla commercializzazione dei prodotti. Il motivo tende ad ottenere una diversa interpretazione del contenuto della clausola contrattuale senza denunciare vizi di ermeneutica contrattuale o vizi di motivazione nel senso sopra esposto, per cui valgono considerazioni analoghe a quelle già svolte con riguardo all’interpretazione del contenuto della lettera di recesso datoriale.
29. Inoltre, secondo giurisprudenza costante di questa Corte, il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci l’omessa od inesatta valutazione di atti o documenti prodotti in giudizio, anche ove intenda far valere un vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, è onerato, a pena di inammissibilità del ricorso, non solo della specifica indicazione del documento e della chiara indicazione del nesso eziologico tra l’errore denunciato e la pronuncia emessa in concreto, ma anche della completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti e dei documenti così da rendere immediatamente apprezzabile dalla Suprema Corte il vizio dedotto (tra le più recenti, Cass. n. 14107 del 2017).
30. In conclusione, riuniti i ricorsi nn. 17526/2015 e n. 15587/2017, va rigettato il secondo ricorso e, per quanto riguarda il primo, va rigettato il ricorso principale proposto da F.V. e dichiarato inammissibile il ricorso incidentale proposto dalla soc. C.
31. Stante la reciproca soccombenza nel ricorso R.G. n. 17526/2015, le spese relative a tale giudizio vanno compensate tra le parti, mentre quanto al ricorso R.G. n. 15587/2017, le spese sono regolate secondo soccombenza e liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
32. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale nel ricorso n. 17526/2015 e da parte del ricorrente nel ricorso n. 15587/2017, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per ciascun ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13 (v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019 e n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi nn. 17526/2015 e 15587/2017, rigetta il secondo e, quanto al primo, rigetta il ricorso proposto da F.V. e dichiara inammissibile il ricorso incidentale della C. s.p.a.
Compensa tra le parti le spese relative al ricorso n. 17526/2015 e, quanto al ricorso 155587/2017, condanna F.V. al pagamento delle spese, liquidate in euro 3.500,00 per compensi e in euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n.115 del 2002, dà atto di sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ciascun ricorrente sia principale sia incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
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