CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 dicembre 2021, n. 39699
Licenziamento – Illegittimità – Accertamento – Sospensione del rapporto in pendenza di fallimento
Fatto
1. Con sentenza del 16 ottobre 2018, la Corte d’appello di Bari, nel giudizio di rinvio dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 264/2018 (di annullamento di quella del 22 giugno 2013 della stessa Corte, che, in riforma della sentenza di primo grado di rigetto delle domande del lavoratore, aveva accertato l’illegittimità del licenziamento intimato il 3 febbraio 2006 da A. s.p.a. al dipendente A. A. in quanto ingiustificato e condannato la società datrice al pagamento in suo favore, a titolo di indennità prevista dalla contrattazione collettiva di settore per il dirigente in caso di licenziamento ingiustificato, di somma pari a diciassette mensilità dell’ultima retribuzione effettivamente percepita), dichiarava illegittimo il suddetto licenziamento, rigettava la domanda di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condannava la curatela del Fallimento A. s.p.a. (dichiarato nelle more del primo giudizio di legittimità) al pagamento, in suo favore, delle retribuzioni maturate dal 3 febbraio 2006 (data di licenziamento) al 3 ottobre 2017 (di dichiarazione del fallimento della società), con detrazione dell’aliunde perceptum, derivante dalle attività di imprenditore artigiano e di lavoratore autonomo (commercialista), risultante dalle dichiarazioni dei redditi in atti.
2. Investito dalla sentenza rescindente dell’esame (omesso da quella in grado d’appello) dei fatti storici comportanti l’appartenenza o meno del lavoratore alla categoria dirigenziale, il giudice di rinvio ne riteneva, al momento del licenziamento, la qualità (non dirigenziale) di impiegato, corrispondente alle mansioni svolte, in assenza di alcuna contestazione della curatela resistente in riassunzione e sulla base della documentazione in atti, parimenti non contestata.
3. La Corte territoriale ravvisava quindi la cessazione certa di ogni attività di impresa della società datrice dalla data di fallimento, per l’inammissibilità, siccome nuova, della deduzione dalla curatela della cessazione dal 31 dicembre 2009, all’epoca del giudizio di primo grado (definito con sentenza del 20 novembre 2010). E commisurava il risarcimento del danno, in favore del lavoratore, alle retribuzioni come sopra indicato, con detrazione del documentato aliunde perceptum.
4. Infine, essa riteneva l’inammissibilità, per novità, della sua domanda di pagamento dei contributi omessi, formulata per la prima volta nel giudizio di rinvio.
5. Con atto notificato il 17 settembre 2019, il lavoratore ricorreva per cassazione con due motivi; il Fallimento intimato non svolgeva difese.
6. La causa era quindi rimessa, per la rilevanza nomofilattica della questione posta, all’odierna pubblica udienza di discussione.
7. Il P.G. rassegnava conclusioni scritte, a norma dell’art. 23, comma 8bis d.l. 137/20 inserito da I. conv. 176/20, nel senso dell’accoglimento del ricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 18 I. 300/1970, 51 l. fall., per erronea negazione della richiesta propria reintegrazione nel posto di lavoro, nonostante la sospensione del rapporto in pendenza di fallimento, a norma dell’art. 72 l. fall., nella competenza funzionale del giudice del lavoro e nel proprio mantenuto interesse al ripristino del rapporto, per le “possibili utilità connesse, quali la ripresa del rapporto (in relazione all’eventualità di un esercizio provvisorio, d’una cessione dell’azienda o della ripresa della sua amministrazione da parte del fallito a seguito di concordato fallimentare o di ritorno in bonis”.
2. Esso è infondato.
3. Secondo consolidato indirizzo di questa Corte (ribadito anche da Cass. 11 gennaio 2018, n. 522), meritevole di continuità siccome corretto, il fallimento non può determinare ex se lo scioglimento del rapporto di lavoro, per coordinamento con l’art. 72 l. fall., rimanendo sospeso in attesa della dichiarazione del curatore, il quale può scegliere di proseguirlo, così esercitando una legittima facoltà di subentro nel rapporto, attivandone la prosecuzione con l’obbligo di adempimento per entrambe le parti delle prestazioni corrispettive; ovvero di sciogliersi da esso, nel rispetto delle norme limitative dei licenziamenti individuali e collettivi, non essendo in alcun modo sottratto ai vincoli propri dell’ordinamento lavoristico perché la necessità di tutelare gli interessi della procedura fallimentare non esclude l’obbligo del curatore di rispettare le norme in generale previste per la risoluzione dei rapporti di lavoro (tra le altre: Cass. 2 marzo 2009, n. 5033; Cass. 23 settembre 2011, n. 19405; Cass. 28 maggio 2019, n. 14503) e potendo il lavoratore reagire al recesso intimato dal curatore con gli ordinari rimedi impugnatori. Sicché, qualora sia giudizialmente accertato che il licenziamento è stato intimato in difformità dal modello legale, la curatela è esposta alle conseguenze derivanti dall’illegittimo esercizio del potere unilaterale, nei limiti in cui le stesse siano compatibili con lo stato di fatto determinato dal fallimento. E nel caso di disgregazione definitiva dell’azienda, l’eventuale illegittimità del recesso non potrebbe condurre alla ripresa effettiva del rapporto di lavoro (operando il principio anche nel caso di imprenditore in bonis: Cass. Cass. 7 giugno 2007, n. 13297; Cass. 22 dicembre 2008, n. 29936).
3.1. Giova poi ribadire anche il principio per il quale, in caso di fallimento dell’impresa datrice di lavoro, persiste l’interesse del lavoratore in precedenza licenziato alla reintegrazione nel posto di lavoro, previa dichiarazione giudiziale dell’illegittimità del licenziamento, in quanto una tale pronuncia ha ad oggetto, non solo il concreto ripristino della prestazione di lavoro, ma anche le possibili utilità connesse al rapporto lavorativo, benché posto in uno stato di quiescenza, quali in particolare, la ripresa del lavoro, in relazione all’eventualità di esercizio provvisorio, di cessione in blocco dell’azienda, o di ripresa della sua amministrazione da parte del fallito a seguito di concordato fallimentare, sia l’ammissione a benefici previdenziali, quali l’indennità di cassa integrazione, di disoccupazione, di mobilità (Cass. 3 febbraio 2017, n. 2975; Cass. 11 gennaio 2018, n. 522).
4. Nel caso di specie, la Corte territoriale, preliminarmente ritenuta inammissibile, siccome nuova in quanto per la prima volta formulata nel giudizio di rinvio, la deduzione della curatela fallimentare di cessazione di ogni attività aziendale sin dal 31 dicembre 2009 (così all’ultimo capoverso di pg. 3 della sentenza), ha tuttavia accertato che “dal momento della dichiarazione di fallimento … sopravvenuta in concomitanza con la sentenza della Cassazione, è pacificamente cessata ogni attività e tale ultimo dato può ritenersi validamente acquisito al processo” (penultimo capoverso di pg. 4 della sentenza).
4.1. Ebbene, tale accertamento (non già di mera dichiarazione di fallimento della società datrice, ma) di cessazione effettiva dell’attività d’impresa (circostanza che, per essere introdotta nel processo, neppure esige dal datore di lavoro, che abbia cessato totalmente l’attività e sia convenuto in giudizio da un dipendente il quale deduca l’illegittimità del licenziamento, la proposizione di una domanda riconvenzionale o di una formale eccezione: Cass. 7 giugno 2007, n. 13297, p.to 7 in motivazione) non è stato oggetto di contestazione. Il lavoratore ricorrente non ha infatti dedotto, né tanto meno provato, il proprio interesse concreto ed attuale (come sarebbe stato suo onere, a norma dell’art. 100 c.p.c.) ad una pronuncia di condanna reintegratoria, in funzione di un’effettiva possibilità di ripresa del lavoro, in relazione alle eventualità suindicate, essendosi limitato alla sola enunciazione di corretti e condivisibili principi in diritto; tuttavia, come è noto, esso non può consistere in un interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, priva di riflessi sulla decisione adottata, ininfluente in relazione alle domande o eccezioni proposte (Cass. 23 maggio 2008, n. 13373; Cass. 11 dicembre 2020, n. 28307).
5. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce nullità della sentenza per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto inammissibile, per novità, la domanda relativa ai contributi previdenziali, pure violando e falsamente applicando gli artt. 19, 23 I. 218/1952, nonostante la propria tempestiva richiesta, con il ricorso introduttivo del giudizio, di condanna del datore di lavoro “a pagare gli ulteriori danni subiti” ed il proprio interesse all’accertamento del diritto spettantegli, per l’inadempimento datoriale agli obblighi contributivi (dovuti quale pena privata, a norma dell’art. 23, primo comma, in dipendenza dell’illecito contrattuale integrato dal licenziamento illegittimo), essendo la condanna al pagamento preclusa dall’intervenuta dichiarazione di fallimento.
6. Esso è fondato.
7. Pare opportuno ribadire che ricorre una domanda nuova, qualora gli elementi dedotti in secondo grado comportino il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato, integrando una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella fatta valere in primo grado: e ciò anche se questi siano già stati esposti nell’atto introduttivo del giudizio, al mero scopo di descrivere e inquadrare altre circostanze, mentre soltanto nel giudizio di appello siano stati per la prima volta dedotti con una differente portata, a sostegno di una nuova pretesa, introducendo un nuovo tema di indagine e di decisione (Cass. 23 marzo 2006, n. 641; Cass. 8 aprile 2010, n. 8342). Ed infatti, il divieto di jus novorum non concerne soltanto le allegazioni in fatto e l’indicazione degli elementi di prova, ma anche (e soprattutto) la specificazione delle causae petendi fatte valere in giudizio a sostegno delle azioni e delle eccezioni, pur se la nuova prospettazione sia fondata sulle stesse circostanze di fatto, ma non si risolva in una semplice precisazione di una tematica già acquisita al giudizio (Cass. 22 novembre 2010, n. 23614; Cass. 11 gennaio 2018, n. 535).
8. Inoltre, nel regime di stabilità reale previsto dall’art. 18 l. 300/1970, nel testo modificato dall’art. 1 l. 108/1990 applicabile anche per il tempo anteriore alla sua entrata in vigore, nel periodo compreso tra la data dell’illegittimo licenziamento e quella della pronuncia giudiziale contenente l’ordine di reintegrazione del lavoratore, rimangono in vita il rapporto assicurativo previdenziale ed il corrispondente obbligo del datore di lavoro di versare all’ente previdenziale i contributi assicurativi (Cass. 1 marzo 2005, n. 4261, con richiamo di Corte cost. n. 7 del 1986), dovuti, indipendentemente dalla erogazione della retribuzione (Cass. s.u. 5 luglio 2007 n. 15143), tanto per la quota a suo carico quanto per quella a carico dei lavoratori, alla stregua dell’art. 23 I. 218/1952: esso, trasferendo l’obbligo di pagare una parte dei contributi da uno ad altro soggetto, introduce una pena privata giustificata dall’intento del legislatore di rafforzare il vincolo obbligatorio attraverso la comminatoria, per il caso di inadempimento, del pagamento di un importo superiore all’ammontare del mero risarcimento del danno (Cass. 4 aprile 2008, n. 8800).
Sicché, in caso di licenziamento illegittimo ai sensi dell’art. 18 l. 300/1970, il lavoratore ha diritto ad ottenere, secondo quanto previsto dalla stessa disposizione, la condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi previdenziali, accessoria a quella al risarcimento del danno, analogamente giustificata dalla continuità del rapporto di lavoro e da liquidare in riferimento al numero delle mensilità di retribuzione oggetto della condanna risarcitoria (Cass. 16 marzo 2002, n. 3905).
8.1. In ragione poi dell’autonomia del rapporto previdenziale rispetto a quello lavorativo, l’obbligazione contributiva non è esclusa dall’inadempimento retributivo del datore di lavoro, neppure ove questo sia solo parziale e sebbene la originaria obbligazione sia trasformata in altra di natura risarcitoria (Cass. 12 dicembre 2007, n. 26078; Cass. 21 maggio 2012, n. 7987).
9. Orbene, nel caso di specie, il lavoratore ha richiesto, fin dal ricorso introduttivo la condanna datoriale (al di là di quella “a pagare gli ulteriori danni subiti”) alla reintegrazione nel posto di lavoro (oggetto del dibattito processuale illustrato nella superiore parte espositiva), sicché, secondo la disciplina vigente ratione temporis e per le ragioni illustrate al superiore punto 8, la domanda di (condanna al pagamento e limitata, in conseguenza della preclusione derivante dal sopravvenuto fallimento, a quella di) accertamento dei contributi maturati (omessi nel pagamento dal datore di lavoro) non costituisce domanda nuova, in quanto connaturalmente accedente al contenuto tipico di quella di reintegrazione.
9.1. E il predetto ha mantenuto interesse, in quanto utilità connessa al rapporto lavorativo (Cass. 3 febbraio 2017, n. 2975; Cass. 11 gennaio 2018, n. 522), al versamento dei contributi previdenziali, dei quali sia stato omesso il pagamento, posto che esso integra un diritto soggettivo alla posizione assicurativa, che non si identifica con il diritto spettante all’Istituto previdenziale di riscuotere il proprio credito, ma è tutelabile mediante la regolarizzazione della posizione: con la conseguenza che il lavoratore ha la facoltà di chiedere in giudizio l’accertamento dell’obbligo contributivo del datore di lavoro e di sentirlo condannare al versamento dei contributi (che sia ancora possibile giuridicamente versare) nei confronti dell’ente previdenziale (Cass. 15 settembre 2014, n. 19398; Cass. 30 maggio 2019, n. 14853).
10. Dalle argomentazioni sopra svolte discende l’accoglimento del secondo motivo di ricorso, rigettato il primo, con la cassazione della sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto e decisione nel merito, in assenza di ulteriori accertamenti di fatto, ai sensi dell’art. 384, secondo comma, ult. parte c.p.c., di accertamento del diritto del lavoratore ai diritti contributivi omessi dalla società fallita dal 3 febbraio 2006 al 3 ottobre 2017; con la compensazione delle spese dell’intero giudizio tra le parti, per il suo esito alterno nei gradi di merito e la reciproca soccombenza nel giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara il diritto del lavoratore ai contributi omessi dalla società fallita dal 3 febbraio 2006 al 3 ottobre 2017.
Dichiara compensate tra le parti le spese dell’intero processo, nei suoi gradi di merito e nei giudizi di legittimità.
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