CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 aprile 2018, n. 9131
Custodia cautelare in carcere – Condanna penale dipendente per estorsione aggravata da finalità mafiose in danno di altri dipendenti – Mancata prestazione di attività lavorativa – Licenziamento
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 1358/2013 la Corte di appello di Reggio Calabria ha confermato la sentenza di primo grado con la quale era stata respinta la domanda di F. C. intesa all’accertamento della illegittimità del licenziamento per giusta causa o, in subordine, per giustificato motivo soggettivo, intimato in data 5.9.2011 dalla datrice di lavoro A. s.p.a.
1.1. Il giudice di appello, premessa la vicenda penale in esito alla quale il dipendente era stato condannato in via definitiva per estorsione aggravata da finalità mafiose in danno di altri dipendenti costretti ad omettere i controlli ed i provvedimenti disciplinari conseguenti alla mancata prestazione di attività lavorativa, rilevato che in seguito alla revoca – dopo circa quattro anni- della ordinanza di custodia cautelare in carcere, eseguita a partire dal 24.7.2007, il C. aveva chiesto di essere riammesso in servizio e la società attivato un procedimento disciplinare, ha escluso che i fatti alla base del recesso datoriale fossero stati tardivamente contestati. Argomentando dal carattere relativo del principio di immediatezza della contestazione ai sensi dell’art. 7 Legge 20/05/1970 n. 300, ha, infatti, osservato che le circostanze del caso concreto escludevano da un lato, per la obiettiva gravità dei fatti addebitati, un affidamento del lavoratore in ordine alla intenzione della società di soprassedere alla iniziativa disciplinare e, dall’altro, la lesione del diritto di difesa visto che su quegli stessi fatti, al momento della contestazione disciplinare, il C. stava diffusamente e con dovizia di argomenti difendendosi in sede penale per cui non avrebbe avuto alcuna difficoltà a richiamare in sede disciplinare le prove utilizzate davanti al giudice penale. Nella prospettiva della contrarietà a logica del disinteresse dell’A. all’ esercizio del potere disciplinare, la Corte di merito ha ritenuto irrilevante sia l’espletamento della prova sulla circostanza della conoscenza da parte della società della emissione dell’ordinanza cautelare dell’aprile 2007 sia la mancata adozione di un provvedimento datoriale di sospensione cautelare del C. atteso che, in concreto, si era verificata una sospensione di fatto – sostanzialmente consensuale – del rapporto di lavoro, sospensione necessitata dallo stato di custodia cautelare del dipendente e confortata dalla richiesta dei congiunti di questi, giammai dal C. disconosciuta, di soprassedere nelle more all’adozione di qualsiasi provvedimento. La condotta della società appariva quindi pienamente giustificata tenuto conto del particolare contesto ambientale nel quale la stessa si trovava ad operare la società. Esclusa la genericità della contestazione non potevano sussistere dubbi sulla proporzionalità della sanzione espulsiva desumibile con ogni evidenza dalla gravità e rilevanza penale delle condotte ascritte e dai negativi riflessi sulla serenità dell’ambiente di lavoro in caso di mantenimento in servizio di un collega capace di commettere gravi delitti con metodi mafiosi, realizzati con minacce e percosse nei confronti di altri dipendenti; il mancato passaggio in giudicato, all’epoca del licenziamento, della sentenza penale di condanna risultava poco significativo posto che il C. non aveva neppure tentato di proporre una ricostruzione alternativa dei fatti oggetto di addebito.
2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso F. C. sulla base di un unico motivo ; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso.
2.1. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
1. Con l’unico motivo di ricorso parte ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 n 5 cod. proc. civ., “omesso esame di fatti che avrebbero potuto determinare una diversa decisione e che dimostrano la illegittimità del licenziamento impugnato – Violazione del principio di tempestività della contestazione e del licenziamento ex art. 7 L. n. 300 del 1970 “. Censura la sentenza di secondo grado per non avere tenuto conto del reale accadimento dei fatti, anche sotto il profilo delle scansioni temporali connesse all’indagine penale; sostiene l’illogicità del ragionamento del giudice di appello, per avere ritenuto tempestiva la contestazione in ragione della esclusione della possibilità di affidamento del lavoratore circa l’intenzione datoriale di soprassedere dall’iniziativa disciplinare. Si duole inoltre che la Corte di merito abbia omesso di considerare che la società, per tutto il periodo di carcerazione del C., durato ben tre anni e nove mesi, non aveva erogato la retribuzione, non aveva avanzato contestazione, né disposto la sospensione cautelare dal servizio, provvedendo in tal senso solo in data 30.8.2011, a distanza di quasi quattro anni dalla conoscenza delle condotte addebitate; la inerzia della società, a prescindere dalla gravità degli addebiti, costituiva violazione del principio di correttezza e buona fede e non appariva giustificata da alcuna necessità di accertamento dell’effettivo svolgersi degli eventi.
2. Il motivo è infondato. Premesso che ratione temporis trova applicazione l’art. 360 comma 1 n. 5 cod. proc. civ. nel testo attualmente vigente, che ha ridotto al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione (Cass. Sez. Un. 07/04/2014 n.8053 del 2014), è da escludere che il ragionamento del giudice di appello sia viziato dalla omessa considerazione, quale fatto di rilevanza decisiva, oggetto di discussione tra le parti, dell’atteggiamento “inerte” tenuto dalla società datrice di lavoro nel periodo in cui il C. era assoggettato a misura cautelare.
2.1. La Corte di merito, infatti, ha espressamente preso in considerazione tale condotta ed, in particolare, la mancata adozione di un provvedimento di sospensione del rapporto di lavoro e ha ritenuto che la stessa, proprio in ragione della obiettiva gravità dei fatti oggetto di addebito, non poteva ingenerare alcun affidamento nel lavoratore circa la intenzione della società datrice di lavoro di soprassedere all’esercizio del potere disciplinare. Tale valutazione, sorretta da motivazione congrua e logica riferita alle concrete circostanze ed al particolare contesto ambientale nel quale si sono svolti i fatti, non è suscettibile di sindacato di parte del giudice di legittimità, come ripetutamente affermato da questa Corte la quale ha chiarito che l’accertamento relativo alla tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato (cfr., tra le altre, Cass. 12/01/2016, n. 281; Cass. 19/06/2014 , n. 13955; Cass. 01/07/2010 n. 15649).
3. Il rigetto del ricorso comporta il regolamento delle spese di lite secondo soccombenza.
4. La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 5.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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