CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 aprile 2018, n. 9126
Licenziamento per giusta causa – Imputazione in sede penale – Detenzione di stupefacenti a fini di spaccio – Rilevanza in relazione alle mansioni svolte di autista di automezzi pesanti – Gravità della condotta
Fatto di causa
1. La Corte d’appello di l’Aquila, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda con la quale P. P., dipendente con mansioni di autista della Società Unica Abruzzese di Trasporto s.p.a. (all’epoca ARPA -Autolinee Regionali Pubbliche Abruzzesi), aveva chiesto accertarsi la illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli con lettera in data 17.1.2013.
1.1. Il giudice di appello ha fondato la valutazione di gravità della condotta addebitata al dipendente osservando che: a) dalla sentenza di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. era emerso che l’imputazione in sede penale del P. non aveva riguardato solo la coltivazione di un numero modesto di piantine, nelle adiacenze della casa di abitazione, ma anche la coltivazione e detenzione a fini di spaccio – seppure con riconoscimento della ipotesi di tenuità di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 09/10/1990 n. 309; b) il comportamento del dipendente risultava rilevante ai fini dello svolgimento delle mansioni di autista alla guida di automezzi pesanti sulla pubblica via (proprie della qualifica del P., autista di linea), anche in considerazione di specifiche fattispecie di reato collegate alla guida sotto l’influenza di stupefacenti; c) la società datrice di lavoro avrebbe potuto essere chiamata a rispondere, ai sensi dell’art. 2049 cod. civ., delle condotte di guida del P.; d) la condizione di consumo di stupefacente, sia pure del tipo “leggero”, detenuta in quantità e circostanze di tempo e di luogo incompatibili con l’ipotesi del consumo non abituale (da sola sufficiente ad inibire la guida di veicoli su strada) – attestata dalla sentenza di patteggiamento (anche a non volere considerare l’attività di spaccio pure oggetto di imputazione) – configurava, pertanto, giusta causa di licenziamento tenuto conto del fatto che il P. era addetto alla guida di automezzi adibiti al trasporto di persone, mansioni che richiedevano particolare attenzione e lucidità.
2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso P. P. sulla base di nove motivi; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso.
2.1. Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 4, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 329,342, 346,434 cod.proc.civ., per non avere il giudice di appello considerato che la società appellante, tra i motivi di gravame, aveva espressamente escluso la circostanza che la condotta del P. fosse stata tale da renderlo indegno della pubblica stima, ipotesi contemplata dalla previsione di cui all’art. 45, comma 6, del Regolamento allegato al R.D. 08/01/1931 n. 148, posta a fondamento del provvedimento datoriale di destituzione, così prestando acquiescenza alla sentenza del Tribunale sul punto; la società appellante, con il ricorso in appello aveva, infatti, “chiesto” la destituzione sulla base di fatti diversi rispetto a quelli contestati. Premette che il provvedimento espulsivo era stato adottato ai sensi delll’art. 45, comma 6, Regolamento allegato al R.D. 148/1931 – secondo il quale la destituzione si applica nei confronti di “chi, per azioni disonorevoli ed immorali, ancorché non costituiscano reato o trattisi di cosa estranea al servizio, si renda indegno della pubblica stima” – e che in detto provvedimento si faceva riferimento all’ammissione di responsabilità per l’accaduto da parte del dipendente il quale, nella lettera di giustificazione, si era limitato ad ammettere la sola detenzione, presso la serra di proprietà, di alcune piantine di marijuana; il giudice di primo grado aveva ritenuto che la contestazione disciplinare era incentrata nella rilevanza socialmente negativa della condotta del dipendente, a prescindere dalla sua riconducibilità a fattispecie delittuosa, e ritenuto, in sintesi, il fatto ascritto di lieve entità; la società datrice, nel ricorrere in appello, aveva affermato che tale profilo, ovvero il rapporto tra fatti contestati e pubblica stima non era oggetto di impugnazione basando le proprie censure su fatti ed argomenti diversi da quelli oggetto di contestazione; ciò aveva determinato il passaggio in giudicato della sentenza sul punto.
2. Con il secondo motivo di ricorso deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 4, cod. proc:. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 45, punto 7, Regolamento cit. degli artt. 444 e 445 cod. proc. civ., dell’art. 5 Legge 15/07/1966 n. 604, degli artt. 112, 115, 116, 329, 346, 434 cod. proc. civ. e degli artt. 2697 e 2909 cod. civ. Censura la decisione per avere affermato il ricorrere dei presupposti per la destituzione ai sensi dell’art. 45.6 Regolamento cit., pur in mancanza di prove offerte dalla società datrice e sulla base della sola sentenza di patteggiamento, come se la condotta ascritta fosse riconducibile alla diversa ipotesi, non oggetto di addebito, di cui all’art. 45 punto 7 Regolamento cit. che prevede la destituzione nei confronti di “chi sia incorso in condanna penale, sia pure condizionale per delitti, anche mancati o solo tentati, o abbia altrimenti riportata la pena della interdizione dai pubblici uffici”, condotta quest’ultima non oggetto di contestazione. In questa prospettiva assume l’errore della decisione impugnata per avere fondata la legittimità del provvedimento datoriale sulla sola sentenza di patteggiamento.
3. Con il terzo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 45, punto 6, Regolamento allegato al R.D. n. 148/1931, degli artt. 2119 e 2106 cod. civ. nonché dell’art. 7 Legge 20/05/1970 n. 300, censurando la decisione per avere ritenuto ricorrere la giusta causa di licenziamento senza svolgere la preliminare e necessaria attività di interpretazione del parametro normativo applicato e, cioè dei concetti di onore, morale e pubblica stima di cui all’art.. 45, punto 6 del Regolamento cit. e, quindi, mediante valorizzazione degli standards valutativi e così di quegli elementi conformi ai valori dell’ordinamento e ricavabili dalla realtà sociale, necessario presupposto per accertare se la condotta contestata al lavoratore potesse ritenersi così grave da dover meritare la sanzione espulsiva. Ribadito che, secondo quanto emergente dal provvedimento di destituzione, la società datrice di lavoro aveva fatto riferimento alla lettera di giustificazione del lavoratore la quale però era solo parzialmente ammissiva della condotta contestata, sostiene che, nella misura in cui tale condotta era stata ammessa, la stessa avrebbero dovuti essere valutata rispetto al parametro normativo, tenendo altresì conto, che la previsione risaliva all’anno 1931 e si inseriva in un contesto politico e sociale particolarmente rigido. Con riferimento al caso di specie occorreva, quindi, valutare la assenza di rilevanza penale dell’acquisto di semi di marijuana ed i principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 32 del 2014, in tema di necessità di diversificazione del trattamento sanzionatorio nell’ipotesi di droghe “leggere” e droghe” pesanti”.
4. Con il quarto motivo deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 4, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 45, punto 6, Regolamento allegato al R.D. n. 148/1931, degli artt. 2119 e 2106 cod. civ., dell’art. 7 Legge n. 300/1970, degli artt. 112, 115, 116, 132, comma 4, cod. proc. civ., degli artt. 3, 4 e 35 Cost. nonché, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 5, cod. proc. civ.. omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione fra le parti, “ossia la rilevanza o meno, ai fini della destituzione, della condotta così come contestata da Arpa S.pa al dipendente…”. In sintesi, sostiene che dalla contestazione disciplinare, dalla lettera di giustificazione del lavoratore nonché dalla lettera di contestazione definitiva, si evinceva che la condotta contestata, integrante, a detta della società datrice, la violazione dell’art. 45 punto 6, Regolamento cit., era costituita dalla detenzione di alcune piantine di marijuana e di altri attrezzi quali una trincia tabacco per la preparazione di sigarette e composti di pipa, sacchetti di plastica, alcuni semi di marijuana ecc.; la Corte di merito aveva, quindi, errato nel far coincidere la condotta oggetto di valutazione con il capo di imputazione di cui alla sentenza penale; la sentenza impugnata avrebbe dovuto dar conto delle motivazioni della sentenza di patteggiamento e del fatto era stata ritenuta l’ipotesi attenuata prevista dall’art. 73 comma 5 d. P.R. n. 309/1990.
5. Con il quinto motivo deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1 nn. 4 e 5, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 e 2106 cod. civ., dell’art. 7 Legge n. ‘300 /1970, degli artt. 112, 115 e 116, 132, comma 4 cod. proc. civ., degli artt. 3, 4 e 35 Cost., censurando la decisione per avere la Corte territoriale valutato la gravita della condotta ascritta desumendola dalla pena patteggiata e per avere trascurato come la entità della pena applicata dovesse essere riconsiderata alla luce della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale che aveva, in sintesi, dichiarato la illegittimità costituzionale della parificazione tra droghe leggere e droghe pesanti al fine del trattamento sanzionatone. In questa prospettiva assume il carattere apparente della motivazione nel ritenere irrilevante la riduzione di pena intervenuta in sede di esecuzione.
6. Con il sesto motivo deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1 nn. 4 e 5, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. art. 45 punto 6, Regolamento allegato al R.D. n. 148/1931, degli artt. 2119 e 2106 cod. civ., dell’art.7 Legge n. 300/1970, degli artt. 112, 115, 116, 132, comma 4, cod. proc. civ., dell’art. 27, comma 1, Cost., censurando la decisione per avere il giudice di appello erroneamente ritenuto che il P. facesse uso di stupefacenti – fatto questo non risultante dagli atti di causa – e per avere ritenuto tale condizione incompatibile con le mansioni di autista. In particolare assume il vizio di ultrapetizione della decisione di appello per avere questa preso in considerazione l’ipotesi dell’uso di sostanze stupefacenti, la quale non aveva mai formato oggetto di contestazione disciplinare posto che il giudizio penale aveva riguardato la coltivazione e detenzione di stupefacenti. Si richiama, inoltre, la circostanza che il GIP in sede di misura cautelare aveva autorizzato il P. all’espletamento di attività lavorativa e quindi allo svolgimento di attività di autista.
7. Con il settimo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1 nn. 3 e 4, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 45 punto 6 del Regolamento allegato al R.D. n. 148/1931, degli artt. 2119 e 2106 cod. civ., dell’art. 7 Legge n. 300/1970, degli artt.112, 115, 116 e 132, comma 4, cod. proc. civ. e dell’art. 27, comma 1, Cost., nonché, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n.5, cod. proc. civ., omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti. Censura la decisione per avere la Corte territoriale, con motivazione meramente apparente, ritenuto irrilevanti fatti decisivi ai fini della controversia, investendo l’idoneità sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo del P. a svolgere il lavoro di autista. Contesta, in sintesi, la valutazione del giudice di appello che aveva ritenuto di scarsa rilevanza alcune circostanze valorizzate dal giudice di prime cure quali l’autorizzazione del GIP ad assentarsi dal luogo di detenzione agli arresti domiciliari, per svolgere le mansioni di conducente di autobus di linea, la natura assai limitata dell’attività di illecita coltivazione di sostanza stupefacente ecc.
8. Con l’ottavo motivo di ricorso deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 45 punto 6 del Regolamento allegato al R.D. n„ 148/1931, degli artt. 2119 e 2106 cod. civ., dell’ art. 7 Legge n. 300/1970, degli artt. 112, 115, 116 e 132, comma 4, cod. proc. civ. e degli artt. 3 e 27, comma 1, Cost., nonché, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n.5, cod. proc. civ., omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti. Censura la decisione per avere la Corte territoriale ritenuto irrilevanti fatti decisivi ai fini della controversia, investendo l’idoneità del P., sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, a svolgere mansioni di autista e quindi l’intensità dell’elemento intenzionale. Si duole in particolare della mancata considerazione che gli organi di stampa non avevano associato il fatto contestato al P. alla società ARPA, dell’insussistenza della pretesa lesione dell’interesse datoriale alla conservazione del patrimonio aziendale, della mancanza di specifici precedenti disciplinari, contestando, in sintesi, la valutazione di proporzionalità della sanzione.
9. Con il nono motivo deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1 nn. 3 e 4, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 45 punto 6 e 7 del Regolamento allegato al R.D. n. 148/1931, degli artt. 1455, 2106, e 2119 cod. civ. dell’ art. 7 Legge n. 300/1970, dell’ art. 3 Legge 15 giugno 1966 n. 604, degli artt. 112, 115, 116, 329, 346, 434, 132 n. 4 cod. proc. civ., censurando la decisione per avere la Corte territoriale ritenuto proporzionata la sanzione comminata ed escluso che ARPA s.p.a. potesse adottare una sanzione diversa rispetto alla destituzione nonostante il contrario disposto dell’art. 55 del Regolamento allegato al R.D. 148/1931 ; in via gradata si duole che la Corte, con motivazione meramente apparente, aveva ritenuto unica sanzione applicabile quella della destituzione in ragione del fatto che le mansioni di conducente adibito al trasporto di persone richiedono particolare attenzione e lucidità. Ribadisce le ragioni che imponevano l’attualizzazione del parametro normativo con riferimento alla rilevanza della condotta addebitata.
10. Il primo motivo di ricorso risulta inammissibile. In particolare la deduzione di formazione del giudicato in ordine al fatto che le condotte contestate non avevano reso il lavoratore indegno della pubblica stima, non è sorretto dalla adeguata esposizione del fatto processuale destinato a consentire la verifica, sulla base del solo ricorso per cassazione, della fondatezza della censura articolata. A tal fine risulta del tutto inidonea la riproduzione e giustapposizione di alcuni brani del ricorso in appello della società ad alcuni brani della sentenza di primo grado in quanto la parzialità di tali riproduzioni impedisce di valutare sia la obiettiva rilevanza delle argomentazioni del primo giudice con riguardo al profilo in controversia, sia la pertinenza e completezza dei motivi di appello in relazione alle effettive ragioni del decisum di primo grado.
11. Il secondo motivo di ricorso è infondato. A differenza di quanto assume parte ricorrente, infatti, la valutazione di legittimità del provvedimento di recesso adottato dalla società, non è stata fondata, sulla sola sentenza di patteggiamento, come se l’ipotesi addebitata fosse quella dell’art. 45 punto 7 e non quella dell’art. 4 punto 6 del Regolamento allegato al R.D. n. 148/1931; il giudice di appello, escluso ogni automatismo connesso al mero dato dell’essere intervenuta sentenza di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., ha, infatti, chiarito che la condotta di rilevanza penale, secondo quanto risultante dalla sentenza di patteggiamento, non poteva essere limitata, come sostenuto dal lavoratore, alla sola coltivazione di un modesto numero di piantine ma andava estesa anche alla coltivazione e detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, richiamando altresì le emergenze del verbale di sequestro in sede penale (pagina 4, sentenza) nonché quanto emerso in sede di perquisizione domiciliare ( pag. 3, sentenza). Sulla base di tali emergenze ha formulato la propria autonoma valutazione con riguardo alla rilevanza e gravità dei fatti addebitati in funzione di verifica della legittimità del provvedimento datoriale.
11.1. La decisione è, quindi, conforme alla giurisprudenza di legittimità secondo la quale il giudice civile, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale (e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento in quanto il procedimento penale è stato definito ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.), potendo la parte, del resto, contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale (Cass. 30/01/2013 n. 2168; Cass. 8/1/2008 n.132; Cass. 29/3/2017 n. 8132). In questa prospettiva è stato altresì precisato che la valenza probatoria nel giudizio disciplinare della sentenza di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. costituisce un indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione (Cass. del 20/7/2011. n. 15889; Cass. Sezioni U. 20/9/2013 n. 21591). La sentenza di applicazione di pena patteggiata, pur non potendosi configurare come sentenza di condanna, presuppone pur sempre una ammissione di colpevolezza (v. Cass. 2168/2013 cit. Cass. 29/2/ 2016 n. 3980, Cass. 19/9/2016 n. 18324).
11. 2. Quanto sopra osservato comporta il rigetto della ulteriore doglianza con la quale si deduce la violazione della regola di distribuzione dell’onere probatorio ai sensi dell’art. 2697 cod. civ.
12. Il terzo motivo di ricorso è infondato. La sentenza impugnata muove indiscutibilmente dal presupposto che i fatti contestati e alla base del provvedimento di destituzione sono quelli dai quali è scaturito il procedimento penale definito con la sentenza di patteggiamento, presupposto che opera su un piano diverso da quello attinente alla verifica della idoneità lesiva del vincolo fiduciario in relazione al quale il giudice di appello ha valorizzato esclusivamente il profilo dell’uso personale di sostanze stupefacenti. Inequivoca a tal fine è l’affermazione che la condotta di rilevanza penale non ha riguardato solo la coltivazione di un modesto numero di piantine di marijuana ma anche la coltivazione e detenzione a fini di spaccio (v. in particolare, pag. sentenza pag. 5). Parte ricorrente assume, al contrario, che i fatti alla base del provvedimento di destituzione sarebbero quelli e solo quelli risultanti dalla parziale ammissione formulata dal dipendente in sede di giustificazioni rese nell’ambito il procedimento disciplinare con le quali, in sintesi, aveva solo ammesso la detenzione di alcune piantine. A tale ammissione avrebbe, invero, fatto riferimento la società nell’adozione del provvedimento di destituzione. L’assunto del ricorrente è privo di pregio in quanto non è sorretto dalla articolazione di specifica censura destinatala dimostrare che la interpretazione del provvedimento datoriale, nei termini intesi dal giudice di appello, è frutto di violazione dei criteri legali di interpretazione.
Al di là del rilievo assorbente delle considerazioni che precedono, occorre ulteriormente rilevare che il ricorso è privo di autosufficienza nella esposizione dei fatti di causa con specifico riferimento alla questione della corretta identificazione delle condotte a base del provvedimento datoriale e, inoltre, in violazione del disposto dell’art. 366 n.6 cod. proc. civ., omette di riprodurre per intero il contenuto dei documenti rilevanti (lettera di contestazione – lettera di giustificazione – provvedimento di destituzione).
12.1. In relazione alle condotte ascritte, quali identificate dal giudice di appello, deve rilevarsi la intrinseca valutazione della riconducibilità delle stesse al parametro normativo di cui all’art. 45.6 del Regolamento, per come desumibile dal riferimento alla valenza penale dei fatti addebitati, valenza che esprime obiettivamente un disvalore più intenso rispetto alla ” indegnità alla pubblica stima” richiesto dalla richiamata previsione regolamentare.
13. Il quarto motivo di ricorso risulta infondato alla luce di quanto osservato nell’esame del motivo precedente (v., in particolare, punto 12) in ordine alla coincidenza, non inficiata dalle censure del ricorrente, tra fatti addebitati e fatti oggetto di rilievo penale definiti con la sentenza di patteggiamento. La denunzia di vizio di motivazione non è, inoltre, articolata con modalità conformi alla attuale formulazione dell’art. 360, comma 1 n. 5, cod. proc. civ., in quanto parte ricorrente non individua alcuno specifico fatto storico il cui esame è stato omesso dalle parti (Cass. Sez. Un. 07/04/2014 n. 8053), tale non potendosi intendere “la rilevanza o meno, ai fini della destituzione, della condotta così come contestata da Arpa Spa”.
13.1. La “rilevanza della condotta così come contestata da Arpa Spa” esprime un profilo valutativo che esclude la configurabilità del “fatto” quale fatto storico – nel senso prescritto dall’art. 360, comma 1 n. 5, cod. proc. civ. . A riguardo è da evidenziare che, mentre nella precedente formulazione dell’art. 360 comma 1 n. 5 cod. proc. civ. il termine “punto” consentiva di individuare qualunque fatto, elemento, questione, situazione o circostanza in ordine alla quale la motivazione poteva essere viziata, il concetto di “fatto”, presente nell’attuale formulazione, risulta più specifico dal punto di vista naturalistico e giuridico e compendia solo i fatti costitutivi, impeditivi, modificativi o estintivi del diritto controverso come individuati dall’art.2697 cod. civ. e giammai, dopo la riforma del vizio di motivazione, può considerarsi equivalente a “questione” o “argomentazione”, dovendo per fatto intendersi un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storiconaturalistico (cfr., tra le altre, Cass. 08/10/2014 n. 21152).
14. Il quinto motivo di ricorso è da respingere in quanto fondato sull’insussistente presupposto che la valutazione di gravità della condotta sia stata ancorata esclusivamente alla entità della pena patteggiata. Il giudice di appello, infatti, una volta ritenuti provati i fatti oggetto di addebito disciplinare sulla base degli elementi in atti ed in particolare della sentenza di patteggiamento, ha proceduto ad autonoma valutazione di gravità di tali condotte sotto il profilo della idoneità a determinare la lesione del vincolo fiduciario. In questa prospettiva ha argomentato sul fatto che la condizione di consumo di stupefacente correlata alle mansioni di conducente del P. giustificava il provvedimento di destituzione e tale valutazione si sottrae al sindacato di legittimità in quanto l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo della proporzionalità si pone sul piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici, (v., tra le altre, Cass. 25/05/2012 n. 8293).
15. Il sesto motivo, con il quale parte ricorrente assume il vizio di ultrapetizione della sentenza impugnata per avere il giudice di appello fondato la valutazione di gravità su fatti – assunzione di stupefacenti – non oggetto di addebito, è da respingere. Ricordato che, secondo quanto già rimarcato (v. parag.12), le condotte contestate in sede disciplinare coincidono con quelle dalle quali è scaturito il procedimento penale, è del tutto evidente che il mero fatto della detenzione, in numero considerevole, di piantine di marijuana, è stato assunto non come avente rilevanza ex se sul piano del rapporto di lavoro ma solo in quanto sintomatico di condotte destinate ad interferire in maniera più o meno diretta con l’espletamento della prestazione lavorativa. In questa prospettiva, con valutazione congrua non censurabile in sede di legittimità, il giudice di appello, ai fini della verifica della lesione del vincolo fiduciario, ha ritenuto che le emergenze in atti deponevano per una condizione di consumo abituale di stupefacente, sia pure del tipo “leggero” e che tale situazione era incompatibile con le mansioni del P. di conducente di mezzi adibiti al trasporto di persone, mansioni richiedenti “particolare attenzione e perfetta lucidità”.
15. Il settimo motivo è infondato. Si premette che parte ricorrente, pur denunziando formalmente (anche) vizio di violazione di norme di diritto, incentra le proprie doglianze esclusivamente in ordine alla valutazione di gravità del fatto da parte del giudice di appello, valutazione che sostiene essere meramente apparente e comunque viziata dalla omessa considerazione di alcune circostanze che assume decisive. Tanto premesso è innanzitutto da escludere che in violazione del disposto dell’art. 132 comma 4 che la sentenza impugnata sia sostenuta da una motivazione solo formale, ipotesi che ricorre solo qualora le argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio o carente da non consentire in alcun modo il controllo delle ragioni poste a fondamento della decisione (v. tra le altre, Cass. 06/06/ 2012 n. 9113) mentre nel caso di specie il percorso logico giuridico seguito dal giudice di appello è ricostruibile sulla base della puntuale esposizione degli elementi di fatto ricostruiti e dei principi di diritto applicati. Quanto ai fatti dei quali si denunzia l’omessa considerazione e cioè autorizzazione alla prosecuzione dell’attività lavorativa da parte del GIP, l’ininfluenza della pubblicazione della notizia sui quotidiani, insussistenza della pretesa lesione dell’interesse datoriale alla conservazione del patrimonio aziendale, si tratta di circostanze delle quali, in violazione del principio di autosufficienza, è omessa la indicazione degli atti e documenti dai quali ne risulta la rituale acquisizione al giudizio; si tratta comunque, di ^ fatti privi del requisito di decisività non essendo dato ritenere che le stesse, ove considerate, fossero tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre circostanze sulle quali si è fondato il convincimento del giudice di appello, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base ( sulla nozione di decisività, tra le altre,v. Cass. 05/12/2014 n. 25754).
16. Parimenti infondato è l’ottavo motivo in relazione al quale valgono le considerazioni già espresse in sede di esame del motivo precedente sia in ordine alla insussistenza della dedotta violazione dell’art. 132 comma 4 cod. proc. civ. , sia in ordine alla non decisività delle circostanze delle quali si assume la pretermissione in sede di valutazione di gravità delle condotte contestate.
17. Il nono motivo è infondato alla luce della consolidata giurisprudenza di questa Corte, già richiamata al punto 14, secondo la quale II giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria ( v., tra le altre, Cass. 25/05/2012 n. 8293; Cass 19/10/2007 n. 21865). Vanno altresì ribadite le argomentazioni espresse nei paragrafi precedenti nel disattendere le deduzioni in punto di corretta individuazione delle condotte contestate in relazione alle deduzioni, reiterate anche con il motivo in esame. L’assunto del ricorrente che ascrive alla sentenza impugnata di avere ritenuto, in violazione del disposto dell’art. 55 del Regolamento, preclusa la possibilità di applicazione di una diversa e meno grave sanzione è frutto del travisamento delle argomentazioni a riguardo della sentenza impugnata ed è pertanto privo di pertinenza con le effettive ragioni del decisum. Il giudice di appello, laddove ha ritenuto che il provvedimento di destituzione si imponeva “dal momento che nessun ragionevole margine di valutazione delle circostanze e delle qualità soggettive e della vicenda poteva consentire prosecuzione del rapporto di lavoro… non ha affatto inteso riferirsi ad una preclusione giuridica di graduazione della sanzione ma al fatto che la gravità oggettiva e soggettiva delle condotte considerate non lasciava spazio a soluzioni diverse, compatibili con la prosecuzione del rapporto.
18. Le spese di lite sono regolate secondo soccombenza.
19. La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio che liquida in € 5.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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- CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 14 settembre 2022, n. 27132 - In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione di proporzionalità della sanzione è insufficiente un'indagine che si limiti a verificare se il fatto addebitato è…
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