CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 settembre 2019, n. 22752
Tributi – Importazioni – Dazi – Avvisi di rettifica degli accertamenti – Dazi anti-dumping – Errata classificazione della merce importata – Certificato di origine preferenziale errato – Legittimo affidamento del debitore – Esclusione
Fatti di causa
1. – La C. Italia s.r.l. ha proposto ricorso avverso l’avviso di rettifica d’accertamento con cui l’Agenzia delle dogane di Gaeta le aveva intimato il pagamento della somma di € 66.157,83 a titolo di dazio anti-dumping, ritenendo errata, all’esito delle verifiche condotte presso il laboratorio chimico dell’Agenzia delle dogane di Roma, la classificazione indicata dalla società contribuente nella dichiarazione doganale relativa a lampade fluorescenti.
La Commissione tributaria provinciale di Latina ha parzialmente accolto il ricorso in relazione alla classificazione delle merci, ritenendo dovuta l’iva, che la C. Italia S.r.l. provvedeva a corrispondere.
2. – La Commissione tributaria regionale del Lazio ha accolto l’appello dell’Agenzia delle dogane, ritenendo legittimi gli atti impositivi impugnati.
3. – La C. Italia s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
L’Agenzia delle dogane si è costituita con controricorso.
In prossimità dell’udienza, la C. Italia s.r.l. ha depositato una memoria difensiva.
Ragioni della decisione
1. – In via preliminare vanno respinte le eccezioni di inammissibilità del controricorso contenute nella memoria difensiva, riportando l’atto di costituzione dell’Agenzia delle dogane – sia pur sinteticamente – le ragioni di infondatezza del ricorso. Il controricorso non deve necessariamente riportare, a pena di inammissibilità, la esposizione sommaria dei fatti di causa, ma deve invece contenere i motivi di diritto su cui si fonda, che ne costituiscono requisito essenziale a pena di inammissibilità, ai sensi dell’art. 366 n. 4 c.p.c. richiamato dell’art. 370, comma 2, c.p.c. (Cass. 13 marzo 2006, n. 5400).
2. – Con il primo motivo di ricorso si prospetta la violazione del principio di buona fede e legittimo affidamento in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., in base all’art. 5 n. 2 del Reg. Cee n. 1697/79, nonché all’art. 220, par. 2, lett. B del Reg. Cee n. 2913/92. Violazione di principi affermati dalla pronuncia Cass. n. 14812/2010. Parte ricorrente, al riguardo, evidenzia che l’Amministrazione non può procedere al recupero dei diritti doganali non riscossi sulla base di errori non valutabili e non conoscibili dal contribuente, se quest’ultimo abbia agito in buona fede e abbia rispettato le norme previste in relazione alla presentazione della dichiarazione in dogana. Nel caso di specie, come evidenziato nel ricorso, il recupero dell’Amministrazione sarebbe scaturito dal suo comportamento attivo, sebbene incerto, circa la corretta applicazione del codice di classificazione alle merci importate. L’Amministrazione, infatti, aveva dapprima applicato, per il tramite del proprio laboratorio chimico, un codice che il contribuente ha pedissequamente applicato, avendolo considerato corretto anche per le successive operazioni d’importazione della medesima merce. Successivamente, in maniera del tutto arbitraria e repentina, ha mutato i criteri per l’attribuzione dei codici in questione, senza che la C. Italia S.r.l. fosse stata edotta di tale cambiamento. Da ciò conseguirebbe la completa buona fede della società contribuente, la quale confidava nella correttezza dell’operato del laboratorio chimico che è organo interno all’Autorità doganale competente. Parte ricorrente sottolinea altresì che le merci risultavano praticamente identiche a quelle oggetto del contenzioso di cui al R.G. n. 2391/2008 che ha avuto esito nella sentenza n. 02/05/2010 depositata in data 11 gennaio 2010 e passata in giudicato per mancata impugnazione da parte dell’Ufficio e allegata al ricorso.
Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. La pronuncia impugnata, secondo quanto affermato da parte ricorrente, violerebbe l’art. 10 dello Statuto dei diritti del Contribuente che sancisce il principio generale secondo cui i rapporti tra contribuente e Amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede, per cui il contribuente non può essere ingiustamente assoggettato a provvedimenti sanzionatori, laddove abbia operato nel pieno rispetto delle norme e degli “orientamenti” dell’Amministrazione. Si chiede in tal senso la cassazione del capo della sentenza n. 873/40/2013 nella parte in cui afferma che: «l’attività del Laboratorio può rientrare nello svolgimento dell’attività di controllo che non genera affidamento per le operazioni successive aventi per oggetto merci similari».
2.1. – Il primo e il secondo motivo, da trattarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono infondati.
L’art. 220, paragrafo 2, lett. b) del Regolamento CE n. 2913/92/CEE, come modificato dal Regolamento n. 2700/2000, esclude che l’Amministrazione possa procedere alla contabilizzazione a posteriore dei dazi quando:
«b) l’importo dei dazi legalmente dovuto non è stato contabilizzato per un errore dell’autorità doganale, che non poteva ragionevolmente essere scoperto dal debitore avendo questi agito in buona fede e rispettato tutte le disposizioni previste dalla normativa in vigore riguardo alla dichiarazione in dogana.
Quando la posizione preferenziale di una merce è stabilita in base ad un sistema di cooperazione amministrativa che coinvolge le autorità di un paese terzo, il rilascio da parte di queste ultime di un certificato, ove esso si riveli inesatto, costituisce, ai sensi del primo comma, un errore che non poteva ragionevolmente essere scoperto.
Il rilascio di un certificato inesatto non costituisce tuttavia un errore in tal senso se il certificato si basa su una situazione fattuale inesatta riferita dall’esportatore, salvo se, in particolare, è evidente che le autorità che hanno rilasciato il certificato erano informate o avrebbero ragionevolmente dovuto essere informate che le merci non avevano diritto al regime preferenziale.
La buona fede del debitore può essere invocata qualora questi possa dimostrare che, per la durata delle operazioni commerciali in questione, ha agito con diligenza per assicurarsi che sono state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale.
Il debitore non può tuttavia invocare la buona fede qualora la Commissione europea abbia pubblicato nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee un avviso in cui sono segnalati fondati dubbi circa la corretta applicazione del regime preferenziale da parte del paese beneficiario;».
L’undicesimo considerando del regolamento n. 2700/2000 ha giustificato l’introduzione nel codice doganale dei paragrafi 2, 3, 4 e 5 dell’art. 220, n. 2, lett. b), nei seguenti termini: «È necessario, per il caso particolare dei regimi preferenziali, definire le nozioni di errore delle autorità doganali e di buonafede del debitore. Il debitore non dovrebbe essere responsabile di un cattivo funzionamento del sistema dovuto ad un errore commesso dalle autorità di un paese terzo. Tuttavia, il rilascio di un certificato inesatto da parte di dette autorità non dovrebbe essere considerato un errore se esso è stato elaborato in base ad una richiesta contenente informazioni inesatte. Occorre valutare l’inesattezza delle informazioni fornite dall’esportatore nella sua richiesta sulla scorta di tutti gli elementi fattuali contenuti nella richiesta stessa. Il debitore può invocare la buonafede se può dimostrare di aver dato prova di diligenza, a meno che non sia stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee un avviso che segnala fondati dubbi».
Il procedimento di cui all’art. 220, pertanto, tende a limitare il pagamento a posteriori dei dazi all’importazione o all’esportazione ai casi in cui siffatto pagamento è giustificato e compatibile con un principio fondamentale quale il principio della tutela del legittimo affidamento (Corte di giustizia 20 novembre 2008, C-375/07, Heuschen & Schrouff Orientai Foods Trading, punto 57; Corte di giustizia 11 novembre 1999, C048/98, Sòhl e Sòhlke, punto 54; Corte di giustizia 1 aprile 1993, C-250/91, Hewlett Packard France, punto 46).
La giurisprudenza comunitaria tuttavia ha più volte precisato che la contabilizzazione a posteriori dei dazi è possibile solo quando sussistono, contemporaneamente, tutte le condizioni poste dalla norma, e, cioè, i dazi non devono esser riscossi se determinati da un errore delle autorità competenti, tale errore deve esser di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore in buona fede, il quale, infine, deve aver rispettato tutte le prescrizioni della normativa in vigore relative alla sua dichiarazione in dogana (Corte di giustizia 3 marzo 2005, C-499/03, Peter Biegl Nahrungsmittel GmbH, punto 46; Corte di giustizia 14 maggio 1996, C-153/94 e C-204/94, Farne Seafood, punto 84; Corte di giustizia 11 ottobre 2001, C-30/00, William Hinton & Sons, punto 68).
La circostanza che parte delle citate sentenze siano state rese con riferimento al testo della norma antecedente la modifica operata dal Reg. n. 2700 del 2000 è irrilevante: tale novella, come risulta dal suo undicesimo “considerando”, ha carattere essenzialmente interpretativo, limitandosi a esplicare le nozioni di errore delle autorità doganali già contenute nella versione originaria dell’art. 220, quali precisate dalla giurisprudenza della Corte (Corte di giustizia 9 marzo 2006, C-293/04, Beemsterboer, punto 22).
Ne consegue, come più volte ritenuto da questa Corte (Cass. 6 luglio 2016, n. 13770; Cass. 27 marzo 2013, n. 7702; Cass. 14 marzo 2012, n. 4022; Cass. 12 giugno 2009, n. 13680), che la mancanza anche di uno solo dei citati presupposti, basta a escludere il diritto del debitore a non vedersi assoggettato al dazio.
In particolare l’errore della dogana, secondo il tenore letterale dell’art. 220, n. 2, lett. b, par. 3, del Regolamento CE n. 2913/92/CEE, non può consistere nella mera ricezione delle dichiarazioni inesatte dell’esportatore dato che le autorità stesse non debbono verificarne o valutarne la veridicità, mentre resta integrato da un comportamento attivo, che secondo la casistica – poi codificata nella seconda parte del citato par. 3, della lett. b) della norma in esame – si basa su un’errata interpretazione delle norme in materia di origine (Corte di giustizia 14 novembre 2002, causa C-251/00, Ilumitronica, punti 44 e 45) o di erronea classificazione doganale, risultante dal raffronto tra la voce dichiarata e la designazione delle merci secondo la nomenclatura (Corte di giustizia 1 aprile 1993, C-250/91, Società Hewlett Packard France, punto 21).
In altri termini, il legittimo affidamento del debitore è degno della protezione prevista dall’art. 220 del Regolamento CE n. 2913/92/CEE soltanto se le autorità competenti hanno determinato i presupposti su cui si basa la fiducia del debitore, diversamente, costui è tenuto a sopportare il rischio derivante da un documento commerciale che si riveli falso in occasione di un successivo controllo (Corte di giustizia 14 novembre 2002, causa C-251/00, Ilumitronica, punto 43), vigendo il principio secondo cui la Comunità non è tenuta a sopportare le conseguenze pregiudizievoli dei comportamenti scorretti dei fornitori degli importatori (Corte di giustizia 9 marzo 2006, C-293/04, Beemsterboer, punto 43).
Nel caso di specie non sussistono le condizioni per riconoscere l’operatività dell’art. 220 del Regolamento CE n. 2913/92/CEE poiché l’Amministrazione ha proceduto a una riclassificazione doganale della merce all’esito di un controllo del laboratorio chimico che ha determinato la nuova attribuzione del codice doganale.
In tema di dazi doganali, la natura o composizione delle merci presentate alla dogana è accertabile mediante analisi di laboratorio, i cui risultati sono contestabili dall’operatore con richiesta di ripresa del contraddittorio (Cass. 9 novembre 2018, n. 28667).
Alcun rilievo assume la deduzione effettuata nel ricorso con riferimento ad altra pronuncia resa tra le stesse parti, non avendo parte ricorrente invocato l’efficacia del relativo giudicato e mancando la riproduzione nel ricorso del testo integrale della pronuncia (Cass. 31 maggio 2018, n. 13988; Cass. 23 giugno 2017, n. 15737).
3. – Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
4. – Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1 -quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento di spese di lite che si liquidano in € 5.000,00 per onorari, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13.
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