CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 maggio 2022, n. 15088

Tributi – IRPEF – Indennità per risarcimento danni – Lavoratore dipendente – Dirigente – Mancata adozione di programmi ed obiettivi incentivanti previsti dalla contrattazione collettiva – Risarcimento danni per perdita di chance di accrescimento professionale – Determinazione con riferimento al c.c.n.l. di settore – Esenzione

Fatti di causa

1. L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso, affidato ad un motivo, contro la dott.ssa P.M., avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Calabria, di cui all’ epigrafe, che – nella causa di impugnazione dell’avviso di accertamento che recuperava a tassazione IRPEF, per l’annualità 2009, quale reddito di lavoro dipendente, le somme riconosciute dall’Azienda sanitaria provinciale (“A.S.P.” subentrata alla A.S.L. n. 5) di Crotone al proprio dipendente, dirigente medico presso il medesimo Ente, a titolo di risarcimento del danno, in esecuzione di un accordo transattivo a conclusione di una causa, oggetto della pronuncia del Tribunale del lavoro di Crotone, che aveva condannato l’Azienda sanitaria a risarcire alla propria dipendente il danno derivante dalla violazione degli obblighi di cui all’art. 52 del c.c.n.l. (dell’08/06/2000), rimettendone la quantificazione ad un separato giudizio – nel contraddittorio dell’ufficio finanziario, ha accolto l’appello della contribuente avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Crotone, che aveva rigettato il ricorso introduttivo della medesima parte privata.

2. Per la C.T.R., la lite, transatta, tra la contribuente e l’A.S.P. riguardava il risarcimento del danno da perdita di chance di accrescimento professionale, come accertato dal giudice del lavoro, con la citata sentenza passata in giudicato, e, quindi, l’importo ricevuto dall’interessata è privo di rilievo fiscale, in linea con la giurisprudenza di legittimità, per la quale, in tema di imposte sui redditi, in base all’art. 6, comma 2, t.u.i.r., le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio sono soggette a imposizione soltanto se risultino destinate a reintegrare un danno da mancata percezione di redditi, mentre non costituiscono reddito imponibile nell’ipotesi in cui tendano a riparare un pregiudizio di natura diversa, come, appunto, quello da perdita di chance. È aspetto privo di rilievo, a giudizio della Commissione regionale, che ai fini della quantificazione in termini monetari del pregiudizio le parti abbiano richiamato l’art. 52 del c.c.n.l., che rappresenta un semplice meccanismo di determinazione dell’importo dovuto, ma non incide sulla qualificazione giuridica del danno.

3. La contribuente si è costituita con controricorso.

4. Ambedue le parti hanno depositato memoria.

Ragioni della decisione

1. Con l’unico motivo di ricorso [«Motivo 1: violazione e falsa applicazione degli artt. 6 e 51 dpr 917/1986 (art. 360, co. 1., n. 3, c.p.c.)»], l’Agenzia censura la sentenza impugnata perché avrebbe erroneamente negato che le somme pagate dall’A.S.P. alla contribuente fossero tassabili, senza considerare che esse erano state corrisposte, sulla base di un rapporto di lavoro, a titolo di risarcimento del danno da lucro cessante (o mancato guadagno) e che, in quanto tali, come pacificamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, erano soggette a tassazione (nella specie, a tassazione separata ex art. 17, comma 1, lett. b), t.u.i.r., perché percepite in anni successivi a quelli di competenza), in base al disposto dell’art. 6, comma 2, t.u.i.r.

Il motivo non è fondato.

1.1. È utile comporre, sinteticamente, nei seguenti termini, il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento:

(i) l’art. 6, comma 2, t.u.i.r., (“Classificazione dei redditi.”), quale norma di carattere generale, applicabile a tutte le tipologie di indennità (anche risarcitorie) sostitutive della retribuzione, così dispone: «I proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti, e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti […]»;

(ii) quanto all’esegesi della norma tributaria generale, la Corte ha chiarito che «In tema di imposte sui redditi, in base al dettato dell’art. 6, comma secondo, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio costituiscono reddito imponibile solo e nei limiti in cui abbiano la funzione di reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi. Pertanto, l’indennità corrisposta (in sede transattiva) dal datore di lavoro, a titolo di risarcimento del danno, per la reintegrazione delle energie psicofisiche […] spese dal lavoratore oltre l’orario massimo di lavoro da lui esigibile, non è assoggettabile a tributo.» (Cass. 21/06/2002, n. 9111, in connessione con Cass. 28/10/2000, n. 14241; in senso conforme, ex multis, Cass. 21/05/2007, 11682);

(iii) analoghi concetti giuridici sono stati espressi da questa sezione tributaria (così Cass. 29/12/2011, n. 29579) che, con specifico riferimento al danno da perdita di chance, prima, ha ribadito che «In tema di imposte sui redditi, in base all’art. 6, comma 2, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 […] le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio sono soggette a imposizione soltanto se, e nei limiti in cui, risultino destinate a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi»; ha quindi aggiunto che «[esse] non costituiscono reddito imponibile nell’ipotesi in cui […] tendano a riparare un pregiudizio di natura diversa»; ed ha concluso che (come risulta dalla massima ufficiale della sentenza) «non [è] tassabile il risarcimento ottenuto da un dipendente “da perdita di chance”, consistente nella privazione della possibilità di sviluppi e progressioni nell’attività lavorativa a seguito dell’ingiusta esclusione da un concorso per la progressione in carriera»;

(iv) tornando sull’argomento la Corte (cfr. Cass. 07/02/2019, n. 3632, che, in motivazione, menziona anche Cass. n. 29579/2011; in termini, Cass. 12/10/2018, n. 25471) ha recentemente spiegato che «il titolo al risarcimento del danno, connesso alla “perdita di chance”, non ha natura reddituale, poiché consiste nel ristoro del danno emergente dalla perdita di una possibilità attuale; ne consegue che la chance è anch’essa una entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile, la cui perdita produce un danno attuale e risarcibile, qualora si accerti, anche utilizzando elementi presuntivi, la ragionevole probabilità della esistenza di detta chance intesa come attitudine attuale (Cass. n. 11322/2003)», e, su tale base concettuale, addentrandosi nell’esame del motivo di ricorso, ha stabilito che «il ricorrente ha percepito il risarcimento per la perdita di possibilità conseguente ad irregolarità verificatesi nello svolgimento di un concorso interno per la promozione a funzionario; il giudice del lavoro ha riconosciuto al ricorrente il risarcimento del danno emergente (consistente appunto nella perdita delle possibilità ricollegate complessivamente alla progressione di carriera) e, per la quantificazione dell’importo dovuto, ha fatto ricorso al criterio di valutazione equitativa con riferimento al maggior stipendio non conseguito; tale criterio rileva ai limitati fini della determinazione del quantum e non è idoneo a mutare il titolo dell’attribuzione, la quale non è riconducibile all’art. 6 T.u.i.r., perché non ha natura reddituale e non è sostitutiva del reddito non percepito»;

(v) sulla scia di quest’ultima pronuncia, per Cass. 21/02/2019, n. 5108, sono assoggettabili a imposta le somme percepite dal lavoratore dipendente, a titolo di risarcimento del danno, se siano volte a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi (c.d. lucro cessante), mentre non sono assoggettabili a imposta quelle intese a riparare un pregiudizio di natura diversa (c.d. danno emergente). Tali princìpi sono stati enucleati anche dalla sezione lavoro della Corte (Cass. Sez. L, 03/02/2021, n. 2472), che ripropone la medesima distinzione: sono soggette a tassazione, tra le somme percepite dal lavoratore a titolo risarcitorio, soltanto quelle dirette a reintegrare il lucro cessante derivante dalla mancata percezione di redditi; sono invece fiscalmente esenti le somme liquidate a titolo di danno emergente.

1.2. Svolte queste premesse di carattere generale, in relazione al motivo di ricorso dell’ufficio finanziario, dagli atti di causa risulta che la ripresa tributaria è correlata al contenzioso promosso davanti al giudice del lavoro da numerosi dirigenti a tempo indeterminato, dipendenti dall’(ex) A.S.L. di Crotone (tra i quali l’odierno controricorrente), appartenenti ai ruoli “Medico e Veterinario”, per l’accertamento dell’inadempimento contrattuale dell’Azienda sanitaria rispetto all’intero meccanismo della “retribuzione di risultato”, prescritto dall’art. 52 del c.c.n.l. dell’08/06/2000 della dirigenza sanitaria, nonché al fine di ottenere il relativo risarcimento del danno.

In breve, i dirigenti lamentavano la mancata attivazione del sistema prescritto dalla contrattazione collettiva, che avrebbe consentito la corresponsione di cd. “compensi incentivanti” in base ai risultati raggiunti in relazione a programmi predeterminati. Al riguardo, il giudice del lavoro (in alcune pronunce coperte da giudicato) ha dichiarato l’inadempimento contrattuale dell’A.S.L., ha riconosciuto il diritto dei lavoratori al risarcimento del danno patito per effetto dell’inadempimento dell’ente, e, per quanto adesso rileva, ha precisato che, come risulta dal ricorso «il danno deve ravvisarsi sia sotto il profilo della lesione alla professionalità, essendo evidente che l’assenza di programmi ed obiettivi incentivanti comporti una perdita di chance di accrescimento professionale, sia sotto il profilo della perdita di chance relativa ad una componente, di natura accessoria, di retribuzione», demandandone la quantificazione a un separato giudizio.

1.3. Sulla questione è utile ricordare Cass., Sez. L. , 31/01/2018, n. 2462, la quale ha chiarito che, in materia di trattamento retributivo dei dirigenti: (a) la qualifica dirigenziale fonda la retribuzione base; (b) il livello di responsabilità attribuito con l’incarico di funzione fonda la cd. retribuzione di posizione; (c) l’apporto del dirigente in termini di produttività o redditività della sua prestazione fonda la cd. retribuzione di risultato. La retribuzione di risultato non è una voce automatica, ma è soggetta, per ciascun dirigente, a determinazione annuale, da effettuarsi solo a seguito della definizione, parimenti annuale, degli obiettivi e delle valutazioni degli organi di controllo interno, di cui al contratto collettivo. Nella specie, il Tribunale di Crotone ha accertato l’omessa attivazione di obiettivi/percorsi professionali e di consequenziali valutazioni dei risultati. Dalla carenza di un programma e di obiettivi incentivanti scaturisce quella perdita di chance di miglioramento attitudinale/dirigenziale e di valutazione (eventualmente positiva) dei risultati conseguiti con ricadute economiche. Si realizza, a ben vedere, una situazione affine a quella del demansionamento (sul punto cfr. Agenzia delle entrate, risposta ad interpello n. 185 dell’8 aprile 2022) o della precarizzazione (Cass., Sez. U.,15/03/2016, n. 5072), là dove l’attribuzione nummaria non è meramente sostitutiva della retribuzione, ma anzitutto ristora la lesione della capacità professionale del lavoratore. All’interno di questo perimetro giuridico, nel caso concreto, le parti hanno negoziato per transigere la vertenza in atto, donde la natura risarcitoria della somma attribuita (cfr. punto 2 dell’atto di transazione) «per mancato accesso dei ricorrenti all’istituto della retribuzione di risultato a causa della omessa attivazione da parte dell’azienda di tale istituto», che è poi la res litigiosa transatta, che il fisco ha inteso sottoporre a tassazione.

Pertanto, come argomentato anche dal Procuratore Generale, nel caso di specie, il Tribunale del lavoro aveva qualificato il danno patito dagli esponenti come conseguenza di una lesione della professionalità, comportante una perdita di chance di accrescimento professionale. Il danno non consisteva, quindi, nell’ immediata perdita di reddito, ma nella perdita della possibilità di conseguire quella maggiore qualificazione professionale, alla quale poi sarebbe conseguita anche una maggiore potenzialità reddituale.

Il danno immediato e diretto dunque, colpiva la posizione professionale dei ricorrenti; mentre la futura minore percezione di reddito ne costituiva solo una ricaduta ulteriore.

Pertanto, come argomentato anche dal Procuratore Generale, nel caso di specie, il Tribunale del lavoro aveva qualificato il danno patito dal contribuente come conseguenza di una lesione della professionalità, comportante una perdita di chance di accrescimento professionale.

Il danno non consisteva, quindi, nell’ immediata perdita di reddito, ma nella perdita della possibilità di conseguire quella maggiore qualificazione professionale, alla quale poi sarebbe conseguita anche una maggiore potenzialità reddituale. Il danno immediato e diretto dunque, colpiva la posizione professionale del contribuente; mentre la futura minore percezione di reddito ne costituiva solo una ricaduta ulteriore.

1.4. La C.T.R., senza infrangere alcuna norma di diritto, ha preso atto della qualificazione giuridica del danno, risultante dalla pronuncia del giudice del lavoro; dopodiché, in aderenza alla giurisprudenza della Corte, ha negato che fosse soggetta a tassazione la somma percepita dal lavoratore a titolo di risarcimento del danno da perdita di chance, con l’ulteriore notazione, anch’essa inappuntabile sul piano giuridico, che la natura del danno non è condizionata dal meccanismo lato sensu risarcitorio concretamente utilizzato, sicché non assume rilievo il richiamo all’art. 52 del c.c.n.l. ai fini della determinazione del quantum debeatur.

1.5. La soluzione del giudice tributario di appello collima con una recente decisione sezionale (cfr. Cass. Sez. 6-5, 11/02/2022, n. 4488) che, nel dirimere una lite del ridetto vasto contenzioso, ha disatteso il ricorso del fisco avverso la sentenza della C.T.R. della Calabria, (al pari di quella in esame) di accoglimento dell’appello del contribuente. Quest’ultimo condivisibile arresto nomofilattico va consolidato alla stregua del principio di diritto secondo il quale: «In tema di classificazione dei redditi ex art. 6, comma 2, t.u.i.r., le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio sono soggette a imposizione soltanto se, e nei limiti in cui, risultino destinate a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi (cd. lucro cessante), e non costituiscono reddito imponibile nell’ipotesi in cui esse tendano a riparare un pregiudizio di natura diversa (cd. danno emergente). Non è quindi tassabile il risarcimento del danno ottenuto dal lavoratore dipendente, anche in via transattiva, per la perdita di chance di accrescimento professionale (a causa dell’assenza di programmi ed obiettivi incentivanti), ed è irrilevante che, ai fini della determinazione del quantum debeatur, si faccia riferimento al c.c.n.l. di un certo comparto».

2. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

3. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

4. Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13 comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Cass. 29/01/2016, n. 1778).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna l’Agenzia delle entrate a pagare alla controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 1.500,00, a titolo di compenso, euro 200,00, per esborsi, oltre al 15 per cento, sul compenso, a titolo di rimborso forfetario delle spese generali, e agli accessori di legge. Spese distratte a favore dell’Avv. S.C., dichiaratosi antistatario.