CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 febbraio 2019, n. 4224
Contratto a termine – Nullità – Risoluzione del rapporto per mutuo consenso – Accertamento
Fatti di causa
La A.Z.L. S.r.l. ha proposto ricorso in questa sede, con due motivi, per la cassazione della sentenza della Corte territoriale di Catanzaro depositata il 5.6.2012, con la quale era stato rigettato l’appello proposto dalla medesima società, nei confronti di A.G., avverso la sentenza del Tribunale di Lamezia Terme che, in accoglimento della domanda della lavoratrice, aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato tra le parti il 16.10.2006, ed accertato la sussistenza, tra le stesse, di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato a decorrere dal 15.7.2007, con diritto della ricorrente ad essere riammessa nel posto di lavoro e nelle mansioni da ultimo espletate e con condanna della convenuta al pagamento, in favore della prima, delle retribuzioni dovute dal 12.5.2008 sino alla pronunzia di primo grado, oltre accessori e spese di lite.
La G. ha resistito con controricorso ed ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 del codice di rito.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si deduce, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1372, primo comma, 1175 e 1375 c.c., nonché, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., la insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ed in particolare, si lamenta che la Corte di Appello abbia ritenuto l’insussistenza dello scioglimento del contratto per mutuo consenso, reputando che il mero decorso del tempo non poteva essere considerato indice della risoluzione consensuale, né poteva esserlo la riscossione delle somme ancora dovute, in quanto necessarie alla lavoratrice per assicurarsi il sostentamento, o l’iscrizione nelle liste di disoccupazione, non potendo la stessa attendere tutto il tempo necessario per la conclusione dell’instaurando giudizio. Da ciò, si desumerebbe, a parere della ricorrente, la palese illegittimità della sentenza oggetto del presente giudizio, la cui motivazione <<muove dall’erroneo presupposto secondo cui la risoluzione tacita del rapporto di lavoro è configurabile di fatto solo ove vi sia un rifiuto espresso del lavoratore di riprendere servizio>>.
2. Con il secondo motivo si censura la sentenza impugnata, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 32 della I. n. 183 del 2010, ed altresì, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., per omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Più specificamente, si deduce che la Corte di merito sia incorsa in una palese violazione dell’art. 32 citato, senza alcuna motivazione al riguardo, per non avere tenuto conto della richiesta formulata nella memoria depositata presso la cancelleria della Corte di Appello di Catanzaro, di applicazione della predetta modifica normativa introdotta dall’art. 32 della I. 4.11.2010 (successivamente al deposito dell’atto di appello, avvenuto il 19.3.2010), applicabile, ai sensi del comma 7 del medesimo articolo, a tutti i giudizi, compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della stessa legge, alla stregua della quale, nei casi analoghi a quello di cui si tratta, nell’accogliere la domanda, <<il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento in favore del lavoratore, stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 della legge 15.7.1966, n. 604>>.
1.1. Il primo motivo non è fondato.
Al riguardo, deve premettersi che la Corte di legittimità ha, in più occasioni, precisato che, <<affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle stesse parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo. La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, mentre grava sul datore di lavoro, che eccepisca tale risoluzione, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre fine ad ogni rapporto di lavoro>> (così, testualmente, Cass. n. 20605/2014; cfr., pure, nella materia, ex plurimis, Cass. nn. 11262/2013; 5887/2011, 23319/2010, 26935/2008, 20390/2007, 23554/2004).
Orbene, nella fattispecie, la Corte distrettuale si è attenuta a tale consolidato principio e, con una motivazione puntuale relativamente alla non configurabilità del mutuo consenso, ha reputato che la complessiva valutazione di tutti gli elementi del caso concreto non potesse indurre a ritenere cessato il rapporto di lavoro, per mutuo consenso tacito, alla data del 14.7.2007, in cui il contratto si è concluso, poiché il semplice decorso di pochi mesi tra la detta data e la messa in mora del datore di lavoro, con offerta delle prestazioni lavorative da parte della ricorrente (12.5.2008), e la riscossione delle ultime somme alla stessa dovute, compreso il TFR, non integrano una condotta incompatibile, sotto il profilo obiettivo, con la ripresa della funzionalità del rapporto di lavoro, in considerazione del fatto che tali somme erano finalizzate a garantire i fondamentali bisogni materiali e morali della lavoratrice e della propria famiglia; funzione, questa, costituzionalmente assegnata alle spettanze retributive. Peraltro, i giudici di seconda istanza hanno, altresì, osservato che la parte datoriale non ha fornito elementi dai quali potere desumere la volontà della G. di prestare acquiescenza alla conclusione definitiva del rapporto lavorativo di cui si tratta.
Per le considerazioni che precedono, il motivo non è in grado di incidere la sentenza oggetto del giudizio di legittimità relativamente alle censure sollevate.
2.1. Il secondo mezzo di impugnazione, relativo alla richiesta di applicazione dello ius superveniens, è, invece, fondato, atteso che, come chiarito da Cass., Sez. Un., n. 21691/2016, la censura ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. può concernere anche la violazione di disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, ove retroattive, e quindi applicabili al rapporto dedotto, dato che non si richiede necessariamente un errore, avendo ad oggetto il giudizio di legittimità non l’operato del giudice, ma la conformità della decisione adottata all’ordinamento giuridico e che, relativamente al capo della sentenza con il quale erano state regolate le conseguenze risarcitone, non si era formato alcun giudicato.
Peraltro, è da osservare che la parte ricorrente (secondo quanto risulta dalla documentazione allegata al ricorso per cassazione) ha correttamente depositato una memoria, in data 27.4.2012, presso la cancelleria della Corte di Appello di Catanzaro, contenente la richiesta di applicazione dello ius superveniens, in caso di soccombenza, dato che il gravame era stato proposto il 19.3.2010, cioè prima dell’entrata in vigore della legge n. 183 del 2010.
Per la qual cosa, alla lavoratrice spetta il risarcimento del danno derivante dalla mancata prosecuzione del rapporto, disciplinato dall’art. 32 della I. n. 183 del 2010, entrata in vigore nelle more del giudizio di appello.
3. Per tutto quanto esposto, la sentenza va cassata, in relazione al secondo motivo – respinto il primo -, con rinvio della causa alla Corte di Appello di Reggio Calabria, che dovrà limitarsi a quantificare l’indennità spettante alla lavoratrice ai sensi dell’art. 32 citato, per il periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronunzia del provvedimento con il quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro (cfr., per tutte, Cass. n. 14461/2015), con interessi e rivalutazione su detta indennità da calcolare a decorrere dalla data della pronunzia giudiziaria dichiarativa della illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro subordinato (cfr., tra le altre, Cass. n. 3062/2016), provvedendo, altresì, alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità ai sensi dell’art. 385, terzo comma, c.p.c..
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo; rigetta il primo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di Appello di Reggio Calabria anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
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