CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 febbraio 2014, n. 6635
Tributi – Reati fiscali – IVA – Evasione – Rateizzazione – Riduzione del sequestro finalizzato alla confisca – Sussiste
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 10/06/2013, depositata in data 18/06/2013, il tribunale del riesame di ROMA rigettava la richiesta di riesame presentata dall’indagato avverso il provvedimento 26/06/2013 con cui il GIP presso il Tribunale di ROMA aveva disposto il sequestro preventivo per equivalente, fino a concorrenza della somma di € 613.906,00 (ricavata dalla somma dell’IVA omessa per le annualità d’imposta contestate), in via prioritaria dei saldi attivi eventualmente rinvenibili sui rapporti finanziari riconducibili all’indagato presso i conti correnti esistenti presso MPS e U., presso il conto deposito titoli ed obbligazioni esistente presso la Banca Popolare di Sondrio nonché dei valori, titoli e preziosi eventualmente contenuti nella cassetta di sicurezza riconducibile all’indagato esistente presso U. e, in subordine, in caso di incapienza, con trascrizione del vincolo reale imposto sui registri immobiliari dell’Ufficio Provinciale del Territorio dell’Agenzia delle Entrate competente; la misura cautelare è stata disposta in quanto il ricorrente è indagato del reato di cui all’art. 10-ter, d.Igs. n. 74/00, perché, in tempi diversi e con più azioni ed omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, quale legale rappresentante pro-tempore, nonché firmatario della dichiarazione, della C. & FIGLI s.r.l. con sede legale in Roma, via G. Penta n. 51, ometteva di versare l’IVA dovuta in base alle dichiarazioni in forma unificata dei redditi e dell’IVA, mod. Unico soc. di capitali, per le annualità 2007, 2008, 2009 e 2010, entro i termini previsti per i versamenti degli acconti relativi ai periodi di imposta successivi, per un ammontare superiore, a ciascuna annualità, alla soglia annua di € 50.000,00 prevista dall’art. 10-bis, d. Igs. n. 74/00; il successivo 22/05/2013, la GDF eseguiva il sequestro di quanto contenuto nella cassetta di sicurezza presso la U. s.p.a. di gioielli e valori pari ad € 21.447,00 nonché di un immobile situato in Roma, via Homs n. 22, per un valore di € 591.999,00.
2. Ha proposto tempestivo ricorso il difensore – procuratore speciale cassazionista dell’indagato, impugnando l’ordinanza predetta, deducendo due motivi di ricorso che, attesa la loro intima connessione, possono essere di seguito enunciati unitariamente, nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Deduce, con tali motivi, l’erronea applicazione della legge penale ex art. 606, lett. b), c.p.p. ed il vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione ex art. 606, lett. e), c.p.p.; in sintesi, si duole il ricorrente per non aver ritenuto il tribunale idonea al fine di escludere la sussistenza del fumus commissi delieti e del pericutum in mora la documentazione allegata all’istanza di riesame (per l’anno 2007, documentazione attestante accordi di rateizzazione con l’Agenzia delle Entrate e quietanze di versamento dei relativi ratei trascorsi; per l’anno 2008, pignoramento presso terzi eseguito dall’Agenzia delle Entrate presso ATAC s.p.a. con conseguente estinzione del debito relativo a tale annualità; per l’anno 2009, quietanza di pagamento rilasciata dall’Agenzia delle Entrate; per l’anno d’imposta 2010, accordi di rateizzazione con piano di ammortamento) in quanto, con riferimento alle richieste di rateizzazione del debito tributario e alla relativa ammissione alla procedura rateizzata, le stesse non costituirebbero prova dell’adempimento da parte del contribuente dell’imposta evasa, mentre, da un lato, quanto alla copia informe del ruolo, dalla stessa potrebbe unicamente dedursi che l’IVA non è stata versata bensì compensata con il credito d’imposta e, dall’altro, il pagamento della somma dovuta all’Erario da parte dell’ATAC s.p.a. non eliminerebbe l’indebito vantaggio economico conseguito dall’azione delittuosa, che potrebbe considerarsi eliminato solo per effetto del pagamento del debito tributario da parte dell’obbligato principale, sicché il mantenimento del sequestro risulta giustificato sino a quando continua a permanere in capo all’indagato, debitore verso l’Erario, il vantaggio economico (indebito arricchimento) conseguito dall’azione delittuosa; si deduce, in particolare, che tale motivazione si appalesa illogica e illegittima, non attribuendo la doverosa valutazione alla documentazione attestante il fatto che la somma non versata all’Erario risulti nettamente inferiore rispetto a quella originariamente prospettata; inoltre, con riferimento all’anno d’imposta 2010, difetterebbe qualsiasi motivazione nell’ordinanza impugnata circa le ragioni per cui la documentazione prodotta, volta a dimostrare l’esistenza di una rateizzazione del debito tributario oltre che i versamenti già effettuati dall’obbligato, non sia idonea a dare prova del pagamento; in definitiva, dunque, alla luce di quanto già versato dal ricorrente all’Erario, residuerebbe un debito tributario per i predetti periodi d’imposta pari a € 227.822,68 sicché, tenuto conto dei principi più volte affermati dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui l’espropriazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al profitto derivato, il disposto sequestro non potrebbe estendersi fino a ricomprendere some eccedenti rispetto a quanto lo Stato potrà nel prosieguo sottoporre a confisca, poiché, diversamente, si avrebbe un ingiustificato arricchimento da parte dell’Erario; infine, con ultima censura, si duole il ricorrente dell’erronea interpretazione del tribunale nel ritenere non necessario un nesso di pertinenzialità tra i beni sequestrati ed i benefici che il ricorrente avrebbe avuto nel commettere il reato, in sostanza eccependo la mancanza, nell’ordinanza impugnata, di un fondamentale passaggio motivazionale, costituito dalla verifica dell’effettiva utilità ottenuta dal ricorrente a seguito della condotta illecita, verifica il cui onere dimostrativo spetterebbe al PM e che, nel caso in esame, sarebbe mancante con conseguente nullità dell’ordinanza del tribunale per insufficiente ed adeguata motivazione.
Considerato in diritto
3. Il ricorso dev’essere accolto per le ragioni di seguito esposte.
4. Deve, preliminarmente ricordarsi, che in sede di ricorso per cassazione proposto avverso provvedimenti cautelari reali, l’art. 325 cod. proc. pen. ammette il sindacato di legittimità solo per motivi attinenti alla violazione di legge. Nella nozione di “violazione di legge” rientrano, in particolare, la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma non l’illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell’art. 606 stesso codice (v., per tutte: Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004 – dep. 13/02/2004, P.C. Ferazzi in proc.Bevilacqua, Rv. 226710; Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003 – dep. 10/06/2003, Pellegrino S., Rv. 224611).
5. Tanto premesso sui limiti del sindacato di questa Corte, ritiene il Collegio che la valutazione di fondatezza dei proposti motivi di ricorso renda necessari alcuni approfondimenti sul punto, atteso che è ravvisabile, nel caso in esame, l’ipotesi di violazione dell’art. 606, lett. b), cod. proc. pen. nei limiti di cui si dirà appresso.
Come sinteticamente anticipato nell’illustrazione dei motivi di doglianza, il ricorrente ha censurato la motivazione del giudice del riesame che, nel valutare la documentazione difensiva prodotta all’udienza camerale, non avrebbe adeguatamente valutato quanto dedotto in relazione all’effetto solutorio (come si vedrà, parzialmente) del debito tributario in relazione alla contestazione di omesso versamento dell’IVA per i periodi d’imposta indicati.
6. Quanto al periodo d’imposta 2007, la difesa aveva prodotto davanti al tribunale documentazione attestante accordi di rateizzazione con l’Agenzia delle Entrate e quietanze di versamento dei relativi ratei trascorsi, ma il collegio della cautela ne aveva negato la rilevanza, ritenendo che tale documentazione non costituisse prova dell’adempimento da parte del contribuente dell’imposta evasa. Per pervenire a tale soluzione, i giudici romani richiamano l’orientamento espresso da questa Corte con una recente decisione (Sez. 3, n. 46726 del 12/07/2012 – dep. 03/12/2012, Lanzalone, Rv. 253851; conf.: Sez. 3, n. 10120 del 01/12/2010 – dep. 11/03/2011, Provenzale, Rv. 249752) secondo cui il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto del reato, corrispondente all’ammontare dell’imposta evasa, può essere legittimamente mantenuto fino a quando permane l’indebito arricchimento derivante dall’azione illecita, che cessa con l’adempimento dell’obbligazione tributaria; secondo i giudici del riesame, dunque, la ratio legis contenuta nelle norme che prevedono il sequestro e la confisca per equivalente nei reati tributari, impone di ritenere che solo l’adempimento dell’obbligazione tributaria fa venir meno la ragione giustificativa della misura ablatoria, non rilevando quindi in ambito penale la mera rateizzazione del pagamento (che rileverebbe esclusivamente sul piano amministrativo – tributario determinando la sospensione della procedura esecutiva di recupero), non essendo questa un’ipotesi equiparata all’adempimento.
Tale affermazione è solo parzialmente condivisibile a giudizio di questa Corte. Ed infatti, quanto affermato dalla giurisprudenza richiamata dev’essere correttamente letto, nel senso che se è ben vero che il mantenimento della misura ablativa è giustificato fino al momento in cui si realizza il recupero delle imposte evase a favore dell’amministrazione finanziaria con corrispondente deminutio del patrimonio personale del contribuente (momento superato il quale non ha più ragione di essere mantenuto in vita il sequestro preventivo), è altrettanto innegabile che il raggiungimento di un accordo per la rateizzazione del debito tributario con l’Amministrazione finanziaria non può ritenersi esplicare i suoi effetti nel limitato campo amministrativo, estendendo infatti la sua portata anche nel campo penale e, segnatamente, incidere sul quantum della somma sequestrata per equivalente in relazione al profitto derivato dal mancato pagamento dell’imposta evasa. L’avvenuto pagamento di ratei (documentato mediante la produzione delle quietanze di versamento rilasciate da Equitalia e dei modelli di pagamento F24) per un ammontare indicato pari a € 23.978,58 sul complessivo profitto derivante dal mancato pagamento dell’imposta pari ad € 168.376,0, determina una riduzione del debito tributario per una somma di € 144.397,42, donde la necessità di una corrispondente riduzione del sequestro per equivalente per l’importo sinora versato a seguito della rateizzazione, in quanto il mantenimento del sequestro preventivo in vista della confisca nel suo quantum inziale, nonostante il pagamento – sebbene parziale – del debito erariale, darebbe luogo ad una inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto col principio che l’espropriazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al profitto derivato (v., da ultimo, nella giurisprudenza di questa Sezione: Sez. 3, n. 3260 del 04/04/2012 – dep. 22/01/2013, P.M. in proc. Curro, Rv. 254679).
7. Ad analoga soluzione deve pervenirsi, con riferimento alle somme già versate per l’anno d’imposta 2010, risultanti dagli accordi di rateizzazione con piano di ammortamento. Sul punto, deve, infatti, ritenersi che l’argomento utilizzato dai giudici del riesame con riferimento al diniego di effetto solutorio alla richiesta di rateizzazione del debito tributario ed all’ammissione alla procedura rateizzata riguardano non solo l’anno 2007, ma anche l’anno 2010, non versandosi quindi nel vizio di omessa motivazione ipotizzato dal ricorrente. Valgono, tuttavia, le medesime considerazioni dianzi espresse da questa Corte a proposito dell’effetto solutorio “parziale” che l’ammissione alla procedura di rateizzazione esplica con riferimento alla somma sequestrata per equivalente. L’avvenuto pagamento di ratei (documentato mediante la produzione delle quietanze di pagamento F24) per un ammontare indicato pari a € 26.447,74 sul complessivo profitto derivante dal mancato pagamento dell’imposta pari ad € 109.873,00, determina una riduzione del debito tributario per una somma di € 83.425,26, donde la necessità di una corrispondente riduzione del sequestro per equivalente per l’importo sinora versato a seguito della rateizzazione, in quanto, come già precedentemente espresso, il mantenimento del sequestro preventivo in vista della confisca nel suo quantum iniziale, nonostante il pagamento – sebbene parziale – del debito erariale, darebbe luogo ad una inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto col principio che l’espropriazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al profitto derivato (v., da ultimo, nella giurisprudenza di questa Sezione: Sez. 3, n. 3260 del 04/04/2012 – dep. 22/01/2013, P.M. in proc. Curro, Rv. 254679).
8. Ad analoghe considerazioni deve pervenirsi, a giudizio di questo Collegio, con riferimento al periodo d’imposta 2008, relativamente al quale la difesa ha documentato dinanzi al tribunale del riesame l’avvenuto pignoramento presso terzi eseguito dall’Agenzia delle Entrate presso ATAC S.p.A. con conseguente estinzione del debito relativo a tale annualità. Sul punto, i giudici capitolini hanno affermato nell’ordinanza impugnata che il pagamento della somma dovuta all’Erario da parte dell’ATAC S.p.A. non eliminerebbe l’indebito vantaggio economico conseguito dall’azione delittuosa, che potrebbe considerarsi eliminato solo per effetto del pagamento del debito tributario da parte dell’obbligato principale, sicché il mantenimento del sequestro risulterebbe giustificato sino a quando continua a permanere in capo all’indagato, debitore verso l’Erario, il vantaggio economico (indebito arricchimento) conseguito dall’azione delittuosa.
Tali affermazioni, a giudizio di questa Corte, non possono essere condivise in quanto errate in diritto. Ed invero, riservata ai giudici del riesame in sede di rinvio ogni ulteriore valutazione in ordine alla corretta osservanza delle formalità documentali ritenute non formalmente corrette (in particolare, ben potendo fornire il ricorrente elementi documentali che escludano i dubbi sollevati dal tribunale del riesame sull’intelligibilità di quanto prodotto a sostegno dell’avvenuto pagamento integrale del debito IVA 2008 mediante l’eseguito pignoramento presso terzi), la soluzione offerta dai giudici del riesame si fonda sulla esegesi, ancora una volta non corretta, di quanto già affermato da questa Corte (Sez. 6, n. 25166 del 09/04/2010 – dep. 02/07/2010, Dipietromaria, Rv. 247770) in una fattispecie nella quale era stata affermata la legittimità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto del reato di corruzione e rappresentato dall’indebito conseguimento di rimborsi Iva, anche qualora l’Erario abbia recuperato il debito tributario attraverso l’escussione delle fideiussioni costitute da terzi garanti e fino a quando questi ultimi non abbiano recuperato, esercitando l’azione di rivalsa, le somme corrisposte al danneggiato. Tale sentenza afferma effettivamente che la sanatoria della posizione tributaria non determina il venir meno dei presupposti della confisca per equivalente (e del prodomico sequestro), ma il principio enunciato trova giustificazione in presupposti che ineriscono all’ipotesi, del tutto diversa, del versamento all’Erario dell’imposta evasa non da parte dall’obbligato principale, bensì da parte terzi garanti, ragione per cui permarrebbe in capo al primo l’indebito vantaggio economico conseguito dall’azione criminosa che giustifica il mantenimento del sequestro, proprio perché ad effettuare il pagamento sono terzi e non il reo, che continua a fruire di tali vantaggi. E comunque la sentenza pone un termine finale alla permanenza del sequestro preventivo, coincidente col venir meno della situazione di vantaggio economico per il colpevole a seguito dell’esercizio nei suoi confronti, da parte del fideiussore, dell’azione di rivalsa per il recupero della somma pagata all’amministrazione finanziaria; pertanto, il mantenimento della misura è giustificato sino a tale momento, in cui, con l’esborso da parte del reo della somma dovuta al garante in sede di rivalsa, viene definitivamente a cessare l’indebito arricchimento ottenuto dalla sua illecita condotta.
In definitiva la citata sentenza, lungi dal condividere l’indirizzo sostenuto dai giudici gravati, recepisce il principio secondo cui il sequestro preventivo in funzione della possibile confisca può essere legittimamente mantenuto fino a quando permane in capo al reo l’indebito arricchimento derivante dall’azione illecita posta in essere; quando questo cessa col pagamento delle imposte evase all’erario o col pagamento in favore del terzo garante che agisce in rivalsa per il recupero delle somme versate all’Erario al posto dell’obbligato principale, il vincolo non ha più ragione di essere mantenuto.
Nel caso in esame, invece, è errato richiamare il principio secondo cui il pagamento da parte del terzo non avrebbe effetto solutorio, peraltro integrale, del debito tributario, in quanto non eliminerebbe l’indebito vantaggio economico conseguito dall’azione delittuosa. Mentre nel caso esaminato in precedenza da questa Corte il versamento all’Erario dell’imposta evasa era avvenuto non da parte dall’obbligato principale, bensì da parte terzi garanti (ragione per cui permarrebbe in capo al primo l’indebito vantaggio economico conseguito dall’azione criminosa che giustifica il mantenimento del sequestro, proprio perché ad effettuare il pagamento sono terzi e non il reo, che continua a fruire di tali vantaggi), nella vicenda qui esaminata, il pagamento è stato eseguito dall’ATAC S.p.A. in quanto destinataria di un pignoramento presso terzi.
Com’è noto, l’agente della riscossione può richiedere al terzo di pagare le somme di cui il contribuente è creditore entro i limiti dell’importo dovuto. Orbene, con il pagamento, il terzo, debitore verso l’indagato, non ha versato la somma al creditore, ma ha saldato il debito che quest’ultimo aveva nei confronti dell’Erario. Il pagamento, in altri termini, è stato sì eseguito dal terzo, ma all’indagato non è residuato alcun illecito vantaggio economico, in quanto questi avrebbe dovuto percepire quella somma dal “suo” debitore (l’ATAC S.p.A.), ma a seguito del pignoramento eseguito e del conseguente pagamento da quest’ultimo all’Erario ha definito il debito nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, senza che si sia verificato alcun ingiustificato arricchimento. Trattasi di procedura di riscossione del tutto legittima (v., in particolare, l’art. 72-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, recante “Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito”, che individua una procedura coattiva, alternativa a quella disciplinata dal Codice di Procedura Civile, attivabile sul presupposto dell’inadempimento del debitore ingiunto, onde ne consegue l’intimazione di pagamento rivolta direttamente al terzo presso cui quest’ultimo vanti, invece, un credito; qualora il terzo non ottemperi all’ordine di versamento notificatogli, l’ente concessionario della riscossione procede all’esecuzione secondo le forme ordinarie del codice di rito civile).
Ed allora, può convenirsi con quanto sostenuto dalla difesa del ricorrente che, sul punto, evidenzia come l’intera somma relativa al debito d’imposta 2008 (pari ad € 143.789,00), deve intendersi interamente versata a seguito del pagamento eseguito da ATAC S.p.A., cui consegue l’effetto solutorio integrale del debito IVA per tale annualità, donde la necessità di una corrispondente riduzione del sequestro per equivalente per tale importo in base ai principi indicati nel precedente paragrafo.
9. A diversa soluzione deve, invece, pervenirsi con riferimento alla residua questione giuridica inerente l’effetto solutorio del debito IVA 2009 per effetto della procedura di compensazione, dovendosi per tale parte rigettare il ricorso.
Sul punto, si evidenzia in ricorso come per l’anno 2009, il ricorrente abbia fornito prova dell’avvenuto pagamento integrale dell’imposta dovuta tramite la quietanza di pagamento rilasciata dall’Agenzia delle Entrate, da cui risulterebbe la compensazione integrale del debito IVA 2010 con corrispondenti crediti d’imposta che l’indagato vantava nei confronti dell’Erario. I giudici del riesame, diversamente, hanno ritenuto che anche in questo caso la documentazione prodotta non fosse idonea a provare l’avvenuto pagamento, in quanto emergerebbe dalla copia informe del ruolo che l’IVA 2010 non risulta essere stata versata bensì compensata con un credito d’imposta; ciò, a giudizio del tribunale, potrebbe rilevare non solo sul piano amministrativo, ma anche penale “sempreché emerga la prova certa che l’Amministrazione finanziaria abbia accettato la compensazione quale modalità di estinzione del debito da parte del contribuente”, prova mancante nel caso di specie.
Tali osservazioni, a giudizio di questo Collegio, devono essere integrate con l’attuale disciplina normativa in tema di compensazione tributaria, ostativa al riconoscimento dell’effetto solutorio invocato dal ricorrente. Ed infatti, tale effetto e la correlativa legittimità del meccanismo della compensazione tra crediti d’imposta del privato e debiti del medesimo verso l’Erario emergono dalla disposizione di cui all’art. 17, D. Lgs. 9 luglio 1997, n. 241 (Norme di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti in sede di dichiarazione dei redditi e dell’imposta sul valore aggiunto, nonché di modernizzazione del sistema di gestione delle dichiarazioni), norma che ha ampliato le ipotesi di compensazione già previste dalle norme tributarie, estendendo la facoltà di compensazione anche a crediti e debiti di natura diversa nonché alle somme dovute agli enti previdenziali, sicché nessun rilievo avrebbe quanto affermato incidentalmente dai giudici del riesame circa la mancata prova della natura orizzontale o verticale della compensazione, essendo infatti ammissibile la compensazione “tributaria” sia nel caso di compensazione verticale (ossia riguardante crediti e debiti afferenti la medesima imposta), sia in caso di compensazione orizzontale (ossia riguardante crediti e debiti di imposta di natura diversa).
Piuttosto, ostativa al riconoscimento di tale effetto solutorio (oltre la già rilevata mancata prova dell’accettazione da parte dell’Ufficio finanziario, atteso che l’effetto si perfeziona con l’adozione, da parte dell’ufficio tributario, del provvedimento di accettazione – esplicita o implicita – della domanda del debitore, che è produttivo dell’effetto giuridico di compensazione ex artt. 1241 ss. cod. civ.), è la previsione introdotta dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, che ha disposto (con l’art. 31, comma 1) che «A decorrere dal 1° gennaio 2011, la compensazione dei crediti di cui all’articolo 17, comma 1, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, relativi alle imposte erariali, è vietata fino a concorrenza dell’importo dei debiti, di ammontare superiore a millecinquecento euro, iscritti a ruolo per imposte erariali e relativi accessori, e per i quali è scaduto il termine di pagamento». Come evidenziato dalla relazione di accompagnamento a! D.L. n. 78/2010, la disciplina in esame intende impedire “la compensazione immediata nel modello F24 (e dunque il mancato versamento delle imposte dovute) a chi è nel contempo debitore di altri importi iscritti a ruolo, anche di considerevole ammontare e risalenti nel tempo, e che si ostina a non pagare, costringendo gli organi della riscossione a defatiganti attività esecutive, spesso vanificate da deliberate spoliazioni preventive del patrimonio”.
Con il successivo D.M. 10 febbraio 2011 (recante “Modalità di compensazione delle somme iscritte a ruolo per imposte erariali mediante i crediti relativi alle stesse imposte ai sensi dell’ articolo 31, comma 1, secondo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge del 30 luglio 2010, n. 122”, pubblicato sulla G.U. 18 febbraio 2011, n. 40), il Direttore Generale delle Finanze ha emanato il provvedimento attuativo che consente il pagamento, anche parziale, delle somme iscritte a ruolo per imposte erariali e relativi accessori, mediante la compensazione dei crediti relativi alle stesse imposte. In particolare, si chiarisce che la nuova disciplina si applica a condizione che l’importo dei debiti iscritti a ruolo per imposte erariali e relativi accessori sia di ammontare superiore a 1.500,00 euro, donde non sarebbe applicabile al debito 2010 del ricorrente, pari ad € 191.868,00; infatti, il divieto di compensazione in esame non sussiste solo qualora gli importi iscritti a ruolo e non pagati siano pari o inferiori a 1.500,00 euro.
In caso di inosservanza del divieto di compensazione di cui all’art. 31 del D.L. n. 78/2010, si applica una sanzione pari al 50% dell’importo dei debiti iscritti a ruolo per imposte erariali e relativi accessori, per i quali è scaduto il termine di pagamento.
Ostandovi, dunque, la previsione di cui al d.l. n. 70/2010, la compensazione non poteva operare alcun effetto estintivo del debito tributario.
10. Quanto, infine, alla censura difensiva inerente la presunta erronea interpretazione del tribunale nel ritenere non necessario un nesso di pertinenzialità tra i beni sequestrati ed i benefici che il ricorrente avrebbe avuto nel commettere il reato, è sufficiente per dimostrarne l’infondatezza richiamare quanto più volte già affermato da questa Corte, nel senso che il sequestro disposto “ex” art. 322 – ter cod. pen., a differenza del sequestro preventivo di cui all’art. 321, comma secondo, cod. proc. pen., ha ad oggetto l’equivalente del profitto del reato, e quindi anche cose che non hanno rapporti con la pericolosità individuale del soggetto, e non sono collegate con il singolo reato; in tal caso, il “periculum” coincide con la confiscabilità del bene (Sez. 2, n. 1454 del 11/12/2007 – dep. 11/01/2008, Battaglia, Rv. 239433).
Anche per tale parte il ricorso dev’essere rigettato.
11. L’ordinanza impugnata dev’essere, pertanto, annullata con rinvio al tribunale del riesame di Roma che, nel rideterminare l’entità della somma sequestrabile per equivalente, si atterrà a quanto affermato da questa Corte.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata, con rinvio al Tribunale di Roma, limitatamente alla rideterminazione dell’entità della somma sequestrabile.
Rigetta il ricorso, nel resto.
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