CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 marzo 2019, n. 7057
Rapporto di lavoro – Demansionamento – Reintegra in una posizione lavorativa coerente con l’inquadramento posseduto
Fatti di causa
1. La Corte d’appello di Firenze, con sentenza del 15.7.2014, riformava la decisione emessa dal Tribunale di Montepulciano, che aveva respinto la domanda avanzata da L. S. nei confronti della C.C.I., soc. di consumo, a r. I., sul presupposto che sulla richiesta risarcitoria per demansionamento, già avanzata in precedente giudizio, fosse intervenuto il giudicato e che comunque doveva escludersi la dedotta adibizione della lavoratrice a mansioni inferiori.
2. La Corte riteneva fondato il gravame e condannava parte datoriale al risarcimento del danno, in favore della S., nella misura di euro 15.000,00, oltre accessori di legge, osservando che la seconda controversia – seguita a quella conclusasi con sentenza della Corte di appello di Firenze, confermativa del ritenuto demansionamento e della disposta condanna del datore di lavoro alla reintegra in una posizione lavorativa coerente con l’inquadramento posseduto – aveva ad oggetto il nuovo demansionamento operato in esito alla sentenza dell’11.12.2008 del Tribunale di Montepulciano.
3. Riteneva che non si fosse formato alcun giudicato sulla richiesta dei danni da demansionamento, per essere la seconda controversia relativa all’impugnativa dell’atto gestorio della società con il quale la lavoratrice era stata, ancora una volta, nonostante la ritenuta illegittimità dell’adibizione ad una struttura di minore importanza, assegnata ad un negozio, in Rapolano, di fascia inferiore rispetto a quella propria del dipendente con qualifica pari a quella rivestita.
4. Osservava che il comando giudiziale della prima sentenza si era sostanziato nell’ordine di adibire la lavoratrice a mansioni di capo negozio sulla base del livello di appartenenza e che pertanto la S. aveva diritto ad essere assegnata quale capo negozio ad una struttura di pari livello rispetto a quella di originaria destinazione.
5. Rilevava che la distinzione anche economica fra i diversi capi negozio era ricavabile dalla lettura del contratto integrativo aziendale, che riportava l’elenco delle strutture, distinguendole a seconda delle dimensioni ed operava una distinzione tra la preposizione ad una struttura di dimensioni maggiori o minori, quest’ultima caratterizzata anche da promiscuità di mansioni. Nello specifico doveva ritenersi evidente l’avvenuta dequalificazione, con conseguente diritto della lavoratrice ad un ulteriore risarcimento per il periodo durante il quale aveva lavorato rivestendo mansioni inferiori.
6. Quanto al danno – che veniva ritenuto dimostrato in base a presunzioni – ne veniva determinato l’ammontare con riferimento alle voci retributive rapportate alla dimensione del negozio, alla durata del demansionamento ed alla cifra retributiva della lavoratrice.
7. Di tale decisione ha domandato la cassazione la CCI, affidando l’impugnazione a sei motivi, cui ha resistito, con controricorso, la S.
8. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, la società ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione della normativa contrattuale collettiva applicabile e, in particolare, dell’art. 2 dell’accordo sindacale aziendale (3.2.2009), dell’art. 1372 c. c., dell’art. 39, comma 1, Cost., dell’art. 2103 c.c. dell’art. 111, 6° co., Cost., in relazione all’art. 360, n. 3, c. p.c., sostenendo che la Corte di appello abbia eluso il contenuto della normativa successiva al comando giudiziale del dicembre 2008, ossia di quella in vigore dal luglio 2009 al dicembre 2011 (accordo sindacale definito il 3.7.2009 e stipulato il 20.7.2009), che prevedeva la mobilità del Capo negozio per la copertura di necessità all’interno della Rete di vendita per tutti i Capi negozio inquadrati al I e II livello in tutte le tipologie di supermercati, sia della Rete Coop. che della Rete Incoop. Osserva che il concetto di equivalenza di mansioni di cui all’art. 2103 c.c. non possa essere apprezzato se non in relazione alla valutazione che della natura e rilevanza delle mansioni hanno dato le parti sociali, sia in sede nazionale che nell’ambito della contrattazione di prossimità, in sede aziendale, e che l’adibizione della lavoratrice ad un punto vendita di fascia B (inferiore alla fascia C) dimostrava che il suo inquadramento nel I livello era stato meramente convenzionale, cioè premiale, in quanto non corrispondeva, ai sensi del c.c.n.I., allo svolgimento di funzioni di I livello. Peraltro, le parti collettive già nel 2003, ma con disposizione sostanzialmente ribadita nel 2009, avevano previsto la mobilità dei capi negozio all’interno della rete di vendita in relazione a quelli inquadrati ai livelli I e II, ossia meccanismi di fungibilità funzionale tra le mansioni, per sopperire alle esigenze aziendali, senza incorrere nelle sanzioni della nullità comminata dal 2° comma dell’art. 2103 c.c.. Richiama il meccanismo analogo previsto dall’art. 46 c.c.n.I. 26.11.1194 per i dipendenti postali, recante il principio di intercambiabilità delle mansioni, con esclusione delle mansioni tecniche, all’interno della stessa area operativa. Assume che il giudice del gravame abbia richiamato l’accordo aziendale solo parzialmente, senza la parte in cui era stabilita l’alternanza dei Capi negozio inquadrati nel I e II livello in tutte le tipologie di supermercati, il che consentiva l’assegnazione della S. dal luglio 2009 alle mansioni di Capo negozio del supermercato di Rapolano.
2. Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c. c., in relazione all’art. 360, n. 3. c.p.c., deducendo che la previsione contrattuale aziendale era tale da consentire la disposta adibizione, per essere la stessa norma contrattuale applicabile nel periodo in considerazione.
3. Con il terzo motivo, si ascrive alla sentenza impugnata l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dallo stesso accordo non esaminato, per quanto decisivo, dalla Corte del merito.
4. Il quarto motivo si fonda sulla dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 429 e 430 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c., sostenendo la società che la sentenza del Tribunale di Montepulciano del 11.12.2008 non poteva pregiudicare gli sviluppi della regolamentazione normativa successiva, sicché quella applicabile doveva ritenersi la più recente del 3/20.7.2009, indipendentemente dalla statuizione emessa nel dicembre 2008, ed osservando che il dispositivo della sentenza di primo grado della precedente controversia aveva fatto salvo l’esercizio dello jus variandi da parte della Cooperativa, disponendo in termini generali la condanna della convenuta alla reintegrazione nelle mansioni di capo negozio. Non poteva ritenersi che il dispositivo della sentenza n. 41/2008 contenesse comandi ulteriori, lasciando invece impregiudicata la questione di quale fosse il negozio o tipo di negozio in cui potesse avvenire la reintegrazione.
5. Con il quinto motivo, ci si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 111, comma 6, Cost. e degli artt. 132 e 156, 2° comma, c.p.c., dell’art. 118, 1° comma, disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c., sostenendosi un’omessa motivazione con riguardo alt’ unitaria liquidazione del danno patrimoniale e non patrimoniale, cumulando danni del tutto diversi in un’unitaria determinazione.
6. omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., è, infine, dedotto nel sesto motivo, con riguardo all’assunta mancata considerazione della circostanza che la S. aveva già conseguito nel precedente giudizio importi sia per il danno permanente “esistenziale”, sia per quello, parimenti considerato permanente, alla professionalità.
7. Le censure di cui ai motivi esposti sono in parte inammissibili ed in parte infondate.
8. Quanto al primo motivo, occorre rilevare, come dato pacificamente emergente dalla sentenza, dal ricorso e controricorso, che l’assegnazione della lavoratrice, era avvenuta precedentemente al 3 luglio 2009 (5.6.2009) e che, come si evince dalla narrativa dei fatti processuali contenuta in ricorso (pag. 10), il contratto integrativo richiamato dalla lavoratrice e preso in esame nella sentenza 30/2012 del Tribunale di Montepulciano e quindi dalla sentenza della Corte di appello qui impugnata è quello del 7.2.2003, applicabile ratione temporis, per essere il successivo entrato in vigore il 3/20.7.2009;
9. Il contratto aziendale del 7.2.2003, benché richiamato in ricorso, non risulta depositato, né se ne indica la sede di rinvenimento. Non risulta, infatti, specificata l’allocazione dello stesso negli atti dei gradi di merito, con ciò contravvenendosi ai principi di specificità e autosufficienza, che impongono di indicare nel ricorso il contenuto rilevante dei documenti stessi, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali ed assolvendo, così, il duplice onere, rispettivamente previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (a pena di improcedibilità del ricorso), nel rispetto del relativo scopo, che è quello di porre il Giudice di legittimità in condizione di verificare la sussistenza del vizio denunciato senza compiere generali verifiche degli atti e soprattutto sulla base di un ricorso che sia chiaro e sintetico (Cass. SU 11/4/2012, n. 5698; Cass. SU 3/11/2011, n. 22726).
10. In ordine al secondo motivo, vale quanto osservato al precedente paragrafo 8 in merito all’ assegnazione della lavoratrice alle mansioni capo negozio di Rapolano in data 5.6.2009, quindi precedentemente all’entrata in vigore del nuovo contratto aziendale; in ogni caso nulla è addotto dalla ricorrente in ordine alla necessità aziendale di collocare la lavoratrice in struttura di dimensioni non adeguate alla figura professionale della lavoratrice. A livello di onere di allegazioni e probatorio, in materia di demansionamento (o dequalificazione), il lavoratore è tenuto a prospettare le circostanze di fatto volte a dare fondamento alla denuncia ed ha, quindi, l’onere di allegare gli elementi di fatto significativi dell’illegittimo esercizio del <r potere datoriale, e non anche quelli idonei a dimostrare in modo autosufficiente la fondatezza delle pretese azionate, mentre il datore di lavoro è tenuto a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti posti dal lavoratore a fondamento della domanda e può allegarne altri, indicativi del legittimo esercizio del potere direttivo, fermo restando che spetta al giudice valutare se le mansioni assegnate siano dequalificanti, potendo egli presumere, nell’esercizio dei poteri, anche officiosi, a lui attribuiti, la fondatezza del diritto fatto valere anche da fatti non specificamente contestati dall’interessato, nonché da elementi altrimenti acquisiti o acquisibili al processo (cfr. Cass. 8.7.2014 n. 15527, Cass. 3.3.2016 n. 4211).
11. Quanto al terzo motivo, la deduzione del vizio enunciato non fa riferimento ad un fatto decisivo che avrebbe sicuramente condotto ad una decisione di diverso segno, essendosi al cospetto di una valutazione complessiva della vicenda fattuale, rispetto alla quale la deduzione di omesso esame non trova spazio in relazione ad una prospettazione che non è conforme alla previsione dell’art. 360, n. 5 c.p.c. nella interpretazione fornitane da questa Corte (cfr. Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439); peraltro, è dirimente la considerazione che l’individuazione dell’accordo applicabile non integra di per sé un fatto, così come l’attività interpretativa dello stesso accordo.
12. E’ quindi inconfigurabile la denunciata omissione di esame di un fatto storico, tanto meno decisivo, ponendosi la critica rivolta alla decisione al di fuori del paradigma devolutivo e deduttivo del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.
13. La questione sollevata nel quarto motivo è prospettata con richiamo a principi che sono in contrasto con quanto reiteratamente affermato da questa Corte sulla rilevanza anche della motivazione della sentenza in sede interpretativa del comando giudiziale (cfr. Cass. 18.1.2007 n. 1093, Cass. 8.6.2007 n. 13513, Cass. 28.10.2011 n. 22520). Vero è che Cass. 26.10.2010 n. 21885 afferma che le proposizioni contenute in motivazione contrastanti con il dispositivo non possono essere prese in esame e si considerano non apposte, ma questo rileva in caso di contrasto tra motivazione e dispositivo, che nella specie non sussiste. Va, poi, rilevato che la ricorrente non ha neanche depositato le sentenze relative al precedente giudizio, dovendo richiamarsi quanto precisato al precedente paragrafo 9 in tema di autosufficienza e specificità del ricorso con riferimento all’assolvimento degli oneri a tali principi connessi.
14. Con riguardo al vizio dedotto nel quinto motivo, è sufficiente osservare che non è ravvisabile nella specie un’omessa motivazione, perché la motivazione vi è, ma piuttosto se ne contesta inammissibilmente il contenuto. In tema di dequalificazione professionale, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno, di natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, ai sensi dell’art. 2729 c.c., attraverso la valorizzazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti allegati dal lavoratore, relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (Cass. 19778 del 19/09/2004, Cass. 15.10.2018 n. 25743, Cass. 12.6.2015 n. 12253, Cass. 19.9.2014 n. 19778).
15. La categoria generale del danno non patrimoniale presenta natura composita, articolandosi in una serie di aspetti o voci, aventi funzione meramente descrittiva (cfr. Cass. 15.1.2014 n. 687), quali il danno morale, quello biologico e quello esistenziale, dei quali – ove essi ricorrano cumulativamente – occorre tenere conto in sede di liquidazione, in ossequio al principio dell’integralità del risarcimento, senza che a ciò osti il carattere unitario della liquidazione, da ritenere violato solo quando lo stesso aspetto o voce venga computato due o più volte sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni. Al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato ovvero sia stato erroneamente sottostimato, rileva non il “nome” assegnato dal giudicante al pregiudizio lamentato dall’attore -“biologico”, “morale”, “esistenziale”- ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice. Si ha, pertanto, duplicazione di risarcimento solo quando il medesimo pregiudizio sia liquidato due volte, sebbene con l’uso di nomi diversi, in adesione al principio di unitarietà del danno non patrimoniale, sancito dalla sentenza n. 26972 del 2008 delle Sezioni Unite della stessa Corte, che impone una liquidazione unitaria del danno e non una considerazione atomistica dei suoi effetti. Rispetto ai criteri delineati in tali pronunce la censura della società è priva del necessario carattere della specificità, non contenendo alcuna precisazione idonea a scalfire in parte qua la decisione impugnata.
16. L’addotta inesistenza di un nuovo danno permanente, per essere lo stesso già stato oggetto di valutazione e liquidazione nel precedente giudizio, mal si concilia, infine, con la ritenuta diversità del nuovo demansionamento, evidenziata dalla Corte di Firenze e la questione implica una valutazione incompatibile con il vizio denunziato che attiene alla prospettazione di un omesso esame di un fatto.
17. Alla stregua delle svolte considerazioni, il ricorso va complessivamente rigettato.
18. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo:
19. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d. P.R. 115 del 2002;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la società al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 5000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie nella misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art.13, comma Ibis, del citato D.P.R.
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