CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 luglio 2021, n. 19738
Tributi – IVA – Esportatore abituale – Operazioni in sospensione d’imposta – Omessa comunicazione di dichiarazione d’intenti – Sanzioni
Fatti di causa
1. L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria di II grado di Bolzano, depositata il 30 giugno 2011, di reiezione dell’appello dalla medesima proposta, nonché dell’appello incidentale della F.C. s.r.l. (oggi, F.G. s.p.a.), avverso la sentenza di primo grado che aveva parzialmente accolto il ricorso della contribuente per l’annullamento dell’atto di irrogazione di sanzioni notificato per omessa comunicazione all’Ufficio dei dati contenuti nelle dichiarazione di intenti ricevute dal proprio cessionario, esportatore abituale, in relazione ad operazioni intervenute nel periodo 1° maggio – 31 ottobre 2007.
2. Il giudice di appello ha dato atto che la Commissione provinciale, ritenuto che nel comportamento della società erano ravvisabili tanti illeciti quante erano le fatturazioni effettuate in sospensione d’imposta, aveva rideterminato la sanzione in euro 11.600,00, previa applicazione dell’istituto del cumulo giuridico di cui all’art. 12, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.
Ha, quindi, disatteso sia l’appello della contribuente, evidenziando che la condotta omissiva accertata assumeva un valore sostanziale e che, in mancanza della comunicazione dei dati delle dichiarazioni di intenti, ogni fatturazione in sospensione d’imposta esponeva il contribuente all’irrogazione della relativa sanzione, sia l’appello dell’Ufficio, vertente sulla rideterminazione della sanzione operata dal giudice di primo grado e sulla applicazione dell’istituto del cumulo giuridico.
3. Il ricorso è affidato ad un unico motivo.
4. Resiste, con controricorso, la F.G. s.p.a., la quale propone ricorso incidentale affidato a nove motivi.
5. In relazione a tale ricorso incidentale l’Agenzia delle Entrate non spiega alcuna attività difensiva.
6. La società deposita memorie ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c. e, a seguito di rimessione della alla pubblica udienza disposta in relazione alla questione relativa agli effetti prodotti dalle leggi succedute nel tempo con riguardo alla fattispecie in giudizio, dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Occorre esaminare prioritariamente il ricorso incidentale proposto dalla contribuente, i cui motivi vertono, in primo luogo, sulla sussistenza delle violazioni contestate e sulla loro rilevanza ai fini dell’applicazione delle sanzioni irrogate.
Infatti, il ricorso incidentale non condizionato con cui vengano proposte questioni pregiudiziali di rito o questioni di merito la cui decisione, secondo l’ordine logico e giuridico, deve precedere quella del merito del ricorso principale, va esaminato con priorità rispetto a quest’ultimo, indipendentemente dalla rilevabilità d’ufficio delle questioni proposte, poiché l’interesse all’impugnazione sorge per il solo fatto che il ricorrente incidentale è soccombente sulla questione pregiudiziale o preliminare decisa in senso a lui sfavorevole, così da rendere incerta la vittoria conseguita sul merito dalla stessa proposizione del ricorso principale e non già dalla sua eventuale fondatezza (cfr. Cass. 31 ottobre 2014, n. 23271; Cass. 23 aprile 2007, n. 9598).
1.1. Ciò posto, con il secondo motivo del ricorso incidentale, esaminabile, per primo per motivo di ordine logico-giuridico, la contribuente deduce la nullità della sentenza, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., per omessa pronuncia sul motivo di appello (incidentale) vertente sul carattere della violazione contestata.
1.2. Il motivo è infondato, in quanto la Commissione regionale si è pronunciata sul punto, ritenendo che la violazione contestata presentava «valore sostanziale».
2. Con il primo motivo la società denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 10, I. 27 luglio 2000, n. 212, 11, primo comma, lett. a), d.lgs. n. 472 del 1997, e 7, commi 3 e 4 bis, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, per aver la sentenza impugnata ritenuto che la condotta da lei osservata fosse sanzionabile, pur risolvendosi nella inosservanza di una «formalità».
3. Con il terzo motivo si duole della omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione della sentenza nella parte relativa alla qualificazione della violazione contestata.
3.1. I due motivi, esaminabili congiuntamente, sono infondati.
Come noto, l’art. 8, primo comma, lett. c), nella formulazione applicabile ratione temporis, prevede che le cessioni di beni (diversi dai fabbricati e dalle aree edificabili) e le prestazioni di servizi rese a soggetti che effettuino abitualmente cessioni all’esportazione od operazioni intracomunitarie e che chiedano al loro fornitore di non applicare l’imposta sull’operazione di acquisto e/o di importazione sono effettuate senza applicazione dell’i.v.a.
In particolare, il beneficio è riconosciuto solo ai soggetti che abbiano effettuato cessioni all’esportazione di cui all’art. 8, primo comma, lett. a) e b), d.P.R. n. 633 del 1972, registrate nell’anno precedente, per corrispettivi superiori al dieci per cento del complessivo volume di affari e nei limiti dell’ammontare complessivo di tali corrispettivi ed è subordinato alla presentazione da parte dell’esportatore abituale di una apposita dichiarazione d’intento con la quale manifesta l’intenzione di avvalersi di tale facoltà.
Ai sensi dell’art. 1, primo comma, lett. c), d.l. 29 dicembre 1983, n. 746 (conv., con modif., dalla I. 27 febbraio 1984, n. 17), nella versione applicabile ratione temporis, tale dichiarazione va redatta in conformità di un modello approvato con decreto del Ministro delle finanze e va consegnata o spedita al fornitore o prestatore, ovvero presentata in dogana, prima dell’effettuazione della operazione e, nella prima ipotesi, il cedente o prestatore deve comunicare all’Agenzia delle entrate, esclusivamente per via telematica ed entro il giorno 16 del mese successivo, i dati contenuti nella dichiarazione ricevuta.
Orbene, l’art. 7, comma 4-bis, d.lgs. n. 471 del 1997, nella formulazione vigente all’epoca dei fatti, prevede la punibilità con la sanzione prevista dal precedente terzo comma (dal cento al duecento per cento dell’imposta) il cedente o il prestatore che omette di inviare, nei termini previsti, la comunicazione dei dati contenuti nella dichiarazione di intenti ricevuta o che la invia con dati incompleti o inesatti.
Diversamente da quanto sostenuto dalla contribuente, tale disposizione, benché avente carattere speciale, si pone in coerenza con la disciplina generale in tema di sanzioni tributarie, in base alla quale costituiscono violazioni formali quelle che, pur non incidendo sulla determinazione dell’imponibile o dell’imposta, come quelle di carattere sostanziale, comportano un pregiudizio all’attività di accertamento, risultando prive di rilevanza ai fini in esame solo le violazioni meramente formali, ossia quelle che non arrecano alcun pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo e non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo previste dall’art. 6, comma 5-bis, d.lgs. n. 472 del 1997 (cfr. Cass., ord., 16 gennaio 2019, n. 901; Cass., ord., 30 ottobre 2018, n. 27598).
Infatti, l’obbligo di comunicazione della dichiarazione di intenti si correla all’esigenza di consentire un efficace controllo sull’applicazione della disciplina in tema di i.v.a. e, in particolare, del regime di riscossione dell’imposta relativa ad operazioni di cessione infracomunitaria o all’esportazione e, per tale ragione, la sua inosservanza non può dare luogo ad una violazione meramente formale, in quanto tale non punibile (cfr., in merito a fattispecie analoga di omessa annotazione e registrazione della dichiarazione di intento, Cass. 27 settembre 2013, n. 22178).
Non viene, dunque, in rilievo una mera irregolarità dichiarativa attinente alle modalità di comunicazione del documento, suscettibile di dare luogo ad una violazione meramente formale, bensì dell’inosservanza dell’obbligo dichiarativo, idoneo ad ostacolare l’attività di controllo.
4. Con il quarto motivo la contribuente lamenta la violazione dell’art. 7, commi 3 e 4 bis, d.lgs. n. 471 del 1997, per aver il giudice di appello ritenuto che ciascuna operazione realizzata in sospensione di imposta, in difetto della previa comunicazione all’Ufficio della dichiarazione di intenti, desse luogo a distinte violazioni tributarie, ciascuna delle quali autonomamente rilevanti sotto il profilo sanzionatorio.
4.1. La doglianza può essere esaminata congiuntamente all’unico motivo cui è affidato il ricorso principale, con cui si censura la sentenza di appello per violazione e falsa applicazione degli artt. 12, d.lgs. n. 472 del 1997, e 7, comma 4 bis, d.lgs. n. 471 del 1997, nella parte in cui ha ritenuto che si fosse in presenza di una pluralità di violazioni tributarie, in relazione all’emissione delle singole fatture regime di sospensione, e, conseguentemente, che fosse applicabile l’istituto del cumulo giuridico.
L’Agenzia sostiene, sul punto, che si era in presenza di un’unica condotta, da sanzionarsi con il recupero dell’imposta sospesa.
4.2. La società deduce, in proposito, con la memoria depositata ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c., che nelle more del giudizio la norma è stata ripetutamente modificata, dapprima con l’art. 20 d.lgs. n. 175 del 2014, poi con l’art. 15 d.lgs. n. 158 del 2015, e che, in forza delle modifiche intervenute, l’originario illecito deve ritenersi venuto meno, ovvero, in subordine, che la modifica ha valenza di interpretazione autentica in ordine all’identificazione della condotta sanzionata (non il mancato invio della dichiarazione ma l’effettuazione di operazioni in sospensione d’imposta senza preventivo invio della dichiarazione stessa).
In via di ulteriore subordine chiede, in ogni caso, l’applicazione dello ius superveniens più favorevole.
4.3. I motivi sono, nei limiti che seguono, fondati.
4.4. Preliminarmente appare necessario delineare il contenuto e la portata della originaria previsione di cui all’art. 7, comma 4 bis, d.lgs. n. 471 del 1997, nel testo vigente all’epoca dei fatti.
La norma stabiliva che «È punito con la sanzione prevista nel comma 3 il cedente o il prestatore che omette di inviare, nei termini previsti, la comunicazione di cui all’articolo 1, comma 1, lettera c), ultimo periodo, del decreto-legge 29 dicembre 1983, n. 746, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 1984, n. 17, o la invia con dati incompleti o inesatti».
Il richiamato terzo comma, dettato per disciplinare il regime sanzionatorio di coloro che effettuano operazioni senza addebito d’imposta, in mancanza della dichiarazione d’intento, prevede, poi, la sanzione «dal cento al duecento per cento dell’imposta».
Dall’esame letterale e sistematico delle due disposizioni si desume che la condotta rilevante era costituita dall’omessa comunicazione della dichiarazione («omette di inviare … la comunicazione»), che, ai sensi dell’art. 1, primo comma, lett. c), d.l. n. 746 del 1983, doveva essere inviata («… entro i termini previsti…») se l’operazione era unica «prima dell’effettuazione della operazione», mentre, in caso di pluralità di operazioni tra le stesse parti, «entro il giorno 16 del mese successivo», che, dunque, costituiva un’unica ed unitaria violazione tributaria.
Non è condividibile, pertanto, quanto sostenuto dalla Commissione regionale – e qui ripreso dalla contribuente – per cui ogni operazione effettuata in regime di sospensione di imposta non preceduta dalla comunicazione della dichiarazione di intento costituiva autonoma violazione tributaria, sì da individuare tante violazioni quante sono le operazioni in tal modo effettuate. Ciò, infatti, si può verificare solo in caso di operazioni singole mentre, in caso di pluralità di operazioni tra le stesse parti (come nella specie), vengono in rilievo tutte quelle effettuate nell’arco temporale normativamente stabilito.
L’individuazione normativa di una scadenza mensile ha peraltro l’effetto, contrariamente anche a quanto sembra sostenere l’Ufficio, di delimitare temporalmente l’obbligo di invio della comunicazione, sicché ove la condotta omissiva si protragga per un periodo di diversi mesi si avranno tante violazioni quanti sono i termini maturati per la regolare trasmissione della stessa, violazioni tra le quali, ove ne ricorrano i presupposti, potrà trovare applicazione il cumulo giuridico ex art. 12, d. lgs. n. 471 del 1997.
Va parimenti disattesa, infine, la considerazione, dedotta dalla contribuente, secondo cui l’illecito si consumerebbe solo con la prima fatturazione in sospensione «costituendo le ulteriori fatturazioni solo un post factum non punibile». È evidente, infatti, che in caso di pluralità di operazioni in sospensione tutte queste concorrono a determinare la condotta punibile con riguardo sia al precetto (posto che ne consegue l’individuazione del termine per l’adempimento dell’obbligo di legge), sia alla determinazione della sanzione, che deve essere commisurata all’entità complessiva dei tributi per le operazioni non comunicate nell’intervallo rilevante.
Ne deriva, pertanto, che, nella vicenda in giudizio, riguardando l’omesso invio le operazioni dal 1° maggio al 31 agosto 2007 (effettuato solo in data 9 novembre 2007), occorreva considerare unitariamente le complessive operazioni compiute mese per mese in quanto generatrici di separate violazioni.
Solo tra queste, e non in relazione alle singole operazioni, era poi, in ipotesi, applicabile il cumulo giuridico per concorso formale omogeneo.
5. Le considerazioni ora esposte, tuttavia, vanno riguardate alla luce dei plurimi interventi normativi che, nelle more del giudizio, hanno interessato la disciplina in questione, incidendo, in termini obbiettivi, non solo sulla sanzione ma anche su elementi strutturali dell’illecito.
Occorre infatti valutare se, per effetto dei suddetti interventi, si sia verificata una ipotesi di abolitio ovvero se vi sia stata una successione di norme, nonché, ove ricorra tale seconda evenienza, quale possa essere la disciplina più favorevole.
5.1. Per meglio chiarire i termini della questione è opportuno, in primo luogo, evidenziare la successione delle modifiche e la loro portata:
a) il testo vigente all’epoca dei fatti, già su riprodotto, prevedeva:
«4-bis. È punito con la sanzione prevista nel comma 3 il cedente o il prestatore che omette di inviare, nei termini previsti, la comunicazione di cui all’articolo 1, comma 1, lettera c), ultimo periodo, del decreto-legge 29 dicembre 1983, n. 746, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 1984, n. 17, o la invia con dati incompleti o inesatti».
b) il testo modificato con l’art. 20 d.lgs. 175 del 2014 (vigente dal 1° gennaio 2015) ha invece previsto:
«4-bis. È punito con la sanzione prevista nel comma 3 il cedente o prestatore che effettua cessioni o prestazioni, di cui all’articolo 8, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, prima di aver ricevuto da parte del cessionario o committente la dichiarazione di intento e riscontrato telematicamente l’avvenuta presentazione all’Agenzia delle entrate, prevista dall’articolo 1, comma 1, lettera c), del decreto-legge 29 dicembre 1983, n. 746, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 1984, n. 17».
L’ultimo comma della norma, invero, ha dettato una disposizione transitoria, prevedendo cha la disposizione si applica «alle dichiarazioni d’intento relative ad operazioni senza applicazione dell’imposta da effettuare a decorrere dal Io gennaio 2015».
c) il testo modificato, pochi mesi dopo, con l’art. 15, d.lgs. n. 159 del 2015, ha poi previsto:
«4-bis. E’ punito con la sanzione amministrativa da euro 250 a euro 2.000 il cedente o prestatore che effettua cessioni o prestazioni, di cui all’articolo 8, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, prima di aver ricevuto da parte del cessionario o committente la dichiarazione di intento e riscontrato telematicamente l’avvenuta presentazione all’Agenzia delle entrate, prevista dall’articolo 1, comma 1, lettera c), del decreto-legge 29 dicembre 1983, n. 746, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 1984, n. 17».
Anche qui, tuttavia, l’art. 32, comma 1, d.lgs. n. 159 del 2015, ha espressamente previsto che «Le disposizioni di cui al Titolo II [ossia gli artt. 15 e 16] del presente decreto si applicano a decorrere dal Io gennaio 2016».
d) infine, il legislatore, in tempi molto recenti, è nuovamente intervenuto con l’art. 12 septies d.l. n. 34/2019 (vigente dal Io gennaio 2020):
«4-bis. È punito con la sanzione prevista al comma 3 il cedente o prestatore che effettua cessioni o prestazioni, di cui all’articolo 8, primo comma, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, senza avere prima riscontrato per via telematica l’avvenuta presentazione all’Agenzia delle entrate della dichiarazione di cui all’articolo 1, comma 1, lettera c), del decreto-legge 29 dicembre 1983, n. 746, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 1984, n. 17».
Pure rispetto a quest’ultimo intervento il legislatore ha stabilito una disciplina transitoria poiché l’art. 12 septies, comma 4, d.l. n. 34 del 2019 dispone che la disposizione si applica «a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto».
Per mera completezza va pure ricordato che il legislatore è nuovamente intervenuto sull’art. 7 d.lgs. n. 471 del 1997 con la l. n. 178 del 2020, senza, tuttavia, modificare il comma 4-bis.
5.2. Da questa ricognizione emerge, quindi, che il legislatore ha escluso l’applicabilità per il passato delle modifiche intervenute attesa la specifica previsione di una disciplina temporale.
Tale indicazione, peraltro, non preclude l’applicazione delle novelle alle fattispecie anteriori se il nuovo regime risulti in concreto più favorevole (v., ex multis, Cass. n. 14848 del 13/07/2020).
Occorre dunque valutare se la “nuova” fattispecie si ponga in termini di soluzione di continuità rispetto al passato (rendendo irrilevante o legittima la pregressa condotta) ovvero se le modifiche non ne abbiano mutato il disvalore sì da lasciare inalterata la punibilità della condotta, salva, in ipotesi, l’applicazione del diverso (e più favorevole) regime sanzionatorio.
6. Appare necessario, pertanto, individuare i confini tra abolitio e successione di norme.
6.1. L’art. 3 d.lgs. n. 472 del 1997 ha introdotto, in materia sanzionatoria tributaria, il generale principio del favor rei di origine penalistica, prevedendo che:
«1. Nessuno può essere assoggettato a sanzioni se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione.
2. Salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile. Se la sanzione è già stata irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si estingue, ma non è ammessa ripetizione di quanto pagato.
3. Se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo».
6.2. La norma pone regole tra loro strettamente concatenate e in reciproco rapporto.
Il primo comma, in particolare, impone che il fatto è punibile solo se è previsto, come tale, da una legge esistente al momento della sua realizzazione.
Il secondo comma fonda la sua regola su questo assunto: prima il fatto era punibile, poi non è più tale perché la legge è cambiata. Se il pagamento della sanzione è già stato compiuto è esclusa ogni ripetizione; altrimenti, non si può procedere alla riscossione.
Il terzo comma porta a compimento il percorso logico così avviato: il fatto resta punibile perché tale era sia nella precedente legge che nella successiva. Ciò avviene quando tra le due norme – rispetto al fatto – vi è un rapporto di specialità.
Il rapporto di specialità, poi, sta ad indicare che l’ambito occupato dalle due norme può variamente articolarsi, per cui, in concreto può anche verificarsi – in un rapporto tra genere e specie ed entrambe le norme siano speciali ovvero la norma precedente sia generale e quella successiva speciale – una abrogazione parziale per quella parte delle condotte che non sia più illecita.
In altri termini, non vi è integrale abolizione quando la fattispecie prevista dalla legge successiva rientrava già nell’ambito di quella precedente.
6.3. Ad una tale analisi – che guarda alla struttura delle fattispecie che si sono succedute – si può cumulare, in ¡specie quando ci si trovi di fronte ad un fenomeno esclusivamente abrogativo, una valutazione che tenga conto di criteri sostanziali, ossia se, in relazione al bene giuridico tutelato, il legislatore abbia conservato una notazione di disvalore e non sia, dunque, pervenuto ad una considerazione di totale inoffensività e di liceità della condotta.
Su tale aspetti, invero, appare utile richiamare gli orientamenti espressi dalle Sezioni Unite penali sulla parallela problematica relativa all’art. 2, comma 3, c.p.
Secondo una prima pronuncia, infatti, «deve riconoscersi un fenomeno successorio … quando, all’esito della comparazione e del raffronto tra gli elementi strutturali del contenuto normativo delle fattispecie incriminatrici, persiste, anche se mutato, il giudizio di disvalore astratto per effetto di un nesso di continuità ed omogeneità delle rispettive previsioni, e il significato lesivo del fatto storico sia riconducibile nel suo nucleo essenziale, secondo le regole proprie del concorso apparente di norme, ad una diversa e più mite categoria d’illecito, tuttora penalmente rilevante, nonostante ed anzi proprio in conseguenza dell’intervento legislativo che, benché formalmente abrogativo, di fatto modifica l’ambito di applicabilità della previgente e diversa norma incriminatrice» (Cass. Sez. U. penali n. 27 del 25/10/2000, Di Mauro, relativa, tra l’altro, ad illeciti tributari).
Tale affermazione è stata poi oggetto di ulteriore chiarimento da Cass. Sez. U. penali n. 25887 del 26/03/2003, G. e altri, che ha precisato che «il criterio normale deve essere quello che porta a ricercare un’area di coincidenza tra le fattispecie previste dalle leggi succedutesi nel tempo, senza che sia necessario rinvenire conferme della continuità attraverso criteri valutativi» poiché «nell’ipotesi di sostituzione, formale o sostanziale, di una disposizione incriminatrice la nuova disposizione esprime di per sé un giudizio di disvalore che giustifica una conclusione di continuità».
6.3. Coerente con tali conclusioni è la giurisprudenza della Corte in tema di sanzioni amministrative tributarie e applicabilità del principio del favor rei.
Significativa, in tal senso, è la valutazione in tema di successione del regime sanzionatorio in materia di benefici per la prima casa atteso che si è ritenuto che la modifica dell’art. 21, Tabella A, Parte II, allegata al d.P.R. n. 633 del 1972 operata con l’art. 33 d.lgs. n. 175 del 2014, nel sancire il superamento del criterio di individuazione dell’immobile di lusso (che è stato collegato alla categoria catastale) pur non facendo venire meno l’imposizione ha, tuttavia, «cancellato dall’ordinamento» l’elemento (ossia che l’immobile non aveva caratteristiche di lusso ai sensi del dm 2 agosto 1969) «costituente elemento normativo della fattispecie», sì da determinare, in base al regime sopravvenuto, che «l’agevolazione ben potrebbe sussistere (in assenza di iscrizione nelle categorie catastali ostative) anche in capo ad immobili abitativi in ipotesi connotati dalle caratteristiche la cui mancata o falsa dichiarazione ha costituito il motivo della sanzione» (Cass. n. 13235 del 27/06/2016; Cass. n. 9492 del 12/04/2017; Cass. n. 32304 del 13/12/2018; da ultimo Cass. n. 1164 del 21/01/2021).
Nella stessa prospettiva si è sottolineato «come, ai fini di una eventuale “abolitio criminis”, non sia sufficiente una mera modifica (mediante riduzione, aumento od accorpamento) dei termini e delle scadenze connesse alle modalità di effettuazione dei versamenti dell’imposta, atteso che in tali casi rimane comunque immutata sia la condotta materiale descritta della norma sanzionatoria (omesso o ritardato pagamento), sia l’interesse la cui offesa la sanzione intende reprimere» (Cass. n. 25754 del 5/12/2014).
Assume rilievo, dunque, che, al di là delle modifiche intervenute, vi sia una sostanziale continuità strutturale degli elementi costitutivi delle diverse previsioni che si sono succedute nel tempo, tra loro in rapporto di identità o, quanto meno, di continenza per essere quelli previsti dalla nuova disciplina già tutti compresi in quella precedente.
7. Alla luce dei principi esposti occorre dunque porre a confronto le disposizioni in questione con riguardo al testo precedente e posteriore alla modifica operata con l’art. 20 d.lgs. n. 175 del 2014.
I successivi interventi, infatti, non hanno inciso in termini significativi sulla struttura della fattispecie.
7.1. Il dato saliente – e inalterato nonostante tutte le modifiche – è la persistenza dell’obbligo di inviare all’Ufficio la dichiarazione di intenti. L’omesso invio della relativa comunicazione, infatti, è tuttora oggetto di obbligo e di sanzione in caso di inottemperanza.
Cambia, tuttavia, il soggetto obbligato.
Mentre fino al 2014 era il fornitore (il cedente o il prestatore) tenuto ad inviare la comunicazione all’Ufficio, con la novella l’obbligo cade direttamente sull’esportatore, ossia su colui che è, in concreto, il reale e primo interessato all’operazione estera.
Va osservato, infatti, che quest’ultimo è sempre stato il soggetto destinatario dell’obbligo di emettere la dichiarazione d’intento, che doveva essere trasmessa al fornitore, il quale doveva provvedere all’invio telematico della comunicazione dell’avvenuta presentazione (art. 1, comma primo, lett. c), d.l. n. 746 del 1983).
La novella del 2014, dunque, ha, su questo punto, semplificato gli adempimenti: è l’autore della dichiarazione di intenti che deve provvedere ad inviare la comunicazione e non è più necessario che provveda, per esso, l’altro soggetto del rapporto.
Il fornitore, peraltro, se non è più tenuto ad inviare la suddetta comunicazione (contenente, tra l’altro, gli estremi della dichiarazione resa dall’esportatore), è, come in precedenza, egualmente destinatario della dichiarazione d’intenti da parte dell’esportatore (art. 1, comma primo, lett. c), d.l. n. 746 del 1983, pure oggetto di intervento con la novella del 2014) ed è tenuto a riscontrare telematicamente che essa era stata presentata all’Agenzia delle entrate.
7.2. Nella previsione post 2014 dunque due sono gli elementi di apparente novità:
a) il fornitore deve aver ricevuto la dichiarazione di intenti dalla sua controparte (insieme alla ricevuta telematica di inserimento);
b) il fornitore deve provvedere al riscontro, per via telematica, della presentazione della stessa da parte del cessionario o committente all’Agenzia delle entrate.
Il primo elemento, tuttavia, non costituisce una novità poiché la necessità dell’avvenuta trasmissione al cedente-prestatore da parte del cessionario-committente della dichiarazione di intenti era già indicata dall’art. 1, comma primo, lett. c), d.l. n. 746 del 1983 ed era presupposta dall’art. 7, comma 4-bis, cit. neppure potendosi ipotizzare l’invio di una comunicazione relativa ad un atto altrui in assenza dell’atto stesso. L’esplicita indicazione quindi integra solo l’emersione di un elemento già costitutivo della fattispecie.
Quanto al secondo elemento, va osservato che, nella vigenza della norma ante 2014, l’invio della comunicazione era già esaustivo di ogni riscontro.
Nel primo caso, infatti, l’attività che il cedente poneva in essere esauriva ogni incombente e informativa, includendo quali elementi necessari della fattispecie: l’avvenuto rilascio della dichiarazione; l’avvenuta trasmissione della stessa al cedente; la comunicazione all’Agenzia delle entrate della dichiarazione; l’indicazione degli estremi dell’atto ricevuto e così comunicato.
Nel secondo, il riscontro assolve solo ad alcuni di questi, ossia l’avvenuta trasmissione al cedente e la coerenza tra atto ricevuto e atto già comunicato all’Agenzia, del quale sono indicati gli estremi, perché gli altri elementi sono già nella sfera di conoscenza dell’Ufficio.
È evidente, d’altra parte, che il riscontro della conformità tra atto ricevuto e atto già comunicato era, logicamente e fattualmente, assorbito nella stessa indicazione degli estremi della dichiarazione, che non poteva riguardare altro che quella ricevuta dal cessionario.
Non solo, l’adempimento ora richiesto assolve alla medesima funzione di permettere all’Ufficio un controllo sull’attività che viene realizzata, controllo che, con riguardo al cedente-prestatore, non è più – in ciò la differenza di ordine quantitativo e non qualitativo – sul complesso di tutti gli adempimenti ma solo su una parte di essi.
Del resto – si può anche osservare – vuoi il fatto vuoi la sanzione (salve le modifiche successivamente intervenute) sono rimasti inalterati nel passaggio dall’una all’altra normativa: è stata semplicemente adottata – come si esprime la Relazione al decreto sulle semplificazioni attuato con il d.lgs. n. 175 del 2014 – «una diversa modalità di adempimento», che si è tradotta, per il cedente-prestatore, in una riduzione degli adempimenti a suo carico e non in una loro eliminazione.
7.3. Si può dunque ritenere che la vicenda integri una successione di norme, sì da escludere che, nel caso in esame, lo jus superveniens abbia determinato un fenomeno abrogativo della normativa originaria e, in applicazione dell’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 472 del 1997, la non punibilità del fatto.
Tra le fattispecie che si sono succedute nel tempo sussiste infatti un rapporto di continenza.
L’originario elemento materiale dell’illecito richiedeva una condotta caratterizzata dallo svolgimento di adempimenti più ampi rispetto a quelli previsti dalla fattispecie attualmente in vigore: prima era l’omissione globalmente considerata a costituire la condotta materiale; adesso sono le specifiche operazioni ancora addossate al medesimo soggetto passivo (ma incluse nell’insieme di quelle già prima oggetto di considerazione) ad integrare l’elemento costitutivo dell’illecito.
8. Vanno dunque affermati i seguenti principi di diritto: «in tema di sanzioni amministrative tributarie la sopravvenuta modifica della disciplina integra un fenomeno successorio quando, in esito alla comparazione tra gli elementi strutturali del contenuto normativo delle disposizioni, persiste un’area di coincidenza tra le fattispecie, tale per cui, al di là delle modifiche intervenute, vi sia una sostanziale continuità strutturale delle diverse previsioni che si sono succedute nel tempo, tra loro in rapporto di identità o, quanto meno, di continenza per essere gli elementi costitutivi previsti dalla nuova disciplina già tutti compresi in quella precedente» «la modifica dell’art. 7, comma 4-bis, d.lgs. n. 471 del 1997 ad opera dell’art. 20 d.lgs. 175 del 2014 non ha determinato una abolitio dell’illecito originariamente sanzionato nei confronti del cedente- prestatore, i cui adempimenti sono stati ridotti ma non eliminati dalla novella, sicché tra le due fattispecie normative sussiste un rapporto di continenza e di continuità».
9. La sentenza, dunque, va cassata con rinvio, anche per le spese, al giudice competente in diversa composizione che, in applicazione dei principi esposti, dovrà valutare l’applicazione dello ius superveniens in concreto più favorevole.
Ciò posto, si osserva, in primo luogo, che il principio del trattamento della legge favorevole in caso di successioni di leggi tributarie opera anche in riferimento alle ipotesi di ripetute innovazioni della medesima disciplina legislativa, per cui tra i diversi trattamenti sanzionatori previsti dalle leggi che si sono succedute troverà applicazione quello più favorevole per il contribuente (cfr. Cass. 25 novembre 2011, n. 24925; Cass. 8 marzo 2000, n. 2609).
In secondo luogo, ai fini dell’individuazione del regime più favorevole, occorrerà effettuare una valutazione in concreto delle diverse discipline sanzionatone nel loro complesso e non di singoli e specifici aspetti delle stesse e delle conseguenze effettivamente derivanti dall’applicazione dell’una o dell’altra norma.
Occorre rilevare, sul punto, che tale valutazione dovrà altresì tenere conto, ai fini della mitezza del regime, dell’applicabilità, e in quali termini, del cumulo giuridico ex art. 12 d.lgs. n. 472 del 1997 attesa l’avvenuta contestuale modifica dell’art. 1, primo comma, lett. c, d.l. n. 746 del 1983, con cui è stato soppresso il termine mensile in caso di operazioni plurime con la stessa parte ed è stata assegnata rilevanza diretta alle dichiarazioni in concreto effettuate e al loro contenuto (ossia se esse siano relative ad una sola operazione o a plurime operazioni).
11. All’accoglimento del ricorso principale e del quarto motivo del ricorso incidentale segue l’assorbimento dei residui motivi del ricorso incidentale in quanto strettamente dipendenti.
12. La sentenza impugnata va, dunque, cassata, con riferimento ai motivi accolti, e rinviata, anche per le spese, alla Commissione tributaria di secondo grado di Bolzano, in diversa composizione.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso principale e il quarto motivo del ricorso incidentale; rigetta il primo, secondo e terzo motivo del ricorso incidentale e dichiara assorbiti i motivi restanti; cassa la sentenza impugnata con riferimento ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria di secondo grado di Bolzano, in diversa composizione.