CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 novembre 2021, n. 33809

Dirigente – Licenziamento – Violazione dell’obbligo di fedeltà – Partecipazione a prove tecniche di campioni di prodotto concorrente

Fatto

1. Con sentenza del 27 (notificata il 31) marzo 2017, la Corte d’appello di Torino rigettava la domanda risarcitoria proposta da A.T.A. s.r.l., per voci patrimoniali varie, di oltre € 1.200.000,00 e per danno all’immagine e alla reputazione professionale da liquidare in via equitativa, nei confronti dell’ing. A.T. (suo dipendente dal marzo 2007 quale dirigente con mansioni di direttore commerciale e dal 2012 anche responsabile dell’area calzature per Toscana e Lombardia, inaspettatamente dimessosi per ragioni familiari il 2 settembre 2013) e condannava la società datrice al pagamento, in favore del predetto a titolo di indennità di mancato preavviso, della somma di € 23.833,33 lordi oltre rivalutazione e interessi dalla cessazione del rapporto: così riformando la sentenza di primo grado, che aveva invece condannato il dirigente al pagamento, in favore della società a titolo risarcitorio, della somma di € 370.000,00 oltre rivalutazione e interessi dalle date di maturazione del credito e rigettato la domanda riconvenzionale del lavoratore.

2. In merito agli addebiti di violazione dell’obbligo di fedeltà del dipendente negli anni 2012 e 2013 (in particolare: suo coinvolgimento nella cancellazione del logo K. serigrafato sui rotoli dei nastri; fornitura di ingenti quantità di nastri B gratuitamente o a prezzo di costo all’agente AS Rappresentanze in Toscana e al distributore B. in Lombardia, per agevolare la vendita del nastro A contraffatto, tramite l’abbinamento con il nastro B originale; relazioni con soggetti in concorrenza con ALC; rivelazione a terzi di informazioni tecniche sui metodi di produzione aziendali; partecipazione a prove tecniche di campioni di prodotto concorrente; omessa segnalazione ai vertici aziendali della perdita di clientela e di calo di fatturato in Toscana e in Lombardia), al contrario del Tribunale, la Corte territoriale escludeva l’esistenza di prova alcuna.

3. E ciò sia per l’inutilizzabilità delle conversazioni illegittimamente acquisite dalla società datrice, una volta riconsegnato dal dipendente il computer aziendale in dotazione, sul suo account privato Skype, in violazione della segretezza della corrispondenza (tale essendo anche quella informatica o telematica) e pure della password personale di accesso del lavoratore, mai avendo la società ritenuto di fornirne una aziendale, nonostante l’impiego dell’applicativo Skype anche per lo svolgimento dell’attività lavorativa: non potendo tali comportamenti, in difetto di consenso dell’interessato, essere giustificati dall’art. 24 d.lg. 196/2003 (Codice della Privacy), in assenza di attualità e diretta strumentalità all’esercizio o alla tutela di un diritto in sede giudiziaria; sia per inidoneità delle risultanze istruttorie, in esito a loro critico ed argomentato scrutinio, al coinvolgimento del dirigente negli illeciti suindicati.

4. Infine, la Corte subalpina riconosceva al predetto il diritto all’indennità di preavviso (nell’importo richiesto con la domanda riconvenzionale, siccome incontestato), avendo egli manifestato, al di là della propria preferenza per una cessazione anticipata del rapporto per le dimissioni rassegnate per ragioni familiari, la disponibilità a lavorare l’intero periodo; avendolo poi la società datrice unilateralmente da ciò esonerato.

5. Con atto notificato il 29 maggio 2017, la società ricorreva per cassazione con cinque motivi, cui il lavoratore resisteva con controricorso e memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

6. Il P.G. rassegnava conclusioni scritte, a norma dell’art. 23, comma 8bis d.l. 137/20 inserito da I. conv. 176/20, nel senso dell’inammissibilità o del rigetto del ricorso.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 15 Cost., 616 c.p., disposizioni del d.lg. 196/2003, per la legittima attività di recupero dei documenti, dati e informazioni contenuti, e dolosamente cancellati dal dirigente prima della riconsegna, nei dispositivi aziendali (in particolare, nel computer) datigli in dotazione e pure integranti patrimonio aziendale, dopo la cessazione del rapporto di lavoro e quindi rientrati nella disponibilità giuridica della società, lasciati dallo stesso dirigente impressi sul computer, afferenti l’attività lavorativa e scambiati dal predetto con altri referenti della rete commerciale, attraverso l’applicativo Skype ordinariamente utilizzato dai dipendenti attraverso la rete internet aziendale: pertanto non integrante incursione in una corrispondenza privata “chiusa”; dovendosi infine ritenere la neutralità della password di accesso a Skype, siccome non finalizzata alla protezione di dati personali ma relativa a comunicazioni aziendali, al pari di quella di utilizzazione della casella di posta elettronica in dotazione.

2. Con il secondo, essa deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 15 Cost., 616 c.p., disposizioni del d.lg. 196/2003 (tra cui l’art. 11, secondo comma), in relazione agli artt. 24 Cost., 51 c.p., 24, primo comma, lett. f) d.lg. cit., per omissione dalla Corte territoriale di alcun bilanciamento tra il diritto alla riservatezza della corrispondenza (sempre che sussistente, alla luce della precedente censura) e il diritto di difesa della società, a fronte del grave danneggiamento dei beni aziendali (per la cancellazione, incontestata, di tutti i dati, messaggi email, documenti, numeri di telefono … contenuti nel computer riconsegnato dopo la sua formattazione), dovendo essa porsi nella condizione di verificare, tramite consulente informatico, la possibilità del loro recupero: a prescindere dall’esito di un tale bilanciamento, che pure avrebbe dovuto essere di prevalenza del diritto di difesa, anche attraverso la scriminante dell’esercizio di un diritto (art. 51 c.p.), quale il trattamento dei dati, anche in assenza del consenso dell’interessato, qualora necessario all’esercizio o alla tutela di un diritto in sede giudiziaria (24, primo comma, lett. f, d.lg. 196/2003).

3. Con il quinto motivo, la ricorrente deduce omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, quali: la riconsegna dal dirigente dei dispositivi aziendali dolosamente svuotati di tutti i dati, messaggi email, documenti, numeri di telefono … ivi contenuti; il contatto del dirigente, un mese dopo le dimissioni, con il tecnico informativo di ALC per la cancellazione di alcuni messaggi email nel frattempo inviatigli dai mittenti all’indirizzo di posta elettronica aziendale; il contenuto di tali messaggi.

3. I tre motivi, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono fondati.

4. Reputa il Collegio che effettivamente la Corte subalpina abbia omesso l’esame del fatto storico (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053) della riconsegna dal dirigente dei dispositivi aziendali svuotati di tutti i dati: circostanza di cui peraltro essa stessa ha dato atto quale elemento, acquisito dalle risultanze istruttorie, valorizzato dal Tribunale (“la cancellazione totale … di dati e file presenti sull’hard disk del computer aziendale”: al penultimo capoverso di pg. 4 della sentenza). Ed esso è pure di carattere decisivo, nel senso della sua idoneità a determinare un esito diverso della controversia (Cass. 27 novembre 2014, n. 25216; Cass. 29 ottobre 2018, n. 27415).

La giurisprudenza penale di questa Corte ritiene, infatti, che anche la cancellazione, che non escluda la possibilità di recupero se non con l’uso anche dispendioso di particolari procedure, integri gli estremi oggettivi della fattispecie delittuosa dell’art. 635bis c.p., per conformità alla sua ratio (Cass. pen. 5 marzo 2012, n. 8555). Ed è ciò che è avvenuto nel caso di specie, per la necessità da parte della società datrice di affidare l’hard disk del computer formattato ad un perito informatico (ing. Porta) per le relative analisi, che le hanno consentito di recuperare una serie di conversazioni scritte effettuate dal dirigente sull’applicativo Skype negli anni 2011 – 2013 (ultimi tre alinea di pg. 2 e primo di pg. 3 della sentenza): circostanza parimenti valorizzata dal Tribunale, che ha in particolare negato che “l’hard disk del computer fosse stato manipolato prima di essere consegnato all’ing. Porta per la sua analisi, avendo la stessa indagine consentito di escludere qualsiasi tipo di manipolazione” (così all’ultimo capoverso di pg. 6 della sentenza).

5. Tanto premesso, giova ribadire che la produzione in giudizio di documenti contenenti dati personali è sempre consentita ove sia necessaria per esercitare il proprio diritto di difesa, anche in assenza del consenso del titolare e quali che siano le modalità con cui è stata acquisita la loro conoscenza: dovendo, tuttavia, tale facoltà di difendersi in giudizio, utilizzando gli altrui dati personali, essere esercitata nel rispetto dei doveri di correttezza, pertinenza e non eccedenza previsti dall’art. 9, lett. a) e d) l. 675/1996, sicché la legittimità della produzione va valutata in base al bilanciamento tra il contenuto del dato utilizzato, cui va correlato il grado di riservatezza, con le esigenze di difesa (Cass. 11 febbraio 2009, n. 3358; così pure, ai sensi degli artt. 4 e 11 d.lg. 196/2003 applicabili ratione temporis: Cass. 8 febbraio 2011, n. 3033). E che le prove precostituite, quali i documenti, entrano nel giudizio attraverso la produzione e nella decisione in virtù di un’operazione di semplice logica giuridica, essendo tali attività contestabili solo se svolte in contrasto con le regole rispettivamente processuali o di giudizio, che vi presiedono, senza che abbia rilievo una valutazione in termini di utilizzabilità, categoria propria del rito penale ed ignota al processo civile (Cass. 25 marzo 2013, n. 7466).

5.1. Ebbene, la Corte territoriale ha omesso di bilanciare i diritti di difesa e di tutela della riservatezza, posto che, in materia di trattamento dei dati personali, il diritto di difesa in giudizio prevale su quello di inviolabilità della corrispondenza, consentendo l’art. 24, lett. f) l. 196/2003 di prescindere dal consenso della parte interessata per il trattamento di dati personali, quando esso sia necessario per la tutela dell’esercizio di un diritto in sede giudiziaria, a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento (Cass. 20 settembre 2013, n. 21612). Quanto alla sua ‘ estensione, questa Corte ha esplicitamente affermato che “il diritto di difesa non è limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso … ” (Cass. 29 dicembre 2014, n. 27424, che ha escluso la natura di illecito disciplinare di una condotta scriminata dal legittimo esercizio di un diritto, ai sensi dell’art. 51 c.p., per la sua portata generale nell’ordinamento, non limitata all’ambito penale).

5.2. Nel caso di specie, l’attività di recupero dei dati, cancellati dal dirigente prima della riconsegna del computer avuto in dotazione e integranti patrimonio aziendale, dopo la cessazione del rapporto di lavoro (in proposito, con specifico riferimento ai controlli a distanza regolati dall’art. 4, secondo comma l. 300/1970, nel testo anteriore alle modifiche dell’art. 23, primo comma d.lg. 151/2015, i controlli difensivi datoriali non richiedendo l’osservanza delle garanzie ivi previste, se diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale, tanto più se disposti ex post, dopo l’attuazione del comportamento in addebito: Cass. 28 maggio 2018, n. 13266), è stata compiuta da ACL s.r.l. in funzione dell’odierno giudizio risarcitorio, sul presupposto della distruzione da parte del dipendente di beni aziendali, quali appunto quelli memorizzati nel personal computer: condotta integrante violazione dei doveri di fedeltà e di diligenza, tale da costituire giusta causa di licenziamento (Cass. 14 maggio 2015, n. 9900).

6. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 24, 111 Cost., 113 c.p.c., 11, secondo comma, 160, sesto comma d.lg. 196/2003, per inesistenza nell’ordinamento processuale civile (al contrario di quello penale) di alcuna norma di divieto, erroneamente ritenuto dalla Corte d’appello, di utilizzabilità di prove, pure acquisite in violazione di legge, dovendo essere operato di volta in volta un bilanciamento con il diritto di difesa (qui, in particolare) del diritto alla riservatezza, dovendosi pure rilevare il mancato disconoscimento delle riproduzioni documentali, ai sensi dell’art. 2712 c.c., alla corrispondenza elettronica recuperata, riservando il Codice della Privacy la questione della validità, efficacia e utilizzabilità di tali atti alla disciplina processuale in materia civile e penale; e con il quarto, violazione e falsa applicazione dell’art. 4 l. 300/1970, per la non pertinenza della norma, relativa al divieto di controllo datoriale a distanza sull’attività lavorativa del dipendente, lesivo della sua dignità, all’indagine della società, a tutela del proprio patrimonio aziendale e dopo le dimissioni del dipendente e pertanto retrospettivamente rispetto ad una condotta posta in essere nel corso di un rapporto di lavoro ormai cessato, a scopo unicamente difensivo; essendo peraltro riconosciuta la legittimità pure del controllo a distanza, se finalizzato alla tutela del patrimonio aziendale.

7. Essi sono assorbiti.

8. Dalle superiori argomentazioni discende allora l’accoglimento del primo, secondo e quinto motivo di ricorso, con assorbimento del terzo e del quarto, cassazione della sentenza, in relazione ai motivi accolti e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Torino in diversa composizione.

P.Q.M.

Accoglie il primo, il secondo e il quinto motivo di ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Torino in diversa composizione.