CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 ottobre 2018, n. 25256
Reati tributari – Frode carosello – Provvedimento di sequestro conservativo di beni mobili registrati – Legittimità – Periculum in mora
Fatti di causa
L’Agenzia delle Entrate richiese l’applicazione del sequestro conservativo dei beni mobili registrati, delle quote di partecipazione di cui sono titolari V.T. e M.T. nelle società A.S.M., P. e I. e dei relativi conti correnti, nonché l’iscrizione d’ipoteca sui beni immobili di cui sono proprietarie le società indicate, le prime due delle quali sono riconducibili a V.T. e alla moglie e la terza a M.T..
A sostegno della richiesta, l’Ufficio addusse il processo verbale di constatazione redatto in data 11 luglio 2013 dalla Guardia di finanza in esito a una verifica, scaturita da un procedimento penale a carico di M.T. per i reati di associazione per delinquere, frode fiscale e contrabbando, che aveva lasciato emergere, nella prospettazione dell’Agenzia, una frode carosello.
Secondo quel che si legge in sentenza, il meccanismo frodatorio coinvolgeva la s.r.l. M., amministrata di fatto da M.T., la quale, benché priva di capacità economica e operativa, utilizzando le strutture delle società C.G. e C.F., amministrate da V.T., padre di M., acquistava da fornitori extracomunitari per rivendere, omettendo il pagamento delle imposte, alle società C.G., C.F. e P.F.P., tutte strettamente collegate.
La Commissione tributaria provinciale di Biella ritenne che questi elementi integrassero il fumus boni iuris, e ravvisò il periculum in mora nella particolare architettura delle società C.F. e P.F.P., formalmente rappresentate da V.T., ma partecipate, come unico socio, dalla s.a. Q.E.T..
La Commissione tributaria regionale del Piemonte ha respinto l’appello proposto dai contribuenti, facendo leva sulla fittizietà della M., sul ruolo svolto da M. T. e sull’interesse perseguito dai T. nell’attività svolta dalla M., che intratteneva rapporti soltanto con la C.G., con la C.F. e con la P.F.P., tutte amministrate da V.T.. Quanto al periculum, ha fatto leva sull’entità cospicua del credito erariale, sulla messa in liquidazione della C.F. e sui tempi tecnici per lo svolgimento della normale procedura contenziosa.
Contro questa sentenza propongono ricorso i contribuenti per ottenerne la cassazione, che affidano a due motivi, cui l’Agenzia delle entrate reagisce con controricorso.
Ragioni della decisione
1.- Va premesso che, come reiteratamente affermato da questa Corte (con sentenze 24 febbraio 2017, n. 4807, 19 marzo 2008, n. 7342 e 26 novembre 2007, n. 24527), poiché l’art. 22 del d.lgs. n. 472/1997 qualifica espressamente come «sentenza» (3° comma, ultimo nucleo normativo) il provvedimento con cui la commissione tributaria provinciale decide sull’istanza cautelare dell’amministrazione, si deve ritenere che esso sia stato sottoposto dal legislatore ai mezzi di impugnazione previsti per le sentenze e dunque all’appello e al successivo ricorso per cassazione, ancorché si tratti di provvedimenti che non assumono la stabilità propria di un vero e proprio giudicato in quanto «perdono efficacia a seguito della sentenza, anche non passata in giudicato, che accoglie il ricorso o la domanda» (c.d. «giudicato cautelare»).
In particolare, l’assoggettamento della sentenza d’appello al ricorso per cassazione comporta l’applicazione del corredo disciplinare di questo mezzo di gravame, come modificato nel corso del tempo.
1.1.- Ne risulta l’inammissibilità del primo motivo di ricorso, col quale si lamenta la nullità della sentenza perché munita di motivazione apparente.
Ciò per effetto della riformulazione dell’art. 360, 1 comma, n. 5 c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, come convertito e applicabile ratione temporis alla fattispecie, in virtù della quale è denunciabile in cassazione solo il vizio motivazionale della sentenza d’appello che si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione (tra varie, Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053).
1.2.- Laddove nel caso in esame la motivazione è stata adeguatamente argomentata, come dinanzi ricostruito nell’esposizione dei fatti di causa, sia in relazione al fumus boni iuris, sia in relazione al periculum in mora.
2.- Inammissibile è altresì il secondo motivo di ricorso, col quale i contribuenti denunciano la violazione dell’art. 19 del d.P.R. n. 633/72, in relazione all’art. 17 della sesta direttiva e all’art. 168 della direttiva n. 2006/112, perché, sostengono, l’Ufficio non avrebbe dato prova degli elementi oggettivi della mala fede e del vantaggio finanziario del soggetto beneficiato.
La censura si risolve difatti nel tentativo di ottenere la rilettura delle risultanze processuali, inibita a questa Corte: il giudice d’appello ha considerato gli elementi di prova forniti e li ha valutati, pervenendo a ravvisarvi sia la sussistenza del fumus boni iuris, sia del periculum in mora.
3.- Il che conduce al rigetto del ricorso.
Le spese seguono la soccombenza.
Sussistono i presupposti di applicazione dell’art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. n. 115/02.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i contribuenti a pagare le spese, che liquida in euro 20.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Dichiara la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. n. 115/02.
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