CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 ottobre 2019, n. 25688
Rapporto di lavoro – Contratti di collaborazione autonoma e continuativa – Disposizioni “decisamente invasive” in ordine alle modalità della prestazione – Accertamento della natura subordinata del rapporto
Fatti di causa
1. E. O., assunto dalla A. S.p.A., nel periodo 13 luglio 2002 / 30 giugno 2007, con distinti contratti di collaborazione autonoma e continuativa quindi con contratti a progetto, come operatore di cali center, conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Roma la società chiedendo l’accertamento della natura subordinata del rapporto e la declaratoria di prosecuzione dello stesso con nullità e/o inefficacia della risoluzione del rapporto di lavoro e condanna della società alla reintegrazione nel posto di lavoro in precedenza occupato nonché al risarcimento del danno, pari alle retribuzioni maturate dal licenziamento alla effettiva riammissione in servizio oltre che al pagamento di differenze retributive per le effettive mansioni svolte.
2. Il Tribunale, in parziale accoglimento del ricorso, accertava la natura subordinata del rapporto solo a far data dal 1° gennaio 2005 con inquadramento nel 3° livello del c.c.n.I. per le imprese esercenti servizi di telecomunicazione, condannava la società alla riammissione in servizio del ricorrente nonché al pagamento delle differenze retributive per il periodo 1° gennaio 2005 / 30 giugno 2007 ed al risarcimento del danno commisurato a tutte le retribuzioni maturate dal 24 luglio 2007 alla data della sentenza oltre accessori come per legge.
3. La decisione era in parte riformata dalla Corte d’appello di Roma che dichiarava la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con inquadramento nel 3° livello del c.c.n.I. di settore, con decorrenza dal 13 luglio 2002 con condanna della società al pagamento delle ulteriori differenze retributive con la decorrenza accertata nonché al risarcimento del danno nella misura pari a tre mensilità.
Riteneva la Corte territoriale che dal complessivo materiale di causa (istruttoria direttamente espletata e contenuto di verbali di prove orali svolte in giudizi similari ed acquisiti agli atti) fosse emerso sin dal primo contratto tra le parti il pieno inserimento del ricorrente nell’organizzazione aziendale, l’utilizzo da parte dello stesso degli strumenti e dei mezzi della società, la sua sottoposizione al potere organizzativo della società oltre che uno stringente assoggettamento ai poteri di controllo e direttivo realizzato non solo attraverso direttive generiche bensì mediante puntuali ordini di servizio ed interventi dell’assistente di sala che provvedeva a sollecitare il lavoro in caso di code, autorizzava o richiedeva lo straordinario oltre la fascia concordata, controllava il rispetto delle fasce orarie.
Rilevava che l’operatore dovesse sottostare a disposizioni “decisamente invasive” in ordine alle modalità della prestazione e addirittura ai tempi di attesa (non era consentito “mangiare in postazione … leggere giornali, riviste, libri … tenere acceso il cellulare, abbandonare oggetti personali sulla postazione per periodi superiori a 20 minuti”), difficilmente conciliabili con un rapporto di lavoro autonomo.
Riteneva che, una volta accertato, l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia, irrilevante fosse l’astratta previsione di una libertà di presenza e di orario e che si trattava di una libertà “limitata” visto che sussisteva da un lato l’obbligo di giustificare le assenze superiori a 10 giorni e dall’altro la prestazione non poteva comunque eccedere le 6 ore massime nell’ambito di un turno prestabilito.
Sosteneva che le mansioni svolte fossero riconducibili al 3° livello del c.c.n.I. Imprese Esercenti Servizi di Telecomunicazione, profilo di “addetto al cali center” e che fossero conseguentemente spettanti, per l’intero periodo, le differenze retributive.
Confermava la statuizione di prime cure sull’avvenuta prosecuzione del rapporto.
Ai fini dell’applicazione dell’art. 50 della I. n. 183/2010 riteneva che la proposta contrattuale operata da Almaviva Contact S.p.A. (incorporante l’A. S.p.A.) in favore dell’appellante in data 26 novembre 2010 di assunzione a decorrere dal 10/1/2011, con inquadramento nel 3° livello c.c.n.I., e rapporto a tempo parziale di 20 ore settimanali distribuite su 4 ore giornaliere, per cinque giorni a settimana (dal lunedì alla domenica), con un giorno di libertà ed uno di riposo a settimana a rotazione fosse tale da integrare un’offerta congrua in quanto consequenziale ed omogenea alla precedente offerta formulata al lavoratore ai sensi della legge di stabilizzazione ed in conformità dell’accordo aziendale di stabilizzazione del 13/12/06 ex art. 1, commi 1202 e segg. I. n. 296/96, prevedente i medesimi orari e lo stesso inquadramento.
Considerava, poi, che detta norma, in una interpretazione costituzionalmente orientata ed altresì conforme all’ordinamento sovranazionale, non avesse introdotto una speciale misura sanzionatoria in deroga all’ordinario regime applicabile in caso di accertamento della reale natura subordinata di un rapporto di lavoro e quindi non precludesse l’applicazione delle comuni regole in tema di conversione del rapporto di lavoro.
Riteneva che la prevista indennità economica di ammontare oscillante tra le 2,5 e le 6 mensilità si sostituisse a tutte le normali conseguenze che derivano dall’accertamento della natura subordinata del rapporto sotto il profilo esclusivamente patrimoniale, vale a dire sia ai danni derivanti dall’inadempimento e dall’ingiustificata estromissione da parte del datore di lavoro sia i crediti retributivi vantati in relazione alla prestazione svolta, limitatamente, tuttavia, al solo periodo ‘intermediò, cioè quello che corre dalla cessazione della funzionalità del rapporto sino alla sentenza che ne opera la conversione.
4. Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale Almaviva Contact S.p.A. ha proposto ricorso per cassazione fondato su due motivi.
5. E. O. ha resistito con controricorso e formulato altresì ricorso incidentale affidato a due motivi cui la società ha resistito con controricorso.
6. La causa, originariamente chiamata all’adunanza camerale del 9 gennaio 2019, è stata rinviata a nuovo ruolo per la trattazione in udienza pubblica.
7. La società ha depositato memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente principale denuncia la violazione dell’art. 429, ult. comma, cod. proc. civ. in relazione all’avvenuto riconoscimento sull’indennità risarcitoria di interessi e rivalutazione con decorrenza dalla cessazione della funzionalità del rapporto.
Sostiene che i suddetti accessori, analogamente a quanto affermato da questa Corte con riferimento all’indennità ex art. 32 della I. n. 183/2010 spettino solo dal momento della pronuncia di conversione del rapporto.
2. Con il secondo motivo la ricorrente principale denuncia la violazione dell’art. 50 della I. n. 183/2010 in relazione alla ritenuta conversione del rapporto.
Assume che la Corte territoriale avrebbe del tutto disatteso il dettato della norma prevedente unicamente l’indennizzo in favore del prestatore e non anche la conversione del rapporto.
Valorizza in particolare l’offerta della stipulazione di un rapporto di lavoro subordinato da parte del datore di lavoro che sarebbe tale da giustificare la deroga all’ordinario regime applicabile in caso di accertamento della reale natura subordinata di un rapporto di lavoro.
3. Con il primo motivo di ricorso incidentale il lavoratore denuncia la violazione dell’art. 50 della I. n. 183/2010 in relazione all’art. 437 cod. proc. civ. e omessa pronuncia ai sensi dell’art. 360, nn. 3 e 4, cod. proc.
Lamenta che la Corte territoriale abbia fatto applicazione della disciplina di cui all’art. 50 della I. n. 183/2010 pur in mancanza di “eccezione ed allegazione introdotta rite et recte” e nonostante l’O. avesse puntualmente eccepito l’inapplicabilità di tale norma.
4. Con il secondo motivo di ricorso incidentale il lavoratore denuncia l’anticostituzionalità dell’art. 50 della I. n. 183/2010 in relazione agli artt. 3, primo comma e 24 Cost., 10 Cost., 11, secondo periodo e 117, primo comma, Cost., 24 Cost., 101, 102, secondo comma e 104, primo comma, Cost. 117, primo comma, Cost. in connessione con l’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritto dell’uomo e delle libertà fondamentali nonché per violazione degli artt. 36 e 38 Cost. e per conseguente violazione degli artt. 1206 e ss. cod. civ. e art. 1453 cod. civ., 1219 e 2097 e ss. cod. civ. in relazione all’art. 360, n. 3, cod. prò. civ..
Lamenta il mancato ristoro economico strutturalmente ed ontologicamente connesso all’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato e sostiene che la norma, come interpretata dalla Corte territoriale lungi dal risultare “costituzionalmente orientata” si esporrebbe, al contrario, a plurimi dubbi di costituzionalità oltre a porsi in contrasto con l’art. 6 CEDU, incongruo essendo ogni raffronto con la disciplina di cui all’art. 32 della medesima legge n. 183/2010.
5. L’esame tanto del ricorso principale quanto del ricorso incidentale impone alcune preliminari considerazioni sull’interpretazione dell’art. 50 della I. n. 183 del 2010.
5.1. La norma che viene qui in discussione ha formato oggetto di studio da parte della dottrina essendosi rilevati plurimi profili suscettibili di differenti interpretazioni ed essendosi, in particolare, il dibattito incentrato sulla questione se tale norma stabilisca «unicamente» la sanzione indennitaria a fronte del rifiuto, da parte del lavoratore, di due offerte di stabilizzazione del rapporto di lavoro ovvero faccia comunque salva la conversione o ricostituzione del rapporto (melius assunzione a tempo indeterminato).
Il suddetto articolo 50 stabilisce che: «Fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di accertamento della natura subordinata di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche se riconducibili ad un progetto o programma di lavoro, il datore di lavoro che abbia offerto entro il 30 settembre 2008 la stipulazione di un contratto di lavoro subordinato ai sensi dell’articolo 1, commi 1202 e seguenti, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, nonché abbia, dopo la data di entrata in vigore della presente legge, ulteriormente offerto la conversione a tempo indeterminato del contratto in corso ovvero offerto l’assunzione a tempo indeterminato per mansioni equivalenti a quelle svolte durante il rapporto di lavoro precedentemente in essere, è tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità di retribuzione, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604».
La disposizione introduce un regime speciale finalizzato a limitare, a determinate condizioni, le conseguenze sanzionatorie in caso di esito vittorioso del giudizio intentato dal lavoratore, volto all’accertamento della natura subordinata del rapporto di collaborazione continuativa e coordinata, anche a progetto.
5.2. L’esame della previsione non può prescindere da una sintetica ricostruzione del più ampio quadro normativo in cui essa interviene (art. 1, commi 1202-1210, della legge n. 296 del 2006).
5.3. L’incipit della norma «fatte salve le sentenze passate in giudicato» rende, innanzitutto, chiaro che l’ambito di applicazione della stessa sia da riferirsi tanto alle controversie ancora da promuovere, quanto a quelle in corso. Ed anzi, proprio l’espresso richiamo alla legge 296 del 2006 è indicativo della voluntas legis di dettare una normativa finalizzata a proseguire il percorso, intrapreso dalla predetta legge n. 296, inteso a facilitare l’emersione di rapporti (simulati) di collaborazione, molti dei quali, proprio in quanto in sospetto di abuso, in fase di contenzioso giudiziale (percorso poi completato dal d.lgs. n. 81 del 2015, art. 54).
5.4. Quanto ai presupposti di operatività, la norma richiede una sequenza di offerte da parte del datore di lavoro.
Questi (id est: il datore di lavoro) deve avere offerto al collaboratore, entro il 30 settembre del 2008, la stabilizzazione del rapporto di lavoro secondo la procedura di cui all’art. 1, commi 1202 e ss., della legge n. 296 del 2006, articolata in tre fasi: a) la stipulazione di un accordo aziendale o territoriale volto a promuovere la trasformazione del rapporto di collaborazione in un rapporto di lavoro subordinato di durata non inferiore a 24 mesi; b) la sottoscrizione da parte dei lavoratori di atti di conciliazione individuali ai sensi e per gli effetti degli artt. 410 e 411 cod. proc. civ. con riferimento ai diritti di natura retributiva, contributiva e risarcitoria per il periodo pregresso; c) il pagamento da parte del solo datore di lavoro di un contributo straordinario integrativo per ciascun lavoratore interessato alla trasformazione del rapporto di lavoro.
La prima offerta è, dunque, garantita dalla stessa procedimentalizzazione disegnata dal Legislatore del 2006 e filtrata dalle intese raggiunte dalle parti sociali.
Il datore di lavoro deve, poi, aver rinnovato l’offerta dopo l’entrata in vigore della medesima legge n. 183 del 2010. A tale riguardo, il dato letterale non pone dubbi interpretativi: la nuova proposta si aggiunge all’offerta di stabilizzazione compiuta entro il 30 settembre 2008, come reso palese dall’utilizzo dell’avverbio «ulteriormente» che rafforza il senso, già inequivoco, della congiunzione «nonché».
L’oggetto del contratto di lavoro subordinato di cui alla seconda offerta è predeterminato dal Legislatore; le mansioni di lavoro devono essere equivalenti a quelle del contratto in corso o cessato. Nulla è detto, invece, in ordine all’orario di lavoro e ciò è pienamente giustificabile in ragione della estrema variabilità dell’impegno lavorativo che può avere, in concreto, connotato ogni singolo rapporto.
5.5. La valutazione di conformità delle offerte datoriali ai parametri legali, che costituisce condizione essenziale per l’operatività, in sede giudiziale, del meccanismo di cui sopra si è detto, in quanto necessariamente mediata dalle risultanze processuali, è attività riservata al giudice di merito.
In presenza degli inviti datoriali, positivamente valutati dal giudice del fatto, rifiutati dal lavoratore (come risulta evidente ove si consideri che altrimenti non sussisterebbe neppure la possibilità di azionare alcun giudizio per effetto dell’avvenuta sottoscrizione degli atti di conciliazione individuali), gli effetti derivanti dall’accertamento giudiziale della natura subordinata di una collaborazione coordinata e continuativa, sono quelli indicati dal predetto art. 50 ed il datore di lavoro «è tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità di retribuzione, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604».
5.6. Il contrasto interpretativo verte, in particolare, sull’interpretazione dell’espressione «è tenuto unicamente a indennizzare».
Trattasi, effettivamente, di una non felice soluzione espressiva, come del resto già evidenziato dal Presidente della Repubblica che, in occasione del messaggio, ex art. 74 della Cost., in data 31 marzo 2010, ebbe ad osservare come la disposizione, insieme ad altre della legge n. 183 del 2010, potesse prestarsi «a seri dubbi interpretativi e a potenziali contenziosi».
5.7. Due sono, infatti, le possibili letture dell’art. 50 in punto di conseguenze connesse al rifiuto del prestatore di accettare le offerte datoriali, in caso di accertamento giudiziale della natura subordinata del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa.
Da una parte, ritenere che l’indennità rappresenti l’«unica» misura sanzionatoria a carico del datore di lavoro, sostitutiva cioè di tutte le conseguenze normalmente ricollegabili ad un tale accertamento (ovvero la conversione in rapporto a tempo indeterminato ed il risarcimento), dall’altra, ritenere che la norma abbia inteso «unicamente» incidere sulla misura del danno e non anche direttamente sulla disciplina futura del rapporto di lavoro.
5.8. Stima il Collegio che, tra le due indicate opzioni interpretative, debba preferirsi la seconda che rende il dato letterale (pur in sé non univoco) coerente con quello sistematico.
5.9. La norma va interpretata nel senso che l’indennità economica si sostituisce esclusivamente alle normali conseguenze risarcitorie che derivano dall’accertamento della natura subordinata del rapporto, assicurando al lavoratore un indennizzo che copre, in via forfetaria, non diversamente dall’art. 32 della medesima legge n. 183 del 2010, i danni derivanti dalla ingiustificata estromissione, fermo, tuttavia, il diritto del prestatore al ripristino della funzionalità del rapporto di lavoro ovvero alla «conversione», in esecuzione della sentenza (oltre che naturalmente alle retribuzioni da tali momenti in poi ed a quelle eventualmente maturate in ragione del reale atteggiarsi del rapporto intercorso e non derivanti, ex se, dalla diversa qualificazione del rapporto).
L’avverbio «unicamente» è, infatti, riferito solo al riconoscimento di un minor ristoro economico, giustificato dal rifiuto delle proposte di stabilizzazione, secondo l’esegesi sostenuta dalla Corte di appello di Roma.
5.10. L’indennità, dunque, definisce i rapporti tra lavoratore e datore di lavoro, regolando la misura del risarcimento in relazione al periodo intercorrente tra la cessazione della collaborazione e la sentenza che ne accerta la natura subordinata (e, se del caso, anche al periodo non lavorato tra una collaborazione e l’altra, in caso di riconoscimento di un unico rapporto).
5.11. Conforta siffatta interpretazione l’esame dei lavori preparatori ed, in particolare, delle schede di lettura della Camera dei Deputati relativi agli articoli contenuti nella legge n. 183 del 2010.
In relazione all’art. 50 si dà atto che «l’articolo […] determina la misura del risarcimento nei casi in cui sia stata accertata la natura subordinata di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa».
Il riferimento esclusivamente al «risarcimento» e l’assenza di una esplicita previsione della valenza sostitutiva di detta indennità, anche della ripresa del rapporto, è segno della scelta del Legislatore di preservare l’ordinaria e più pregnante tutela disposta dall’ordinamento e cioè il mantenimento dell’accertato rapporto di lavoro.
Quest’ultimo, infatti, non può considerarsi estinto in mancanza di una chiara previsione che colleghi tale rilevantissima conseguenza al rifiuto opposto dal lavoratore alle proposte datoriali.
5.12. Così interpretata, la disposizione consente di superare i dubbi di legittimità costituzionale e di violazione del diritto sovranazionale, essendo in linea con il principio di effettività ed adeguatezza delle sanzioni, con quello di parità di trattamento e con la clausola di non regresso delle tutele.
La novella in esame, limitandosi ad introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione, con salvezza del nucleo centrale della tutela sostanziale costituito dalla «conversione» ovvero dal ripristino del rapporto, garantisce il diritto di difesa ai sensi dell’art. 24 Cost. e, come tale, appare ragionevole, essendo destinata ad assicurare una parificazione di trattamento di situazioni eguali a prescindere dalla data di introduzione del giudizio, con il solo limite delle sentenze passate in giudicato.
Inoltre, restando fermo il diritto alle eventuali differenze di retribuzione maturate in relazione ai periodi lavorati, non si pongono profili di incostituzionalità per violazione dell’art. 36 della Cost. (e conseguentemente dell’art. 38 Cost.); peraltro, anche nel caso dell’art. 50, come già accennato, a partire dalla sentenza con cui il giudice accerta la natura subordinata del rapporto ed ordina il ripristino del rapporto, il datore di lavoro è indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riattivazione effettiva del rapporto.
In definitiva, la normativa esaminata risulta, nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento degli opposti interessi attraverso l’analitica disciplina, in quello che è stato definito un «delicato gioco di pesi e contrappesi», dei parametri – modalità temporali e oggetto delle offerte – che devono essere rispettati dal datore di lavoro per poter beneficiare del regime speciale di cui all’art. 50. Al lavoratore che abbia rifiutato ben due proposte di assunzione (e nonostante tale rifiuto) è comunque garantita l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato (che va a sostituire il «ricorso ai contratti di lavoro subordinato» e il «corretto utilizzo dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa anche a progetto» di cui all’art. 1, comma 1202, della legge n. 296 del 2006) unitamente ad un’indennità, predeterminata tra un minimo ed un massimo, che ridimensiona le pretese risarcitorie, in misura della metà del massimo dell’indennità stabilita dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010, non diversamente dalla previsione del sesto comma del medesimo art. 32 («In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà»), in funzione premiale della condotta datoriale.
Il tutto nell’ambito dell’illustrato e più ampio contesto normativo di deflazione e definizione di un consistente contenzioso, sedimentatosi in alcuni settori produttivi, nel quale si inscrive la vicenda in questione, che rende la norma in oggetto non solo ragionevole ma anche coerente con i criteri ispiratori della disciplina legislativa precedente.
5.13. Quanto ai possibili profili di violazione dei diritti sanciti dall’art. 6, paragrafo 1, CEDU, giudica il Collegio che, nello specifico, non vi sia stata alcuna ingiustificata intromissione del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, tale da influire sulla decisione di singole controversie o su un gruppo di esse, bensì interventi che per quanto già sopra evidenziato, rispondono a “ragioni imperative di interesse generale” (v., ad esempio, tra le pronunce in questa materia della Corte europea dei diritti dell’uomo relative a controversie tra privati: Arras c. Italia, 14.2.2012, § 42; Ducret c. Francia, 12.6.2007 § 32 ss.; Vezon c. Francia, 18.4.2006, par. 28 ss.) analoghe a quelle già riscontrate dal Giudice delle leggi in occasione della valutazione di legittimità costituzionale dell’art. 32 (v. Corte Costituzionale n. 303 del 2011, spec. § 4.2), escludendosi così ogni violazione degli artt. 111 e 117 Cost., e tanto più evidenti nella fattispecie ove il Legislatore ha completato il percorso di transizione verso un corretto utilizzo dei contratti di collaborazione e di promozione dell’impiego dei lavoratori con contratti di lavoro subordinato supportando il prodotto dell’autonomia privata collettiva promosso dalla legge n. 296 del 2006.
Quanto sopra evidenziato esclude altresì che l’intervento legislativo (come detto inserito in un complessivo programma di riforme) di cui trattasi abbia mutato le conseguenze della violazione delle previgenti regole limitatamente ad un gruppo di fattispecie selezionate in base alla circostanza, del tutto accidentale, della pendenza di una lite giudiziaria tra le parti del rapporto di lavoro.
6. Alla luce delle considerazioni svolte ai punti da 5.1. a 5.13. che precedono sono infondati sia il secondo motivo del ricorso principale sia secondo motivo del ricorso incidentale essendo corretta la decisione della Corte territoriale laddove ha ritenuto che la riconosciuta indennità economica fosse sostitutiva di tutte le normali conseguenze derivanti dall’accertamento della natura subordinata del rapporto (peraltro non ha formato oggetto di doglianza l’avvenuto riconoscimento di differenze retributive in ragione dell’inquadramento ritenuto spettante all’O.), ferma restando la conversione dello stesso e laddove, con valutazione di merito incensurabile in sede di legittimità, ha valutato congrue le offerte di stabilizzazione dell’azienda.
7. E’ del pari infondato il primo motivo del ricorso incidentale dell’O..
L’art. 50 della I. n. 183/2010 è entrato in vigore il 4 novembre 2010, nelle more del processo di appello.
La sentenza della Corte territoriale è stata emessa in data 8 gennaio 2015.
La società appellante di seconde cure (odierna ricorrente in cassazione) aveva impugnato la statuizione del Tribunale che aveva dichiarato l’esistenza e la persistenza di un rapporto di lavoro subordinato e conseguentemente ordinato il ripristino di tale rapporto e condannato la società al pagamento delle differenze retributive maturate in corso dello stesso (a far data dall’1/1/2005, decorrenza poi anticipata al 13/7/2002) e fino al 30/6/2007 (data di cessazione di fatto del rapporto) nonché al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni dovute a decorrere dal 24 luglio 2007 alla data della sentenza oltre accessori di legge. Sul punto delle conseguenze economiche dipendenti dalla ritenuta sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato non si era, dunque, formato un giudicato interno che avrebbe reso inammissibile l’applicazione della nuova disposizione, avendo l’appellante espresso la volontà di caducare pure la parte sul risarcimento del danno.
Inoltre, vi era l’interesse ad agire in quanto era stato riconosciuto, a titolo risarcitorio, un importo superiore al massimo che poteva essere liquidato in applicazione dell’art. 50.
Lo ius superveniens rende proponibile una domanda nuova in appello (senza che la parte incorra in preclusioni) allorquando si tratti di una regolamentazione giuridica nuova di una situazione di fatto già dedotta in primo grado (v. già Cass. 7 gennaio 1970, n. 32 e più di recente Cass. 20 gennaio 2017, n. 1552). E sicuramente rientra in questa fattispecie la mera precisazione quantitativa del petitum dipendente da un fatto sopravvenuto nelle more del giudizio come la nuova determinazione legislativa delle conseguenze patrimoniali sanzionatone in ipotesi di conversione a tempo determinato del contratto in corso ovvero precedentemente in essere.
8. E’ invece fondato il primo motivo del ricorso principale.
Non diversamente da quanto da questa Corte ritenuto con riferimento all’indennità ex art. 32 della I. n. 183/2010 (alla quale è applicabile l’art. 429, comma 3, cod. proc. civ. trattandosi di credito connesso al rapporto: v. Cass. 17 marzo 2016, n. 5344, Cass. 17 febbraio 2016, n. 3062, Cass. 9 gennaio 2018, n. 250,) anche sull’indennità ex art. 50 della stessa legge vanno riconosciuti gli accessori. La previsione, anche in questo caso, del diritto alla liquidazione di una indennità risarcitoria forfetaria e onnicomprensiva (da liquidarsi tra un minimo di 2,5 mensilità di retribuzione ed un massimo di 6 mensilità di retribuzione) del danno relativo al periodo che va dalla cessazione della collaborazione e la sentenza che ne accerta la natura subordinata (e, se del caso, anche al periodo non lavorato tra una collaborazione e l’altra, in caso di riconoscimento di un unico rapporto) deriva che gli accessori ex art. 429, terzo comma, cod. proc. civ. sono dovuti soltanto a decorrere dalla data della detta sentenza (Cass. 22 dicembre 2014, n. 27279; Cass. 12 dicembre 2017, n. 29763, Cass. 12 marzo 2018, n. 5953).
9. Conclusivamente va accolto il primo motivo del ricorso principale e rigettato il secondo ed il ricorso incidentale. La sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto, con decisione nel merito direttamente da parte di questa Corte, non essendo necessari ulteriori accertamenti. Gli accessori ex art. 429, terzo comma, cod. proc. civ. sull’indennità liquidata ai sensi dell’art. 50 della I. n. 183 del 2010 decorrono, quindi, dalla data della sentenza che ha statuito la conversione del contratto e che delimita temporalmente la liquidazione stessa (e non da quella, eventualmente successiva, che ha pronunciato solo retrodatando la decorrenza iniziale del rapporto e quantificando l’indennità), ossia dalla sentenza di primo grado.
10. Le spese di lite dei giudizi di merito sono mantenute nella statuizione adottata dalla Corte d’appello. L’esito complessivo del ricorso principale e di quello incidentale e la novità delle questioni trattate consentono di compensare tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
11. Va dato atto dell’applicabilità, quanto al ricorrente incidentale (totalmente soccombente) dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, co. 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228 poiché l’obbligo del pagamento dell’ulteriore contributo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (cosi Cass., Sez. Un., n. 22035/2014).
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo del ricorso principale e rigetta il secondo ed il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara dovuti gli interessi legali e la rivalutazione monetaria sull’indennità di cui all’art. 50 della I. n. 183 del 2010 a decorrere dalla sentenza di primo grado;
conferma la statuizione sulle spese dei gradi di merito e compensa le spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso incidentale a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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