CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 febbraio 2021, n. 3659
Personale non dirigente del comparto regioni ed autonomie locali – Licenziamento senza preavviso – Denaro incassato indebitamente
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 4562/2018, decidendo sul reclamo proposto da F.S. nei confronti di Roma Capitale, confermava la pronuncia del Tribunale che aveva respinto la domanda dell’opponente S. intesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento senza preavviso intimatogli da Roma Capitale in data 11/5/2016 ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a), b), c), d) e comma 8, lett. f) del c.c.n.I. 2006/2009 per il personale non dirigente del comparto regioni ed autonomie locali.
La vicenda aveva preso le mosse da una video-registrazione effettuata presso l’Ufficio comunale denunce di morte in Roma, via del V. n. 80, da un giornalista della trasmissione televisiva “S.N.” da cui si evinceva che il funzionario amministrativo F.S. aveva ricevuto, in diverse occasioni, 5,00 euro dai cittadini che presentavano allo sportello denuncia di morte per ottenere il relativo certificato che invece era gratuito.
Appresa tale notizia, il Direttore dell’Ufficio anagrafe aveva comunicato quanto accaduto al Dipartimento delle risorse umane ai fini delle pertinenti iniziative disciplinari e trasmesso gli atti alla Procura della Repubblica.
Era stata, quindi, formulata contestazione disciplinare e, svolte ulteriori indagini al fine di accertare quanti certificati fossero stati rilasciati dal S. nel periodo 1/9/2015 – 30/1/2016, era stato adottato il provvedimento di licenziamento senza preavviso.
Tale provvedimento era ritenuto legittimo dai giudici di prime cure e dalla Corte territoriale in sede di reclamo.
2. Escludeva la Corte capitolina ogni violazione dell’art. 55 bis, comma 4, del d.lgs. n. 165/2001 per essere stato il procedimento disciplinare definito da un organo monocratico (direttore dell’UPD) laddove l’istruttoria era stata condotta da componenti dell’ufficio ma non dal direttore, ritenendo che la configurazione dei collegi di disciplina come collegi perfetti non fosse coessenziale alla funzione di valutazione e di giudizio propria di tali organi.
Riteneva che non vi fosse stata alcuna erronea ovvero omessa ricostruzione del fatto che doveva considerarsi sussistente e condivideva anche il giudizio espresso dal Tribunale circa la genericità delle contestazioni mosse dal S. al contenuto del DVD relativo alla registrazione effettuata dal giornalista televisivo, dal quale si evinceva chiaramente che il S. (insieme con altri due dipendenti dei quali uno, l’istruttore amministrativo V.M., aveva riconosciuto, vedendo il video, non solo se stesso ma anche il S. e il terzo dipendente).
Evidenziava, poi, che, al di là del contenuto del video e delle dichiarazioni rese da una persona che in tale video era incappucciata, la prassi denunciata della dazione di 5,00 euro per ogni certificato di morte rilasciato fosse emersa dalle dichiarazioni rese nel procedimento penale dal teste M. e non fosse mai stata contestata dal S.
Sottolineava che la dazione di denaro, irrilevante essendo la circostanza che con ordine di servizio era stato limitato il rilascio di certificati per estratto nella misura massima di uno per volta, consentisse di ottenere detti certificati già all’atto della richiesta, senza dover attendere altro tempo.
Riteneva che la massima sanzione irrogata fosse proporzionata alla gravità dei fatti contestati ed evidenziava che il numero delle volte in cui il S. aveva rilasciato più di un certificato di morte escludesse altresì che fossero state incassate indebitamente somme di modico valore.
Richiamava il contenuto del codice di comportamento di cui alla deliberazione della Giunta capitolina n. 429/2013 e riteneva che la richiesta o accettazione di regali o di altre utilità anche di modico valore qualora come nella specie non “d’uso” (in quanto correlata alla definizione, nell’interesse di chi aveva erogato l’utilità, di una pratica amministrativa) integrasse un comportamento contrario ai doveri d’ufficio.
Da ultimo respingeva la tesi che potesse avere rilevanza l’esito assolutorio del Tribunale penale in relazione al reato di corruzione e rimarcava l’autonomia della valutazione in sede disciplinare sotto il profilo dell’inadempimento dei doveri ed obblighi che il dipendente è tenuto ad osservare.
3. Per la cassazione della sentenza F.S. ha proposto ricorso con quattro motivi.
4. Roma Capitale ha resistito con controricorso.
5. Il ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 55 bis, comma 4, d.lgs. n. 165/2001 (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.).
Censura la sentenza impugnata per aver escluso l’illegittimità del procedimento disciplinare che era stato condotto e definito da organo monocratico e non collegiale e sostiene che l’UPD è per legge una struttura plurisoggettiva a valenza collegiale.
2. Il motivo è infondato.
2.1. Va innanzitutto evidenziato che, nella specie, come precisato nella sentenza impugnata (v. pag. 8) sulla base di un accertamento in fatto non rivedibile in questa sede di legittimità (v. anche infra), l’Ufficio competente per i procedimenti disciplinari non aveva affatto natura plurisoggettiva ed il titolare dello stesso solo si avvaleva, per gli atti istruttori necessari (che evidentemente non poteva condurre personalmente), di una apposita struttura amministrativa.
Né invero la disposizione di cui all’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001 impone la costituzione dell’UPD nelle forme e con le regole dell’organo collegiale.
Ed allora, in una fattispecie quale quella per cui è causa, il titolare dell’ufficio dei procedimenti disciplinari può delegare il compimento di singoli atti ai dipendenti assegnati all’ufficio stesso, purché ne faccia propri i risultati provvedendo all’esame della istruttoria, alla contestazione dell’addebito ed alla irrogazione della sanzione (v. in tal senso Cass. 9 maggio 2018, n. 11160).
2.2. Si aggiunga, in ogni caso, che, come da questa Corte già affermato, occorre distinguere le regole legali sulla competenza da quelle regolamentari che disciplinano la costituzione e il funzionamento dell’organo collegiale secondo l’ordinamento interno di ciascuna Pubblica Amministrazione, perché il d.lgs. n. 165 del 2001 «non attribuisce natura imperativa “riflessa” al complesso delle regole procedimentali interne che regolano la costituzione e il funzionamento dell’UPD». Ciò perché l’interpretazione dell’art. 55 bis, comma 4, non può essere ispirata ad un eccessivo formalismo ma deve essere coerente con la sua ratio, che è quella di tutelare il diritto di difesa dei dipendenti pubblici, senza alcuna eccezione, anche per i casi più gravi di condotte penalmente rilevanti, tenendo, però, in considerazione i principi di cui agli artt. 54, 97 e 98 Cost.. Si è conseguentemente ritenuto che, ai fini della legittimità della sanzione, rileva che sia stato garantito il principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa individuazione dell’ufficio dei procedimenti, il che «postula solo la distinzione sul piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente» (v. Cass. 2 marzo 2017, n. 5317; Cass. 25 ottobre 2017, n. 25379; Cass. 6 febbraio 2019, n. 3467).
3. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.).
Sostiene che la Corte territoriale avrebbe, da un lato, argomentato ed affermato la natura collegiale dell’UPD e, dall’altro, in modo del tutto contraddittorio negato tale natura.
Evidenzia, al fine di sgombrare il campo da possibili dubbi che potrebbero essere indotti dalla presenza di un doppio rigetto in primo grado ed in appello e dunque al fine di evitare l’inammissibilità del motivo per la presenza di una “doppia conforme” ai sensi e per gli effetti dell’art. 348 ter cod. proc. civ., che il giudice di primo grado aveva affermato la natura collegiale dell’UPD mentre il giudice del reclamo la aveva contraddittoriamente sia affermata sia negata.
4. Il motivo è inammissibile.
Si evince dalla stessa sentenza impugnata che già il giudice di primo grado (contrariamente all’assunto del ricorrente) aveva evidenziato come non risultasse la natura collegiale dell’UPD (si veda il passaggio della sentenza del Tribunale testualmente riportato alle pagg. 4 e 5 della pronuncia resa dalla Corte territoriale in sede di reclamo).
Eguale natura è stata riconosciuta dalla Corte capitolina che, senza incorrere in alcuna insanabile contraddizione, ha preso motivata posizione sulle contrapposte deduzioni delle parti ed ha affermato in modo inequivoco che l’UPD di Roma Capitale non ha natura collegiale e che il soggetto titolare dello stesso ha una propria struttura amministrativa della quale può legittimamente avvalersi.
Ed allora non vi è motivo per non applicare la disposizione di cui all’art. 348 ter cod. proc. civ. secondo cui quando la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado è basata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui ai numeri 1), 2), 3) e 4) del primo comma dell’art. 360 cod. proc. civ.
Come questa Corte ha già affermato (v. Cass. 29 ottobre 2014, n. 23021; Cass. 29 ottobre 2015, n. 22142; Cass. 27 luglio 2017, n. 18659; Cass. 6 marzo 2019, n. 6544), con indirizzo cui si intende dare in questa sede continuità, la suddetta disposizione è applicabile anche alla sentenza che definisce il procedimento di reclamo ex art. 1 legge Fornero. Sul punto ha evidenziato come la normativa di riferimento non disciplini il contenuto dell’atto di reclamo, introduttivo del giudizio di secondo grado e che vi è dunque integrazione della disciplina – pur speciale – dettata dalla l. n. 92/2012, art. 1, co. 58 e 61 con quella dell’appello nel rito del lavoro; dalla integrazione deriva la applicazione anche dell’art. 348 ter cod. proc civ., ed in particolare – per quanto in questa sede rileva – della modifica che riguarda il vizio di motivazione per la pronuncia cd. “doppia conforme”.
La disposizione è applicabile ratione temporis (ex art. 54, comma 2, d.l. n. 83/2012) nel presente giudizio giacché il reclamo è stato depositato nel 2015.
Resta, dunque, preclusa la possibilità di sindacato da parte di questa Corte sull’accertamento in fatto svolto dalla Corte territoriale.
5. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 1, lett. a), b), c), d) e comma 8 lett. f) del c.c.n.I. per il personale del comparto delle regioni e delle autonomie locali 2006-2009, violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 cod. civ.
Censura la sentenza impugnata per vizio di erronea sussunzione dei fatti accertati nell’ambito della indicata previsione contrattuale e richiama il contenuto della sentenza penale di assoluzione con riguardo alla inidoneità di piccole regalie d’uso a configurare il reato di corruzione.
6. Il motivo è infondato.
6.1. Occorre premettere che la giurisprudenza di questa Corte ha da tempo precisato che il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (ora nei limiti di cui al nuovo art. 360, n. 5, cod. proc. civ.). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. fra le più recenti Cass. 21 novembre 2016, n. 24029; Cass. 17 maggio 2016, n. 10057; Cass. 10 luglio 2015, n. 14468).
Da detto principio generale è stata tratta la conseguenza, in tema di licenziamento per giusta causa, della possibilità di configurare un vizio di sussunzione solo qualora “la combinazione e il peso dei dati fattuali, così come definito dal giudice del merito, non consente comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento. Altrimenti occorrerà dedurre che è stato omesso l’esame di un parametro tra quelli individuati dalla giurisprudenza ai fini dell’integrazione della giusta causa avente valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità; ma in tal caso il vizio è attratto nella sfera di applicabilità dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ..” (v. Cass. 23 settembre 2016, n. 18715) e, quindi, per le sentenze pronunciate decorsi trenta giorni dall’entrata in vigore della legge 7 agosto 2012 n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, sarà denunciabile unicamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.
Il medesimo ragionamento è da svolgere allorché il licenziamento sia stato irrogato, come nella specie, per violazioni intenzionali di obblighi di gravità tale, in relazione ai criteri di cui al codice disciplinare previsto dalla contrattazione collettiva, da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro (art. 3, comma 1, lett. a), b), c), d) e comma 8 lett. d) del c.c.n.l. per il personale non dirigente del comparto regioni ed autonomie locali 2006/2009) atteso che la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 cod. civ. (si ricorda che l’art. 55 quater del d.lgs. n. 165 del 2001 già nella versione esistente al momento dell’inserimento di tale norma ad opera dell’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2009 ha tenuto ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e fatto salve le ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, tipizzando comunque specifiche ipotesi di licenziamento disciplinare).
6.2. Ed allora il vizio di sussunzione non ricorre nella fattispecie perché la Corte territoriale, dopo avere ritenuto provata la materialità della condotta, esaminando e ritenendo infondati gli argomenti difensivi dedotti a sostegno della asserita illegittimità del recesso, ha escluso la allegata buon fede e considerato, sulla base dell’istruttoria svolta, l’intenzionalità della condotta, la rilevanza della violazione dell’obbligo nei confronti del datore di lavoro di non ricevere regali/denaro in ragione dell’assolvimento di compiti d’ufficio nonché di obblighi nei confronti di terzi, il tutto in rapporto alle specifiche responsabilità connesse alla particolare posizione del dipendente, funzionario preposto all’ufficio. Ha così ritenuto che la condotta del S. fosse stata adottata con grave violazione dei principi di imparzialità, indipendenza e buon andamento della cosa pubblica, andando a ledere gravemente l’immagine dell’amministrazione di appartenenza, determinando una irreparabile lesione del rapporto di fiducia con il datore di lavoro pubblico in modo tale da non consentire la prosecuzione del rapporto.
6.3. E’ stato, poi, da questa Corte precisato che l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare norme elastiche, come quella di cui all’art. 2106 cod. civ. fatta propria dall’art. 55, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo applicabile “ratione temporis” alla fattispecie dedotta in giudizio, non sfugge alla verifica in sede di legittimità, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi (anche costituzionali) desumibili dall’ordinamento (v. ex multis Cass. 7 maggio 2019, n. 11949; Cass. 9 maggio 2018, n. 11160; Cass. 30 novembre 2017, n. 28796).
Al riguardo, è stato affermato che la relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo (Cass. n. 28796/2017 cit.).
6.4. Nella specie, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi innanzi richiamati nella formulazione del giudizio valoriale di gravità della condotta e di proporzionalità della sanzione espulsiva.
Essa, infatti, ha formulato tale giudizio valutando gli aspetti oggettivi e soggettivi del comportamento addebitato ed i parametri applicati risultano coerenti con le disposizioni contenute nel c.c.n.l.
6.5. Né rileva l’intervenuta assoluzione in sede penale che ha riguardato il fatto corruttivo oggetto dell’imputazione (v. infra).
7. Con il quarto il ricorrente denuncia violazione dell’art. 653 cod. proc. pen., violazione e falsa applicazione dell’art. 7 del codice di comportamento di cui alla DGC n. 429/2013 e dell’art. 4 del d.P.R. n. 62/2013 – Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici.
Censura la sentenza impugnata per non aver attribuito la giusta rilevanza alla sentenza penale di assoluzione e per non aver ritenuto che tale assoluzione facesse stato circa l’insussistenza del fatto.
8. Il motivo è infondato.
8.1. L’assoluzione ha riguardato il fatto reato e cioè il fatto corruttivo ma non ha certo escluso il fatto materiale costituito dalla ricezione da privati, nell’esercizio delle funzioni, di somme di denaro.
In particolare il giudice penale non ha affatto ritenuto che tale condotta non fosse riferibile al S. o che la video-registrazione posta a base anche del procedimento penale non avesse ripreso l’odierno ricorrente all’atto di ricevere le somme non dovute ma ha posto a base della decisione la circostanza che l’accertamento delle condotte abituali contestate avrebbe reso necessaria ulteriore istruttoria e che fosse insufficiente la prova che le regalie accettate avessero superato quei 150 euro per anno solare che i codici di comportamento per i pubblici dipendenti pongono alla soglia-limite ammessa.
E’ del tutto evidente, allora, che tale fatto materiale era suscettibile di valutazione in sede disciplinare.
8.2. Va infatti ritenuto applicabile il principio affermato da questa Corte a Sezioni unite, in materia di responsabilità disciplinare dei magistrati, secondo il quale, in tema di rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare, il giudicato penale non preclude, in sede disciplinare, una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, fermo solo il limite dell’immutabilità dell’accertamento dei fatti nella loro materialità – e dunque, della ricostruzione dell’episodio posto a fondamento dell’incolpazione – operato nel giudizio penale (v. Cass., Sez. Un., 9 luglio 2015, n. 14344; Cass., Sez. Un., 24 novembre 2010, n. 23778; Cass., Sez. Un., 18 ottobre 2000, n. 1120).
8.3. Si ricorda, del resto, che in termini generali la sanzione disciplinare, è strettamente correlata al potere direttivo del datore di lavoro, inteso come potere di conformazione della prestazione alle esigenze organizzative dell’impresa o dell’ente, potere che comprende in sé quello di reagire alle condotte del lavoratore che integrano inadempimento contrattuale. La previsione della sanzione disciplinare non è posta a presidio di interessi primari della collettività, tutelabili erga omnes, né assolve alla funzione preventiva propria della pena, sicché l’interesse che attraverso la sanzione disciplinare si persegue, anche qualora i fatti commessi integrino illecito penale, è sempre quello del datore di lavoro al corretto adempimento delle obbligazioni che scaturiscono dal rapporto (v. in tal senso Cass. 26 ottobre 2017, n. 25485).
Diversi essendo i presupposti delle relative responsabilità ed i piani di operatività dei rispettivi giudizi, non è precluso al giudice civile di esaminare i medesimi accadimenti nell’ottica dell’illecito disciplinare, non sussistendo alcun vincolo rispetto alle valutazioni nella sentenza penale laddove le stesse esprimano determinazioni riconducibili a finalità del tutto distinte rispetto a quelle del giudizio disciplinare (v. in tal senso anche Cass., Sez. Un., 5 aprile 2012, n. 5448).
8.4. Così, nella specie, del tutto legittimamente la Corte territoriale ha ritenuto che l’assoluzione intervenuta nel giudizio penale non precludesse il vaglio dei medesimi fatti sotto il profilo disciplinare (fatti rimasti non pienamente accertati in sede penale e che ben potevano essere, come è avvenuto, rivalutati nella loro oggettività e così considerati oggetto di una vera e propria prassi; si vedano i riferimenti: – al contenuto delle dichiarazioni rese nel video da persona incappucciata, risultata poi identificata in un soggetto che in sede di dibattimento penale aveva confermato le accuse di cui al servizio, salvo poi avvalersi successivamente della facoltà di non rispondere; – alle ammissioni del dipendente M.; – alla circostanza che lo stesso S. non avesse mai contestato tale prassi).
Di conseguenza corretta è stata la rilevanza attribuita, al fine della lesione irrimediabile del vincolo fiduciario, al fatto di ricevere denaro in occasione ed a cagione delle proprie funzioni.
8.5. Del resto, l’art. 3 del codice di comportamento di cui alla DGC n. 429/2013 fa riferimento all’esercizio delle funzioni con disciplina ed onore, con stili consoni al prestigio di Roma ed alla sua funzione di Capitale della repubblica e quanto ai “regali, compensi ed altre utilità” impone al dipendente di non accettarne salvo quelli di modico valore, effettati occasionalmente nell’ambito delle normali relazioni di cortesia.
Orbene, nella specie, con valutazione di fatto non rivedibile in questa sede, i giudici di appello hanno escluso che le dazioni di denaro in questione potessero essere ricondotte alle “regalie d’uso” in quanto solo correlate alla definizione, nell’interesse del soggetto erogante l’utilità, di una pratica amministrativa da parte del ricevente.
8.6. D’altra parte, anche l’art. 4 del d.P.R. n. 62 del 2013 circoscrive l’ammissibilità dell’accettazione di donativi da parte del dipendente pubblico richiedendo che gli stessi, oltre che ‘d’usò siano anche effettuati “nell’ambito delle normali relazioni di cortesia e nell’ambito delle consuetudini internazionali”. La suddetta disposizione prevede altresì che: “in ogni caso, indipendentemente dalla circostanza che il fatto costituisca reato, il dipendente non chiede, per sé o per altri, regali o altre utilità, neanche di modico valore a titolo di corrispettivo per compiere o per aver compiuto un atto del proprio ufficio da soggetti che possano trarre benefici da decisioni o attività inerenti all’ufficio, né da soggetti nei cui confronti è o sta per essere chiamato a svolgere o a esercitare attività o potestà proprie dell’ufficio ricoperto”.
8.7. Nella specie la Corte territoriale ha posto in chiara correlazione le dazioni di denaro con l’ottenimento dei certificati velocizzato (“già all’atto della richiesta”) rispetto ai tempi ordinari.
E tanto basta ad escludere che si fosse trattato di “regalie d’uso”.
9. Il ricorso deve, dunque, essere respinto.
10. La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.
11. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello prescritto per il ricorso principale, ove dovuto a norma del comma 1- bis, dello stesso art. 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore di Roma Capitale, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
Possono essere interessanti anche le seguenti pubblicazioni:
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 09 novembre 2021, n. 32905 - In materia di pubblico impiego, ai dipendenti del comparto delle regioni e delle autonomie locali che svolgono la prestazione lavorativa con il sistema dei turni, funzionale all'esigenza di…
- CORTE di CASSAZIONE - Sentenza n. 1792 depositata il 17 gennaio 2024 - La «sentenza definitiva», secondo la corretta interpretazione dell’art. 4 del CCNL del personale non dirigente del Comparto Regione e Autonomie locali 2006-2009, è la sentenza che…
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 07 ottobre 2021, n. 27315 - I compensi professionali, dovuti ai sensi dell'art. 27 del CCNL del 14 settembre 2000 per il personale del comparto delle regioni e delle autonomie locali, successivo a quello dell'1.4.1999,…
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 02 novembre 2021, n. 31114 - I lavoratori turnisti, quali devono qualificarsi i vigili urbani, hanno diritto al solo compenso di cui all'art. 22 comma 5, del CCNL 14.9.2000 per il comparto Regioni ed Autonomie locali,…
- MINISTERO INTERNO - Comunicato 13 dicembre 2022 - Riunione Conferenza Stato-città e autonomie locali - Differimento del termine del bilancio di previsione dell'anno 2023 degli enti locali, agevolazioni promozione economia locale, contributo…
- CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 29398 depositata il 25 luglio, 2022 - In tema di sequestro a fini di confisca del profitto monetario del reato la natura fungibile, tipica del denaro, renda del tutto irrilevante stabilire se quello…
RICERCA NEL SITO
NEWSLETTER
ARTICOLI RECENTI
- E’ onere del notificante la verifica della c
E’ onere del notificante la verifica della correttezza dell’indirizzo del destin…
- E’ escluso l’applicazione dell’a
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 9759 deposi…
- Alla parte autodifesasi in quanto avvocato vanno l
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 7356 depositata il 19…
- Processo Tributario: il principio di equità sostit
Il processo tributario, costantemente affermato dal Supremo consesso, non è anno…
- Processo Tributario: la prova testimoniale
L’art. 7 comma 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 (codice di procedura tributar…